“L’idolo bugiardo”: il PIL, l’Europa e il Patto di stabilità
- 16 Gennaio 2024

“L’idolo bugiardo”: il PIL, l’Europa e il Patto di stabilità

Scritto da Giandomenico Scarpelli

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I lunghi e delicati negoziati tra la Commissione europea e i governi dell’Unione per la definizione del nuovo “Patto di stabilità e crescita” non hanno messo in discussione il riferimento al prodotto interno lordo (PIL) come denominatore dei coefficienti rilevanti del “Patto” stesso. In tal modo il PIL continuerà a costituire il perno delle finanze pubbliche degli Stati e quindi delle loro politiche economiche, determinando tra l’altro l’entità delle spese in campo sociale, come quelle relative alla scuola e alla sanità. Il rinnovo del Patto contribuirà così a perpetuare l’utilizzo del PIL come indicatore sintetico della “salute” dei sistemi economici e, più o meno implicitamente, come indicatore del benessere dei cittadini europei. L’aspetto singolare è che la Commissione europea e altre istituzioni comunitarie hanno affiancato alcuni economisti, Stati sovrani e istituzioni internazionali nel mettere in discussione l’importanza assunta dal PIL e dalla sua crescita, nel sottolineare i difetti metodologici di questo indicatore e nel proporre possibili alternative. Questo articolo richiama sommariamente tali contributi e critica l’Europa perché va “beyond GDP” solo in documenti formali, non in quelli “che contano”.

È bene innanzitutto rammentare che il PIL (e il suo “gemello” prodotto nazionale lordo – PNL) misura il valore (espresso in moneta corrente o in termini reali) dei beni e dei servizi finali prodotti in un determinato periodo di tempo[1]. L’elaborazione originaria del PIL è dovuta soprattutto agli studi condotti negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso da Simon Kuznets, economista statunitense di origine bielorussa, premio Nobel per l’economia nel 1971. L’esigenza di fondo che spinse Kuznets, molto sentita dal governo statunitense dell’epoca, era di conseguire una migliore conoscenza della struttura del sistema economico e dell’andamento della produzione e del consumo, soprattutto al fine di uscire dalla Grande depressione iniziata con il crollo della borsa di Wall Street dell’ottobre 1929[2].

Dopo la messa a punto metodologica e l’inizio della pubblicazione dei dati del PIL-PNL in molti Paesi, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta si iniziò a fare di questi dati un utilizzo smodato. Ezra J. Mishan, uno dei primi economisti che mise in discussione il suo utilizzo (oltre ad essere uno dei primi a richiamare l’attenzione sui costi della sua crescita[3]), nel 1984 scrisse: «Che cosa, dalla metà di questo secolo, è diventata la prima misura della posizione di una nazione? C’è una sola risposta: il suo “prodotto nazionale lordo”. Qual è oggi l’obiettivo verso il quale tutti i governi si affannano con indefettibile determinazione? Di nuovo, la risposta è una sola: l’obiettivo di aumentare la crescita del proprio PNL. In tutti i Paesi industriali, schiere di economisti sono impegnate a tempo pieno nelle previsioni del PNL e nell’analizzare, in tutti i loro tortuosi particolari, le implicazioni economiche delle variazioni annuali, trimestrali e mensili, delle sue componenti»[4]. In quei Paesi, quelli cioè nei quali il PIL è già elevato, una ulteriore crescita è ritenuta necessaria per diminuire la disoccupazione, aumentare la ricchezza degli individui e favorire il progresso tecnico, nonché per accrescere la forza della nazione e il suo prestigio internazionale; nei Paesi poveri la crescita del PIL viene vista come l’unica via per uscire dal sottosviluppo. Così, su pochi decimali in più o in meno di variazione di questo aggregato infuriano le polemiche politiche, cadono i governi, si comminano sanzioni ai Paesi per i loro disavanzi di bilancio, si materializzano o sfumano ricchezze finanziarie. Economisti, statistici, operatori della finanza, agenzie di rating, uomini politici, sindacalisti e giornalisti sembrano soggiogati dai numeri del PIL.

«Lo sviluppo economico», ha scritto Jeffrey Sachs, «ha numerose dimensioni e quindi sono necessarie diverse misurazioni per valutare il processo di sviluppo di un Paese. Ciononostante, tendiamo a basarci su una sola misurazione, quella del prodotto interno lordo (PIL)»[5]. In tal modo, lo sviluppo viene identificato con la crescita del PIL che, essendo “unidimensionale”, non costituisce certo un miglioramento qualitativo e quantitativo del sistema economico. Tra l’altro l’importanza esagerata attribuita al PIL ha spinto talvolta i responsabili delle statistiche (presumibilmente spinti dai propri governi) a manipolare i dati e a operare “trucchi” contabili[6]. Nonostante le molteplici critiche a questo modo di pensare e agire, e gli autorevoli tentativi di “correggere”, integrare o superare il PIL (o almeno di farne un uso più intelligente), ad esso si continua a far riferimento per qualsiasi aspetto che riguardi direttamente o indirettamente l’economia[7].

