L’India e le sue ambizioni da superpotenza al bivio tra autocrazia elettorale e democrazia. Intervista a Matteo Miavaldi
- 06 Giugno 2024

L’India e le sue ambizioni da superpotenza al bivio tra autocrazia elettorale e democrazia. Intervista a Matteo Miavaldi

Scritto da Daniele Molteni

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Nella Repubblica federale dell’India dal 19 aprile al 1° giugno si sono tenute le elezioni per rinnovare i 543 membri della Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento. Il leader del Bharatiya Janata Party (BJP) e primo ministro in carica da due mandati Narendra Modi ha ottenuto la sua terza vittoria consecutiva, con un risultato meno largo delle aspettative che lo costringerà a formare un governo di coalizione con gli alleati che gli hanno garantito la maggioranza dei seggi. Di questo risultato e delle prospettive future del Paese più popoloso al mondo abbiamo parlato con Matteo Miavaldi, giornalista già caporedattore per l’India del giornale online China Files, autore del saggio I due Marò. Tutto quello che non vi hanno detto (Edizioni Alegre) e co-autore del podcast di Chora Media Altri Orienti.

Da Varanasi, città dell’Uttar Pradesh considerata la capitale spirituale dell’India, Matteo Miavaldi ci ha raccontato la trasformazione del Paese da democrazia più grande del mondo ad autocrazia elettorale, evidenziando la repressione delle minoranze e dell’opposizione da parte del partito di governo, ma anche il ruolo di una società civile attiva che rivendica politiche più eque. Ne è emersa un’India caratterizzata da una continua crescita economica che al contempo produce enormi disuguaglianze; un Paese che non è ancora la superpotenza che aspira a diventare, nonostante si proponga come partner dell’Occidente alternativo alla Cina e leader del “Sud globale”, in un’arena politica internazionale che manifesta la sua frammentazione nel perdurare della crisi dell’ordine internazionale liberale.


Il 19 aprile l’India ha dato il via alle più grandi elezioni della storia: 970 milioni gli aventi diritto al voto su una popolazione di 1,4 miliardi di persone. Quella indiana è stata definita spesso come “la democrazia più grande del mondo”, mentre recentemente sempre di più si è parlato di “autocrazia elettorale”. Quanto sono state partecipate queste elezioni e quale delle due definizioni è più corretta oggi?

Matteo Miavaldi: Rispetto alle elezioni precedenti c’è stata una flessione dell’affluenza perché le ultime tornate elettorali hanno coinciso con un’ondata di calore notevole e le persone che non avevano forte motivazione a farlo non hanno votato. Molte non lo hanno fatto anche perché credevano che le elezioni fossero già segnate e che avrebbe vinto il Bharatiya Janata Party (BJP – Partito Nazionale Indiano, ndr): dal lato del BJP perché l’impressione era che avrebbe vinto anche senza il loro voto; e dal lato dell’opposizione perché pensavano che votando non sarebbe cambiato niente. Per quanto riguarda le definizioni di democrazia o autocrazia, che l’India si sia trasformata in una autocrazia elettorale lo dicono tanti osservatori internazionali indipendenti, perché è vero che le elezioni sono formalmente libere e ci sono partiti che possono candidare i propri esponenti, ma le istituzioni statali sono sempre più politicizzate. Questa tendenza è emersa negli ultimi anni con una serie di sentenze della Corte Suprema a favore del BJP, il partito di governo, ma anche recentemente con il ruolo in questa campagna elettorale dell’Enforcement Directorate, che è il corrispettivo indiano della Guardia di Finanza italiana: con il governo Modi è diventata la polizia del primo ministro, funzionale ad attaccare i propri avversari. In questo sistema un avversario politico di Modi o chi gli si oppone eccessivamente nella società civile rischia di subire i raid dell’Enforcement Directorate e dei processi che aprono a un labirinto burocratico, prosciugando sia energia mentale che economica, come capitato nel passato recente ad Arvind Kejriwal, il leader dell’Aam Aadmi Party e Chief Minister di Delhi.

