“L’incubo di Tocqueville” di Lorenzo Castellani
- 23 Settembre 2020

“L’incubo di Tocqueville” di Lorenzo Castellani

Recensione a: Lorenzo Castellani, L’incubo di Tocqueville. Storia della burocrazia federale degli Stati Uniti d’America, Effigi Edizioni, Grosseto 2020, pp. 240, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Alexis de Tocqueville, uno dei più acuti studiosi della democrazia americana, sosteneva che la configurazione ipo-amministrativa della struttura istituzionale statunitense – con il potere amministrativo che, seppur esistente, non si prestava ad una conformazione gerarchica e non poteva essere identificato in alcun centro chiaro e definito – fosse rappresentativa di quella statualità alternativa che meglio poteva garantire dalle degenerazioni dispotiche del potere. L’incubo del filosofo politico risiedeva nella previsione che, in un prossimo futuro, anche la democrazia americana avrebbe rischiato di rimanere soggetta a quel processo di centralizzazione tipico dei paesi europei (Francia etc.), con l’emergere di un compiuto Stato amministrativo in cui il potere politico e gli apparati burocratici si sarebbero intrecciati sempre di più fino a formare un unico ingranaggio.

A partire da questa immagine e dalla lettura di un libro americano del giurista Daniel Ernst recante un titolo simile[1], il politologo e ricercatore Lorenzo Castellani si propone nel suo ultimo lavoro L’incubo di Tocqueville. Storia della burocrazia federale degli Stati Uniti d’America (Effigi Edizioni) il non facile obiettivo di tratteggiare una storia dello sviluppo amministrativo statunitense, con particolare attenzione al poco studiato periodo del secondo dopoguerra. In tempi di centenario della morte di Max Weber, lo studio delle articolazioni amministrative del potere che vanno a formare le imponenti burocrazie moderne risulta oramai fondamentale, e per quanto concerne le specificità del sistema americano è l’autore a suggerirci quattro motivi per cui è importante approfondirlo: in primo luogo, per la cosiddetta statualità alternativa americana, ovvero quel particolare rapporto tra Stato e società che differenzia gli USA dagli altri paesi europei ed occidentali; in secondo luogo, per la peculiarità della sua pubblica amministrazione, sviluppatasi in concomitanza del processo di industrializzazione del paese e strettamente intrecciata alle logiche manageriali; in terzo luogo, per la crescita della scienza amministrativa americana e la sua influenza oltreoceano; infine, l’emergere degli studi legati alla policy history – focalizzati sull’origine e lo sviluppo delle politiche pubbliche – porta inevitabilmente ad interrogarsi sul contesto istituzionale-amministrativo ove queste si diramano, per avere una inquadratura di più ampio respiro circa il rapporto tra decisori e cittadini.

Il saggio presenta un approccio analitico capace di affrontare nel dettaglio le diverse tematiche dando così vita ad un lavoro denso e corposo, di cui non è possibile trattare esaustivamente in questa sede. Ci limiteremo quindi ad una discussione sulle linee generali del volume, con un focus concettuale che si riserva di rinviare alle pagine del libro per quanto riguarda gli aspetti più squisitamente nozionistici.

Un punto di partenza della ricerca di Castellani concerne l’analisi sulla statualità americana, da sempre intesa – soprattutto dai grandi pensatori del diciannovesimo secolo come Hegel e lo stesso Tocqueville – come alternativa o debole, in quanto considerata leggera, non accentrata e non pervasiva. Tuttavia, scrive l’autore, «la pervasività sia domestica che internazionale del potere pubblico americano è probabilmente maggiore di quella di qualsiasi altro Stato al mondo. Come ha scritto il sociologo Michael Mann, quello americano è un potere infrastrutturale, con una struttura ad arcipelago, in cui lo Stato si sviluppa per molteplici livelli e sempre in relazione ai poteri privati» (p.12). Con lo svilupparsi di una vera e propria burocrazia federale il mito dello Stato debole, che nell’Ottocento poteva ancora considerarsi verosimile, oggi va certamente accantonato. Come è da ritenere sicuramente fuorviante, o quantomeno insufficiente, l’immagine dell’America descrittaci attraverso le etichette (spesso inefficaci) di liberalismo/liberismo, secondo un immaginario che vede radicato negli USA il tradizionale rapporto antitetico tra privato e pubblico a sfavore di quest’ultimo; senza negare l’esistenza di quella civic culture di matrice anglosassone intrinseca alla Costituzione USA e fondante il principio di self-government su cui si basa l’organizzazione federale del potere politico, vi è da sgomberare il campo dalle etichette e studiare la struttura statuale americana così come si è posta nel suo divenire storico. Infatti, come sottolinea Castellani, la complessità del reale – con le sue contraddizioni e i suoi conflitti – ci mostra come la peculiare intersezione tra liberalismo, capitalismo e democrazia abbia spinto il sistema statunitense verso un particolare modello, diverso da quello presente nell’immaginario comune e che l’autore battezza come Stato osmotico: «[…] Il sistema americano si caratterizza per una forte compenetrazione tra pubblico e privato nella pratica quotidiana del potere. La distinzione tra pubblico e privato è uno dei confini fondamentali della teoria dello Stato moderno, ma quando analizziamo lo sviluppo istituzionale americano questo confine diviene poroso e assai poco definito. Ciò perché innanzitutto il potere privato è stato spesso utilizzato per realizzare gli obiettivi e le finalità del potere pubblico, è ad esempio il caso delle corporations impegnate nella realizzazione d’infrastrutture nella seconda metà del diciannovesimo secolo e dell’industria privata della difesa dopo le guerre mondiali. Inoltre, come si è visto, lo Stato osmotico è anche uno Stato associativo che distribuisce il suo potere attraverso organismi quali associazioni, fondazioni, istituzioni ibride, difficilmente classificabili come pubbliche o private, che esercitano funzioni sociali importanti. Dunque, piuttosto che concentrare tutto il potere nelle mani del sovrano pubblico, il sistema pubblico americano ha distribuito beni e funzioni al settore privato favorendone l’espansione attraverso la tutela della proprietà e della concorrenza, costruendo giurisdizioni ad hoc e strutture per la concertazione di diversi interessi, rafforzandone la legittimazione politica. In questo modo, pubblico e privato convergono, si mescolano, si rendono interdipendenti nel processo di policy-making e nelle strutture dell’amministrazione pubblica» (p.226).