La mia breve rassegna delle critiche che nel corso degli anni sono state rivolte al PIL e al suo utilizzo smodato parte non da un economista, ma da uno dei pochissimi uomini politici che si sono resi conto della tendenza a fare del PIL un feticcio: Robert Kennedy. Nel marzo 1968, meno di tre mesi prima di essere assassinato, durante un discorso per la sua campagna elettorale, Bob Kennedy affermò: «Il PIL conta l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre strade dalle carneficine del fine settimana […] Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro istruzione e della gioia dei loro momenti di svago […] Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti tra noi. […] Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta»[8]. Robert Kennedy mise così in evidenza in modo appassionato che il PIL-PNL era diventato un indicatore del benessere economico della collettività senza avere le caratteristiche adatte per questa funzione. In effetti ciò era stato ben chiaro anche a Kuznets, che aveva cercato di escludere dal PIL tutto ciò che, a suo parere, era dannoso per il benessere, come la produzione di armamenti, le attività speculative, il gioco d’azzardo ecc[9]. Ma la volontà di non introdurre giudizi di valore nella contabilità nazionale, oltre che considerazioni pratiche, spinsero all’elaborazione di un aggregato onnicomprensivo. Da ciò le avvertenze di Kuznets sulla necessità di prendere i dati del PIL e della sua crescita cum grano salis: «[Kuznets] mise in guardia i politici e la società circa le manipolazioni e le false convinzioni relative al PIL e alla crescita economica. Continuò a ripetere che non ha alcun senso “sostenere che il tasso di crescita economica debba essere x per cento l’anno, senza specificare le componenti del prodotto che si vuole far crescere […] e i costi che la società deve sostenere per avere qualche beneficio”»[10].

“L’abuso” che molti economisti, politici e mass media iniziarono a fare del PIL venne ben presto criticato da alcuni grandi economisti. Nel 1959 Moses Abramovitz mosse una serie di rilievi di carattere metodologico e sostenne che il PIL non era in grado di misurare il benessere sociale in modo attendibile[11]. Negli anni successivi altre critiche vennero avanzate all’utilizzo del PIL come misura del successo economico di uno Stato e del benessere sociale; essi misero soprattutto in rilievo l’assenza di valutazioni qualitative su ciò che viene prodotto: il PIL misura con gli stessi criteri la costruzione di un ospedale e la produzione delle bombe che possono distruggerlo. Su questo punto fu tranchant Joan Robinson, che in un suo libro scrisse: «Il successo dell’economia di una nazione è identificata con il valore statistico del reddito nazionale lordo. Nessun problema viene sollevato circa il contenuto della produzione»[12]. Nello stesso periodo l’economista svedese Gunnar Myrdal, premio Nobel nel 1974, oltre a richiamare i difetti del PIL come parametro del benessere, pose in evidenza il riduzionismo metodologico insito nel suo utilizzo: «… il PNL misura soltanto l’incremento della produzione, mentre lo sviluppo rappresenta un’altra e più vasta categoria… Per sviluppo io intendo il moto ascendente dell’intero sistema sociale», per cui «la stessa idea che sia possibile caratterizzare la situazione di un Paese e i suoi cambiamenti mediante un indice, sia pure della produzione, come fattore di sviluppo, è erronea». Myrdal aggiunse: «Sono convinto che l’evoluzione della teoria economica non si fermerà allo stadio attuale, e che gli sviluppi ulteriori dovranno prendere come uno dei loro punti di partenza un esame critico del concetto centrale di PNL»[13].

Un altro premio Nobel, Jan Tinbergen, nel 1976 coordinò un gruppo di specialisti in diverse discipline per elaborare il terzo Rapporto al Club di Roma; il documento finale, pur non entrando specificamente nel tema del PIL come indicatore di sviluppo e di benessere, affermò che una valutazione corretta e completa del livello di sviluppo degli Stati non può prescindere da cosa si produce e da come il prodotto viene distribuito; aggiunse che: «I Paesi ricchi devono anzitutto dimostrare di essere pronti ad abbandonare la filosofia della crescita [del PIL, n.d.r.] e ad adottare una concezione di benessere generalizzato»[14].