 

Narendra Modi non ha mai nascosto di voler rendere lo Stato indiano una nazione hindu seguendo l’hindutva promossa dal BJP. Eppure, se solo guardiamo alle schede elettorali vediamo una dozzina di lingue e una distribuzione che va dalle isole alle popolose città, fino alle comunità montane più remote. È possibile trasformare un Paese simbolo di pluralismo culturale così diversificato come l’India? Come sta avvenendo questa trasformazione e cosa accomuna questo tipo di istanze etnonazionaliste a quelle presenti in Europa?

Matteo Miavaldi: L’India è già cambiata moltissimo negli ultimi dieci anni e non è assolutamente da escludere che possa farlo ulteriormente e in modo radicale, perché questa è la volontà politica di Modi da quando si è candidato nel 2014 alla guida del Paese. L’attuale primo ministro in carica rappresenta una forza politica che fa capo alla Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un’organizzazione extraparlamentare che dall’inizio del Novecento prefigura un’India che non sia pluralistica, multiculturale, multietnica e multiconfessionale – come quella fondata nel 1947 dalle forze che l’hanno portata all’indipendenza – ma uno Stato governato dagli hindu dove gli hindu hanno più diritti di tutte le minoranze. Questo è un progetto scritto nero su bianco nei manifesti e negli intenti fondativi della RSS, che dopo cento anni ha trovato in Narendra Modi il campione politico che stava cercando per trasformare il suo sogno in realtà. L’India di oggi si sta avvicinando a quell’obiettivo e queste elezioni sono considerate uno spartiacque perché la conferma di Modi per un terzo mandato consecutivo significa che anche a livello parlamentare e di consenso popolare il suo progetto in larga parte funziona. Più che con l’Europa, un confronto calzante è quello con lo Stato di Israele, dove i cittadini di fede ebraica hanno più diritti dei cittadini musulmani o palestinesi. Inoltre, Modi e Netanyahu si sostengono a vicenda per le loro posizioni antimusulmane e negli ultimi anni lo stesso primo ministro indiano ha modificato la posizione storica dell’India di sostegno alla causa palestinese mentre i rapporti bilaterali e commerciali tra Tel Aviv e New Delhi sono cresciuti, soprattutto nel settore degli armamenti. Ma dopo il recente bombardamento a Rafah sembra che il Ministero degli Esteri indiano sia tornato sulla posizione storica dell’India, condannando l’attacco e auspicando la soluzione dei due Stati.

 

Oltre alle leggi discriminatorie verso le minoranze e l’islamofobia diffusa, i media indiani sono sempre più controllati dai partiti di governo oppure ostracizzati se troppo critici, come accaduto alla BBC per un documentario del 2023 critico verso il primo ministro. Quanto spazio è rimasto alla società civile per criticare le politiche di chi detiene il potere in India?

Matteo Miavaldi: Lo spazio per la società civile, se lo intendiamo come quello rappresentato dai giornali e dai media che possono apertamente criticare l’operato del governo, è sempre meno. Però esistono realtà di giornalismo indipendente eccellenti e portali online coraggiosi come Newslaundry, Scroll.in, The Wire.in, The News Minute, The Caravan, che promuovono un’informazione critica ma estremamente puntuale e legata ai fatti, visitando i luoghi e ascoltando le persone. La società indiana contiene al proprio interno numerosi anticorpi anche oltre all’informazione, nonostante in questo momento sia più difficile fare opposizione perché le forze dell’ordine caricano le manifestazioni degli studenti sempre più spesso e vediamo raid della polizia all’interno dei campus, una cosa che non succedeva in India da circa quarant’anni. Anche altri fenomeni fanno intravedere la frustrazione di una parte della popolazione che chiede politiche migliori, come dimostra il caso delle mobilitazioni contadine che negli ultimi anni sono stato il tallone d’Achille di Modi, con milioni di persone che nel 2021 hanno preso quasi d’assedio New Delhi e sono tornate di nuovo a manifestare recentemente. È vero che sui media è difficile trovare uno spazio per quella parte di opinione pubblica che non sostiene il governo, ma la società civile cerca di farsi sentire.

 

Per quanto riguarda i partiti politici, invece, fino allo scorso anno questi venivano finanziati con i bond elettorali, poi la Corte Suprema li ha dichiarati illegittimi. Di che tipo di finanziamento si tratta e perché è considerato controverso?