Per comprendere il contesto istituzionale poc’anzi tratteggiato è fondamentale seguire l’evoluzione storica dell’amministrazione statunitense. Castellani parte dalle origini, ovvero da una Costituzione figlia di un’era pre-burocratica e pre-industriale, che prestava poca attenzione al sistema amministrativo; questo, infatti, si presentava in forme elementari, con soli 126 impiegati nel governo federale nel 1806. Lo sviluppo industriale portò però presto ad un aumento vertiginoso della macchina statale – i dipendenti federali nel 1871 erano già 51.020 – e ad un ruolo sempre più penetrante del Congresso nella gestione dei diversi interessi da tutelare. Crescerà di conseguenza anche la scienza amministrativa e il relativo dibattito, che da quel momento accompagnerà di passo in passo il mutamento del panorama socio-economico e le connesse trasformazioni dell’ingranaggio burocratico.

Attraverso la lettura di Frederick Mosher e dei suoi quattro macro-periodi della storia amministrativa americana dalla fondazione della Repubblica al New Deal[2], Castellani analizza queste dinamiche per approdare poi al periodo storico di maggiore interesse per la sua ricerca, ovvero il secondo dopoguerra.

Questa fase dello sviluppo amministrativo non può prescindere dall’eredità del New Deal, che aveva espanso le capacità amministrative dello Stato – tra il 1929 e il 1945, a causa della depressione e del conflitto mondiale, decuplicò il bilancio del governo federale e quadruplicò il numero dei funzionari – e portato ad un forte interventismo della presidenza nell’organizzazione del ramo esecutivo.

La prima riorganizzazione avvenne negli anni Sessanta, «in un periodo che può essere considerato come l’apogeo della tecnocrazia del welfare state», ad opera soprattutto di Johnson e Nixon, i quali si concentrarono attraverso la regolazione e la creazione di nuove agenzie ad analizzare, controllare ed attuare le diverse politiche pubbliche aventi scopi prevalentemente sociali. L’effetto collaterale di questa fase di regolazione ed espansione burocratica, al netto dei successi ottenuti in un primo momento, fu quello di rendere indigesta ai più la pervasività della macchina statale, che presentava costi sempre maggiori senza che questo portasse ad un aumento dell’efficienza: così, in concomitanza con la crisi del keynesismo, alla fine degli anni Settanta una nuova cultura manageriale e improntata sulle deregolamentazioni e liberalizzazioni si insinuò all’interno del dibattito amministrativistico, portando ad una ridefinizione del governo federale secondo logiche imprenditoriali. In questo senso, «la stessa burocrazia federale doveva assumere una forma organizzativa aziendale, i civil servants trasformarsi in manager pubblici con responsabilità di bilancio, obiettivi da pianificare e performance da monitorare» (p.229).

Questa nuova cultura amministrativa del neo-managerialismo, che prende avvio con Reagan e arriva a Clinton, chiude sul finire del ventesimo secolo il percorso di Castellani nella vita dell’amministrazione pubblica degli Stati Uniti. Un percorso analitico-intellettuale che ha il merito di fotografare la complessa realtà americana, andando oltre le etichette, e di mostrare quanto sia importante conoscere le dinamiche dell’apparato amministrativo per comprendere i caratteri e le peculiarità della prima potenza militare ed economica mondiale.

Terminiamo quindi questa breve discussione con le parole conclusive di Castellani, che si possono considerare un riassunto del punto d’arrivo della sua interessante ricerca, nonché un punto di partenza per un dibattito che riconosca il ruolo ormai imprescindibile della scienza amministrativa nelle analisi sulle diverse statualità:

«Seppur tardivamente, l’incubo di Tocqueville, ossia l’emersione di un compiuto Stato amministrativo che ha reso il potere politico maggiormente accentrato e burocratico, è divenuto realtà nel corso del ventesimo secolo. Il risultato è stato una “macchina esecutiva” che oggi risulta estremamente complessa ed articolata, ma capace di coordinare l’azione statale sia sul piano domestico che su quello esterno e soprattutto di relazionarsi con poteri di natura diversa. In questa evoluzione, l’amministrazione federale si è trasformata da elemento meramente strumentale della politica democratica in un elemento costitutivo della stessa. Non è un caso se anche sul piano lessicale nella seconda metà del ventesimo secolo si sia iniziato a parlare di permanent government e più recentemente di deep state per evidenziare l’importanza del ruolo svolto dalle strutture amministrative dello Stato nella gestione del potere e delle scelte strategiche del Leviatano americano. Proprio per questo motivo, la storia della burocrazia federale è da considerarsi centrale per comprendere l’ingranaggio del potere del più potente Stato del mondo e le sue più profonde articolazioni».


[1] D. Ernst, Tocqueville’s nightmare. The Administrative State Emerges in America, 1900-1940, Oxford University Press, Oxford 2014.

[2] Essi sono: il governo dei gentiluomini (1789-1829); il governo dell’uomo comune (1829-1883); il governo del bene (1883-1906); il governo dell’efficienza (1906-1937).

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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