Forse il critico più duro del PIL fu Oskar Morgenstern, uno straordinario economista matematico, autore insieme a John von Neumann della prima formulazione della teoria dei giochi. Morgenstern scrisse: «… mi pare completamente assurdo pensare che le variazioni del PNL possano essere la misura della “crescita” di un’intera nazione. Una singola grandezza scalare per esprimere qualcosa di complicato come i cambiamenti dell’intera attività economica!»[15]. Successivamente Morgenstern tornò sull’argomento, affermando: «Qualunque cosa porti ad una transazione in forma monetaria, nella quale beni o servizi passano di mano in mano contro moneta, viene registrata come positiva … Non importa neppure di che genere di prodotto si tratti: bombe atomiche, droga, automobili, cibo, inquinamento estetico con cartelloni pubblicitari e quant’altro si voglia. Chiaramente questo va contro il comune buon senso»[16]. Ed effettivamente vi sono alcune circostanze in cui pensare ad una correlazione tra PIL e benessere è completamente insensato: «Despite the distruction wrought by the Deepwater Horizon oil spill in 2010 and Hurricane Sandy in 2012, both events boosted US GDP because they stimulated rebuilding»[17].

Gli economisti impegnati in campo ambientale sono stati naturalmente molto attivi nel criticare l’utilizzo del PIL-PNL come indicatore del successo dell’economia e del benessere sociale. Nel 1966 l’anglo-statunitense Kenneth E. Boulding, in un suo celebre articolo, scrisse «The essential measure of the success of the economy is not production and consumption at all, but the nature, extent, quality and complexity of the total capital stock, including in this the state of the human bodies and minds included in the system»[18].Forse il più convinto critico tra gli economisti “ecologisti” è stato lo statunitense Herman Daly. Fin dai suoi primi scritti, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, egli ha trattato l’argomento sottolineando che il PIL-PNL è solo un indicatore (parziale) del volume della produzione e che la produzione comporta costi sociali (ad esempio il sacrificio del tempo libero) e ambientali (inquinamento ed esaurimento di risorse naturali). Quando questi costi diventano maggiori dei benefici apportati dai nuovi prodotti posti sul mercato, cioè dalla crescita del PIL, quest’ultima diventa antieconomica e deve fermarsi[19]. Guardando crescere il PNL gli economisti ortodossi si compiacciono e pensano che il benessere aumenti; non riflettono sul fatto che «Il PNL reale, la misura della cosiddet­ta crescita “economica”, non separa i costi dai benefici, ma li fonde come attività “economica”. Come potremmo sapere quando la crescita diventa antieconomica?… Le spese difensive indotte da queste cose negative sono tutte ag­giunte al PNL, non sottratte»[20].

Nel nostro Paese un tenace critico del PIL fu l’economista e politico Giorgio Ruffolo, che in un suo libro lo definì “l’idolo bugiardo”[21]. In un articolo, tra il serio e il faceto, Ruffolo scrisse: «In effetti, fin quando la produzione intaccava solo superficialmente le riserve della biosfera ed il benessere dipendeva soprattutto dalla soddisfazione dei bisogni primari, l’indice della produzione era una buona approssimazione a una misura del benessere. Ma quando l’affluenza della produzione materiale minaccia la biosfera e l’affluenza dei consumi riduce le utilità e aumenta i disagi che se ne traggono, i costi incrementali della produzione superano i vantaggi e, paradossalmente, l’aumento del PIL misura l’aumento del malessere. In tali condizioni l’idolo diventa un PIRL (Prodotto interno rozzo e lordo) e l’economista si installa in Pirlandia»[22].

In anni recenti altri illustri economisti hanno ribadito le critiche al PIL. Joseph Stiglitz (premio Nobel nel 2001) ha scritto: «The number [of GDP] does not measure health, education, equality of opportunity, the state of the environment or many other indicators of the quality of life. It does not even measure crucial aspects of the economy such as its sustainability: whether or not it is headed for a crash»[23].

In una briefing note dell’International Institute for Sustainable Development (IISD), pubblicata nel 2022, si legge: «GDP focuses excessively on short-term growth in the market economy and ignores its costs in terms of environmental degradation, loss of trust, growing inequality, and mounting debt. It also ignores the many well-being benefits that arise outside the market, including those related to volunteering, unpaid housework, enjoyment of nature, and social connections». Sulla divergenza tra crescita del PIL di un Paese e prosperità effettiva e sostenibile a lungo termine del Paese stesso, il documento cita il caso emblematico dell’Etiopia: «Ethiopia’s GDP growth reached 13.5% in 2004 and has remained above 5% since. However, land degradation has long been a critical threat in the country. More than 85% of the land has been degraded to various degrees (Gebreselassie et al., 2016). Major causes of land degradation in Ethiopia are rapid population increase, severe soil loss, deforestation, low vegetative cover, and unbalanced crop and livestock production (Taddese, 2001). None of these factors are captured by the country’s robust GDP growth»[24]. Nel 2022, un gruppo di studiosi coordinato da Sandrine Dixson-Declève, nel quadro dell’iniziativa Earth4All lanciata dal Club di Roma, ha redatto un rapporto nel quale si legge: «Negli ultimi decenni aver posto la crescita del Prodotto interno lordo come obiettivo unico per le economie ha avuto terribili conseguenze, deviando l’attenzione da misure economiche volte invece a realizzare un maggiore benessere della collettività»[25].