Matteo Miavaldi: Gli electoral bond sono uno strumento di legalizzazione di donazioni anonime ai partiti voluto nel 2017 dal governo Modi, che lo ha presentato come un meccanismo che garantisce l’anonimato per motivi di privacy a qualunque impresa o privato cittadino che volesse sostenere un partito politico. L’altra faccia della medaglia è che l’anonimato serve anche per occultare all’opinione pubblica il fatto che, ad esempio, le imprese X e Y stanno donando soldi a un determinato partito in quel determinato momento. Questo apre a degli scenari di clientelismo evidente, perché un’azienda può versare una donazione a un partito aspettandosi che due settimane dopo lo stesso partito che governa nell’area di attività di quell’azienda gli assegni un appalto multimilionario. È ancora una dinamica da provare in sede legale ma, a seguito di una lotta durata anni, la società civile è riuscita a obbligare la State Bank of India, che emette i bond, a divulgare pubblicamente i nomi delle persone che hanno donato, a che partito e quanto. Ne è emerso un pattern clientelare soprattutto relativo agli operatori economici di medie dimensioni, che sono in larga parte gli imprenditori locali interessati a mostrare sostegno al governo locale per averne un ritorno e che quindi si avvalgono maggiormente del meccanismo generato dagli electoral bond rispetto alle grandi multinazionali, che al contrario non hanno necessità di ricorrere a questo sistema. Un altro elemento problematico è che da quando sono stati istituiti la grande maggioranza delle risorse ha raggiunto le casse del BJP.

 

Oltre a lamentare l’impossibilità di svolgere un’equa campagna elettorale, anche a causa della repressione, l’opposizione ha criticato appunto il clientelismo e la tendenza del governo a occuparsi principalmente dei bisogni dei più ricchi. Quanto c’è di vero in questo? Se l’erosione democratica è imputabile al BJP, quanto gli indicatori economici sono effettivamente conseguenza del suo operato?

Matteo Miavaldi: È indubbio che il governo abbia intrattenuto dei rapporti privilegiati con determinati imprenditori in una dinamica clientelare. Il nome che di solito emerge più spesso è quello di Gautama Adani, imprenditore che ha fatto fortuna da quando Modi è andato al potere: entrambi sono del Gujarat e si conoscevano già prima che Modi diventasse primo ministro dell’India nel 2014 e la fortuna dell’impero economico di Adani si è costruita insieme alla fortuna politica di Modi a livello nazionale. È vero però che questo è un meccanismo che funziona più o meno per qualsiasi partito al potere, perché anche l’Indian National Congress (INC – Congresso Nazionale Indiano, ndr) nella sua storia ha avuto rapporti torbidi con buona parte dell’imprenditoria indiana. L’unica differenza è che con il BJP da dieci anni al governo il sistema si è intensificato e solidificato ancora di più per la mancanza di alternanza al potere. Da un punto di vista economico l’India viene raccontata come il Paese che sta crescendo di più, anche più della Cina che è la vera grande potenza asiatica degli anni recenti. La crescita del PIL indiano si attesta intorno al 7% ma gran parte proviene dal mercato finanziario o dalla bolla immobiliare, incoraggiata dalla spesa pubblica con l’ammodernamento infrastrutturale promosso da Modi. È vero che il PIL cresce, ma la ricchezza tende a rimanere nelle mani di imprenditori che la detenevano già a discapito della maggioranza. Altri indicatori, come la spesa pro capite, ci raccontano che la classe media e quella più indigente in questi anni non hanno vissuto un incremento sostanziale del potere d’acquisto, dei ricavi e del proprio tenore di vita. A Varanasi in questi giorni tanti si lamentano dell’inflazione e raccontano che la stessa spesa che si poteva comprare al mercato qualche anno fa per 100 rupie adesso costa 400 rupie, ed è un enorme problema a livello sistemico.

 

In un articolo apparso su Foreign Affairs, Hartosh Singh Bal, il direttore esecutivo della rivista The Caravan, ha sottolineato come l’Indian National Congress di Rahul Gandhi, il principale partito di opposizione, sia in parte debole perché «guidato da un leader che non vuole guidare, ma che può essere guidato solo da lui». Sei d’accordo con questa definizione?