Anche le istituzioni internazionali hanno preso una posizione netta sui difetti del PIL e sulla necessità di un suo superamento. Nella Our Common Agenda, elaborata nel 2021 dal Segretario generale dell’ONU su richiesta dell’Assemblea generale, sono elencati gli intenti per accelerare il conseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile, e uno è il seguente: «… now is the time to correct a glaring blind spot in how we measure economic prosperity and progress. When profits come at the expense of people and our planet, we are left with an incomplete picture of the true cost of economic growth. As currently measured, gross domestic product (GDP) fails to capture the human and environmental destruction of some business activities. I call for new measures to complement GDP, so that people can gain a full understanding of the impacts of business activities and how we can and must do better to support people and our planet»[26].

Dopo aver iniziato la mia rapida rassegna sulle critiche al PIL non con un economista, ma con un uomo politico, la concludo pure con due non economisti. L’insigne sociologo Giampaolo Fabris scrisse: «Che lo stato di benessere di un Paese, lo stato della sua economia, si valutino ancora sulla base di un indicatore tanto semplicistico e grossolano, adatto forse a società di prima industrializzazione, non è soltanto incomprensibile, ma anche socialmente inaccettabile… Il PIL non misura la qualità dei prodotti, la loro compatibilità ambientale, la soddisfazione del consumatore, la qualità della vita. In breve non indica il livello di benessere di un Paese. Eppure nei confronti di questo indicatore c’è una sorta di idolatria»[27].

A sua volta, il fisico premio Nobel Giorgio Parisi, in un suo intervento alla Camera dei Deputati dell’8 ottobre 2021, ha sottolineato i pericoli del cambiamento climatico e poi si è richiamato proprio al menzionato discorso di Bob Kennedy, affermando: «Il prodotto interno lordo (PIL) dei singoli Paesi sta alla base delle decisioni politiche e la missione dei governi sembra essere quella di aumentare il PIL il più possibile, obiettivo che però è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico… Ora il PIL, come abbiamo sentito ben 53 anni fa [cioè al tempo del discorso di Bob Kennedy, n.d.r.], non è una buona misura dell’economia. Cattura la quantità, ma non la qualità della crescita. Sono stati proposti vari indici diversi tra cui l’indice di sviluppo sostenibile e l’indice di benessere economico sostenibile. Se il PIL rimarrà al centro dell’attenzione come adesso, il nostro futuro sarà ben triste. Tutti coloro che pianificano il nostro futuro devono usare un indice che consideri altri aspetti oltre il PIL»[28]. 

Vediamo dunque in breve quali sono «i vari indici diversi» ai quali ha fatto cenno Parisi nel suo discorso. Di fronte alle critiche sopra ricordate, già dai primi anni Settanta del Novecento iniziarono studi per elaborare indicatori alternativi dello sviluppo sociale, del benessere economico e dello stato dell’ambiente. I primi a muoversi in questo senso furono William Nordhaus e James Tobin (entrambi poi insigniti del premio Nobel) con l’elaborazione del Net Economic Welfare – NEW)[29]. Seguirono diversi contributi del genere, come l’Economic Aspects of Welfare – EAW elaborato da Xenophon Zolotas[30] e l’Index of Sustainable Economic Welfare – ISEW (Indice del benessere economico sostenibile – IBES) proposto da Herman Daly e John Cobb Jr.[31]. L’ISEW teneva conto di vari fattori, come la distribuzione del reddito, il valore del tempo libero, la disponibilità di capitale naturale ecc. Daly e Cobb riscontrarono una buona correlazione tra PNL e ISEW degli Stati Uniti fino alla fine degli anni Settanta, mentre in se­guito la correlazione sfumava. Come scrissero gli autori, l’ISEW «rivela decisamente una tendenza di lungo periodo al declino […] a causa soprattutto dell’aumento delle disu­guaglianze di reddito, dell’esaurimento delle risorse e dell’incapacità di fa­re investimenti adeguati per sostenere l’economia del futuro»[32]. Dall’ISEW è stato in seguito sviluppato il Genuine Progress Indicator (GPI); altri indicatori sono stati elaborati negli ultimi anni con l’obiettivo di costituire metriche più attendibili del PIL sia sotto il profilo del benessere sociale in senso stretto (tempo libero, sperequazione della distribuzione ecc.) sia della sostenibilità ambientale[33]. Di recente, nel quadro della menzionata iniziativa Earth4All, è stato proposto l’Earth4All Wellbeing Index[34].

Alcuni Stati sovrani hanno assunto iniziative volte ad elaborare indicatori più completi e attendibili del PIL. In Italia «l’ISTAT, insieme ai rappresentanti delle parti sociali e della società civile, ha sviluppato un approccio multidimensionale per misurare il “Benessere equo e sostenibile” (BES) con l’obiettivo di integrare le informazioni fornite dagli indicatori sulle attività economiche con le fondamentali dimensioni del benessere, corredate da misure relative alle diseguaglianze e alla sostenibilità»[35]. Dal 2016 il BES, essendo riportato in un allegato del Documento di economia e finanza (DEF), fa ufficialmente parte della documentazione di politica economica del Paese. Non si può inoltre non accennare alla Commissione di studio istituita nel 2008 dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy e coordinata dal menzionato Stiglitz, dall’economista indiano Amartya Sen (premio Nobel nel 1998) nonché da Jean-Paul Fitoussi. Nel suo Rapporto finale la Commissione ha ribadito che il PIL-PNL non è un indicatore adeguato del benessere, raccomandando ai policy-maker di tener conto di un’ampia gamma di indicatori in una sorta di dashboard[36].

Tra le istituzioni internazionali attive in questo campo va menzionata la Banca mondiale, che ha elaborato i World Development Indicators (WDI)[37] e l’OCSE, che ha costruito il Better Life Index (BLI), inserito nel quadro della periodica pubblicazione, a partire dal 2011, di un documento intitolato How’s Life? Measuring Well-being[38]. L’ONU, a sua volta, preso atto degli “shortcomings of GDP”, negli anni Novanta ha iniziato a produrre lo Human Development Index (HDI) (“indice di sviluppo umano”)[39] e più di recente l’Inclusive Wealth Index (IWI)[40]. Inoltre, ha pubblicato il documento Valuing What Counts come contributo di ampio respiro nella discussione sul superamento del PIL[41].

Nonostante le critiche al PIL sopra richiamate e i numerosi indicatori alternativi proposti per affiancare o sostituire il PIL nella misurazione dell’andamento dell’economia, del benessere sociale e della sostenibilità ambientale, il mondo politico-economico, in Italia e all’estero, resta saldamente legato al PIL. Enrico Giovannini ha scritto che nella sua attività professionale ha potuto «toccare con mano le resistenze ostinate degli economisti, degli statistici, dei politici e dei giornalisti ad accettare un profondo cambiamento di prospettiva […]»[42]. Le resistenze sono dovute a pigrizia mentale, a motivi di prestigio nazionale e ad interessi economici[43]. 

Tra i “resistenti” vi sono le istituzioni europee, che non hanno modificato la loro stance per quanto riguarda il riferimento al PIL nella riforma del Patto di stabilità e crescita. Eppure, le istituzioni europee hanno partecipato e partecipano attivamente alle ricerche per andare “oltre il PIL”. Come ha ricordato Lorenzo Fioramonti: «Nel novembre 2007 l’Unione Europea ha organizzato una conferenza di alto livello e, due anni dopo, la Commissione ha pubblicato un testo normativo dal titolo Il PIL e oltre, nel quale nota come il PIL sia stato impropriamente utilizzato come “un indice per lo sviluppo sociale e per il progresso in generale”. Ma poiché non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “le sue limitazioni vanno tenute in considerazione nell’analisi delle politiche e dei dibattiti”»[44]. In seguito, l’Unione ha organizzato altre conferenze, pubblicato diversi documenti sul tema e lanciato, a cura della Commissione, la cosiddetta “Beyond GDP Initiative”, i cui obiettivi sono: «Develop indicators that complement GDP and reflect a broader notion of progress. Ensure that these indicators are integrated into decision-making processes. Raise awareness among policymakers and the public about the importance of considering alternative measures of well-being and sustainable development. The Beyond GDP Initiative aims to ensure that the development and use of new indicators are integrated into decision-making processes at the national and EU levels. The initiative seeks to inform and raise public awareness by publicising research, reports, conferences and other fora for discussion on the topic»[45].

L’Unione Europea dunque è sensibile sul tema del superamento dell’ “idolo bugiardo”; promuove inoltre il Green Deal, adotta un piano d’azione per l’economia circolare e legifera in materia ambientale in modo oggettivamente avanzato, mostrando un notevole impegno per la difesa del capitale naturale[46]. Tutti aspetti per i quali il PIL è, come abbiamo visto, inutile e fuorviante. Dunque, appare singolare che l’Unione preveda che per la disciplina dei bilanci degli Stati membri e per tutte le valutazioni in materia economica resti il legame col PIL. Si potrà obiettare che il riferimento al PIL è previsto nel Trattato sull’Unione Europea e nell’allegato Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, e che sarebbe complicato modificare questi documenti; ma l’obiezione è senz’altro da respingere, poiché nel corso degli anni questi documenti sono già stati emendati e un’ulteriore modifica, alla luce di quanto precede, sarebbe senz’altro giustificata. Sui possibili termini di questa modifica non ci addentriamo: la materia è tecnicamente complessa e politicamente sensibile[47]. Qui ci limitiamo a richiamare l’attenzione sul fatto che lasciare il PIL sul “piedistallo europeo” mentre si porta avanti la Beyond GDP Initiative è un bel caso di schizofrenia.


[1] La qualificazione “finali” indica che, in una filiera produttiva, si conteggia nel PIL solo l’ultimo passaggio, quando cioè si arriva al consumatore finale: si conteggia quindi il prezzo del pane pagato dal consumatore, non quello della farina comprata dal fornaio.

[2] Sulla storia del PIL cfr. E. Masood (2016), The Great Invention. The Story of GDP and the Making (and Unmaking) of the Modern World, Pegasus Books; L. Fioramonti, Presi per il PIL, L’Asino d’oro, 2017, in particolare pp. 23ss.

[3] Cfr. E. J. Mishan (1967), The Costs of Economic Growth, Staples Press; trad. it. Il costo dello sviluppo, Franco Angeli, 1976.

[4] E. J. Mishan (1984), GNP: Measurement or Mirage?, Quarterly Review, National Westminster Bank, 4 (1), pp. 3–27; trad.ne tratta dall’edizione italiana: PNL: misurazione o miraggio?, in M. Talamona (a cura di) (1990), Tendenze e prospettive dell’economia politica, Cisalpino, p. 115.

[5] J. D. Sachs (2014), The Age of Sustainable Development, Columbia University Press; citazione tratta dall’edizione italiana: L’era dello sviluppo sostenibile, Egea-Univ. Bocconi Editore, 2015, p. 47. Sachs è Direttore del Center for Sustainable Development alla Columbia University e Presidente del Sustainable Development Solutions Network dell’ONU.

[6] Cfr. L. Fioramonti (2017), cit., pp. 56-7.

[7] Un esempio, alquanto sconcertante è rappresentato dalla proposta avanzata nel gennaio 2021 dall’allora Vicepresidente e Assessore al Welfare della Regione Lombardia di far distribuire il vaccino anti-Covid tra le regioni in base al PIL di ciascuna regione.

[8] Citato in L. Fioramonti (2017), cit., p. 101. Su questo discorso di Robert Kennedy e sul suo retroscena cfr. T. Jackson (2021), Post Growth. Life after Capitalism, Polity Press; ediz. it. Post Crescita. La vita oltre il capitalismo, Il Mulino, 2022, pp. 30-7.

[9] Cfr. D. Pilling (2018), The Growth Delusion, Bloomsbury Publishing, Part One; ediz. ital. L’illusione della crescita, Il Saggiatore (2018).

[10] L. Fioramonti (2017), cit., p. 100. La citazione tra virgolette è tratta da S. Kuznets (1962), How to judge quality, The New Republic, 20 October, p. 29.

[11] M. Abramovitz (1959), The welfare interpretation of secular trends in national income and product, in M. Abramovitz et al, The allocation of economic resources: essays in honor of Bernard Francis Haley, Oxford University Press – Stanford University Press.

[12] J. V. Robinson (1971), Economic Heresis, Basic Books; trad.ne tratta dall’edizione italiana Eresie dell’economia, ETAS Libri, 1972, p. 149.

[13] G. Myrdal (1973), Against the Stream. Critical Essays on Economics, Pantheon Books; trad.ne tratta dall’edizione italiana: Controcorrente. Realtà di oggi e teorie di ieri, Laterza, 1975, pp. 193, 199-201.

[14] J. Tinbergen (co-ord.) (1976), Reshaping the International Order, A Report to the Club of Rome, A. Elsevier; trad. it. Progetto RIO per la rifondazione dell’or­dine internazionale, Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, 1977, pp. 87 e 91.

[15] O. Morgenstern (1972), Thirteen Critical Points in Contemporary Economic Theory: An Interpretation, Journal of Economic Literature, Vol. 10, No. 4; trad.ne tratta dall’edizione italiana: Tredici punti critici nella teoria economica contemporanea: un’interpretazione, in AA. VV. (1976), Il disagio degli economisti, a cura di R. Fiorito, La Nuova Italia, p. 69.

[16] O. Morgenstern (1975), GNP – Defects of a Hallowed Concept, Business and Society Review, Vol. 15, Fall; trad.ne tratta dall’edizione italiana: PNL: difetti di un venerato concetto, in M. Talamona (1990), cit., p. 89.

[17] R. Costanza, I. Kubiszewski, E. Giovannini et al (2014), Time to leave GDP behind, Nature, 16 January, Vol 505. Si rammenta che in Inglese il Gross Domestic Product – GDP è il PIL, ed il Gross National Product – GDP è il pnl.

[18] K. E. Boulding (1966) The Economics of the Coming Spaceship Earth, in H. Jarrett (ed.), Envi­ronmental Quality in a Growing Economy, The Johns Hopkins University Press, p. 9.

[19] Cfr. H. E. Daly (2015), Economics for a Full World, Great Transition Initiative, June; trad. it parz. Il sistema economico come sottosistema dell’ecosfera e la sua scala ottimale, in H. E. Daly, Verso un’altra economia. Scritti per un futuro sostenibile, a cura di G. Scarpelli, Carocci, pp. 156-160.

[20] H. E. Daly (2014), Moving from a Failed Growth Economy to a Steady-State Economy, in H. E. Daly, From Uneconomic Growth to a Steady-State Economy, Edward Elgar; trad. ne tratta dall’ediz. it. Da un’economia di crescita mancata a un’economia in stato stazionario, in H. E. Daly, Verso un’altra economia […], cit., p. 221. Daly ha fornito l’analisi più circostanziata del PIL-PNL come misura del successo dell’economia nel volume H. E. Daly, J. Cobb Jr. (1989), For the Common Good. Redirecting the Economy toward Community, the Environment, and a Sustainable Future, Beacon Press; trad. it.: Un’economia per il bene comune, Red Edizioni, 1994.

[21] G. Ruffolo (1990), La qualità sociale, Laterza, p. 44.

[22] G. Ruffolo (1992), La Pirlandia dell’economia, La Repubblica, 3 giugno. All’immaginaria (ma non troppo) isola di “Pirlandia” – un luogo nel quale i cittadini si nutrono di “pirl” e non pensano ad altro, fino a distruggere le basi stesse del loro ambiente e della loro civiltà – Ruffolo dedicò anche l’ironico articolo Ma a Pirlandia tutto è possibile, in La Repubblica, 12 marzo 1987.

[23] J. E. Stiglitz (2020), GDP Is the Wrong Tool for Measuring What Matters, Scientific American, August 1.

[24] R. Smith, Z. Zoundi, L. Bizikova (2022), Engaging Decision-Makers in Moving Beyond GDP and Toward Wealth, IISD – IDRC-CRDI, pp. 2-3 (https://www.iisd.org/system/files/2022-01/moving-beyond-gdp-toward-wealth.pdf).

[25] S. Dixson-Declève et al. (2022), Earth for All: A Survival Guide to Humanity, A Report to the Club of Rome, New Society Publishers; trad.ne tratta dall’edizione italiana: Una Terra per tutti. Il più autorevole progetto internazionale per il nostro futuro, Rapporto al Club di Roma – Earth4all, a cura di G. Bologna, Edizioni Ambiente, 2022, pp. 79-80.

[26] UN (2021), Our Common Agenda. Report of the Secretary-General, p. 3.

[27] G. Fabris (2009), Mandare in soffitta il PIL per costruire un’economia del benessere, La Repubblica, 2 febbraio.

[28] G. Parisi (2021), Discorso alla Camera dei Deputati in occasione del Pre-COP26 Parliamentary Meeting in vista della COP26 di Glasgow (1-12 novembre 2021) (https://www.valigiablu.it/nobel-parisi-discorso-clima/).

[29] W. D. Nordhaus, J. Tobin (1970), Is Growth Obsolete?, in M. Moss (ed.) (1973), The Measurement of Economic and Social Performance, NBER. Il NEW prevedeva la “correzione” del pnl con l’inserimento dei beni e dei servizi prodotti fuori dal mercato, come il lavoro domestico, il lavoro volontario, l’incremento del tempo libero, ecc., e con l’esclusione dei danni prodotti all’ambiente e alla società, sebbene questa parte del MEW non fosse molto sviluppata. In effetti, però, come venne rilevato, l’obiettivo di Nordhaus e Tobin non era tanto quello di fornire un indicatore del benessere più plausibile del pnl, quanto di «… dimostrare che è fondato il consenso diffuso tra gli economisti in merito al PNL, e che quest’ultimo è sufficientemente correlato con il benessere economico da rendere superfluo l’uso dello strumento da loro stessi inventato!»: H. E. Daly, J. Cobb Jr. (1989), cit.; trad.ne tratta dall’edizione italiana cit., p. 121.

[30] X. Zolotas (1981), Economic Growth and Declining Social Welfare, New York University Press.

[31] L’ISEW venne proposto nell’Appendice di H. E. Daly, J. Cobb Jr. (1989), cit.

[32] Ivi, p. 406 ediz. it.

[33] Cfr. L. Fioramonti (2017), cit., pp. 112ss; P. Lawn (ed.) (2006), Sustainable Development Indicators in Ecological Economics, Edward Elgar; Costanza et al (2009), Beyond GDP: The Need for New Measures of Progress, The Pardee Papers – Boston University, No. 4, January.

[34] Cfr. S. Dixson-Declève et al. (2022), cit., p. 80.

[35] https://www.istat.it/it/benessere-e-sostenibilit%C3%A0/la-misurazione-del-benessere-(bes).

[36] Il Rapporto della Commissione è disponibile sul web e sotto forma di volume: A. Sen, J. P. Fitoussi, J. Stiglitz (2010), Mismeasuring Our Lives: Why GDP Doesn’t Add Up, The New Press; ediz. it: La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Rizzoli-ETAS, 2010.

[37] WORLD DEVELOPMENT INDICATORS. World Development Indicators (WDI) is the World Bank’s premier compilation of cross-country comparable data on development. I WDI non sembrano peraltro essere stati elaborati per scalzare il PIL dal suo piedistallo.

[38]Cfr. New BLI exec summary. Sulla scia dell’OCSE Stiglitz, Fitoussi e Martine Durand hanno proposto una nuova agenda per “andare oltre il PIL”: cfr. J. Stiglitz, J. P. Fitoussi, M. Durand (2019), Measuring what Counts: The Global Movement for Well-being, New Press; ediz. it. Misurare ciò che conta. Al di là del PIL, Einaudi, 2021.

[39] Human Development Index (HDI). Per una sintetica ma esauriente introduzione a questo indicatore cfr. L. Fioramonti(2017), cit., pp. 121-4.

[40] Cfr. Beyond GDP: making nature count in the shift to sustainability. Cfr. anche UN Environment Programme (2023), Inclusive Wealth Report 2023 – Measuring Sustainability and Equity.

[41] UN (2022), Valuing What Counts – United Nations System-wide Contribution on Progress Beyond Gross Domestic Product (GDP).

[42] E. Giovannini (2014), Prefazione, in L. Fioramonti (2017), cit., p. IX. Giovannini, docente universitario, è stato presidente dell’ISTAT e ministro, e ha fondato l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.

[43] Cfr. L. Fioramonti (2017), cit., pp. 126ss. Un esempio eloquente dei vested interests coinvolti è raccontato nel seguente brano: «Former US President Bill Clinton’s small move towards a ‘green GDP’, which factored in some of the environmental consequences of growth, was killed by the coal industry»: R. Costanza, I. Kubiszewski, E. Giovannini et al, (2014), cit., p. 285; cfr. anche Pilling (2018), cit., p. 302.

[44] L. Fioramonti (2017), cit., pp. 20-1. I brani tra virgolette sono tratti dal documento European Commission (2009), GDP and Beyond: Measuring Progress in a Changing World.

[45] Commissione europea, Alternative measures of progress beyond GDP. Una sintesi delle iniziative delle istituzioni dell’Unione Europea sul tema della validità del PIL-PNL come indicatore della crescita economica e del benessere è nel documento del Research Service del Parlamento Europeo: A. Widuto, C. Evroux, S. Spinaci (2023), From growth to ‘beyond growth’: Concepts and challenges, EPRS, pp. 8-10.

[46] Cfr. EUR-Lez, Environment and climate change.

[47] Un’interessante analisi delle prospettive di inserimento di indicatori alternativi nei processi decisionali dei policymakers europei è in A. Terzi (2021), Economic Policy-Making Beyond GDP: An Introduction, DG ECFIN, 24 giugno 2021.

Scritto da
Giandomenico Scarpelli

Già dirigente della Banca d’Italia e membro del Market Infrastructure Board della Banca Centrale Europea, si interessa di economia ecologica. Ha curato l’edizione italiana di scritti dell’economista Herman E. Daly: “Verso una nuova economia. Scritti per un futuro sostenibile” (Carocci 2023) ed è autore di “La ricchezza delle emozioni. Economia e finanza nei capolavori della letteratura” (Carocci 2015).

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