Matteo Miavaldi: La citazione è interessante e sì, da un certo punto di vista sono d’accordo perché Rahul Gandhi non è la prima volta che si presenta come leader dell’INC e dell’opposizione e nelle altre due tornate elettorali, il 2014 e il 2019, è uscito fortemente sconfitto dallo scontro diretto con Narendra Modi. Gandhi sconta il fatto di essere membro della famiglia politica più potente dell’India dall’indipendenza, perché il suo bisnonno, suo padre e sua nonna sono stati primi ministri, e il suo ruolo di ultimo erede maschio di questa dinastia impedisce a un certo elettorato di guardarlo come un leader valido soprattutto se lo si paragona a Modi. L’attuale primo ministro, al contrario, può raccontarsi come un leader che si è fatto da solo perché proviene da una famiglia molto umile e senza nessuno coinvolto nella politica. Ma con le due marce che ha condotto a piedi da sud a nord e da est a ovest nell’ultimo periodo, a tante persone sembra che Rahul Gandhi abbia cambiato passo proiettandosi come un leader del popolo, camminando tra la gente e parlando dei temi che lui reputa interessino alle persone che lo potrebbero votare: lavoro, giustizia e rapporti torbidi tra imprenditoria e partito di governo. Questo ha dato un’enorme spinta alla sua immagine popolare e il Rahul Gandhi del 2024 sembra completamente diverso da quello del passato. Un’attivista qui a Varanasi mi ha raccontato che, secondo lei, in questo modo Gandhi è riuscito anche a cancellare la sua immagine di Pappu, termine che significa bamboccione e che lo aveva delegittimato nelle campagne elettorali precedenti.

 

Che ruolo hanno invece i partiti regionali nella politica indiana?

Matteo Miavaldi: I partiti regionali in India hanno la particolarità di essere forti nei loro territori ma inesistenti al di fuori. L’esempio più lampante è il partito del Trinamool di Mamata Banerjee che governa il Bengala occidentale da una decina d’anni e fuori dal Bengala occidentale non ha candidati. Molti di questi partiti in queste elezioni hanno appoggiato Gandhi e gli hanno permesso di contendere voti al BJP, che è un partito nazionale molto forte soprattutto al nord, ma trovare il compromesso tra tutti questi partiti regionali è difficile, perché ognuno ha enormi ambizioni di potere e vaste basi elettorali a cui rispondere e questo avrebbe potuto rivelarsi un problema ancora più grosso da gestire di quello di vincere le elezioni.

 

La crescita interna sostenuta e un ruolo sempre più proattivo in politica estera del governo hanno portato la popolazione a interessarsi maggiormente dello status del Paese nel mondo rispetto a un decennio fa? Quali sono le tematiche che più interessano l’opinione pubblica indiana anche rispetto a quella europea?

Matteo Miavaldi: Tra qualche mese in India ci saranno le elezioni amministrazioni locali, poi quelle dei sindaci e degli organi amministrativi dei villaggi: uno Stato che è costruito in questo modo è abituato a guardare al proprio interno perché il dibattito politico è rivolto all’opinione pubblica locale. Le questioni internazionali non sono esattamente all’ordine del giorno nelle strade, perché la percezione del fuori è molto diversa dalla nostra in Europa, dove in due ore di volo sei in un altro Paese. In India con due ore di volo spesso sei ancora nello stesso Stato interno, come ad esempio in Uttar Pradesh. Per i giornali è diverso, ma le persone sono più interessate a quello che succede a casa loro, che è una casa piuttosto grande. Sicuramente da un punto di vista internazionale l’India viene considerata di più rispetto al passato, ma ancora non ha raggiunto il livello di superpotenza a cui aspira Modi. Non è paragonabile alla Cina, agli Stati Uniti, alla Francia, alla Germania o all’Europa in generale, ma neanche alla Turchia se guardiamo i tavoli internazionali a cui partecipa. Durante la guerra con lo Stato Islamico in Siria, l’India non è stata un interlocutore, come non lo è nel conflitto israelo-palestinese e neanche per la questione ucraina; infatti, Volodymyr Zelensky discute con Joe Biden o con Xi Jinping e non con Narendra Modi. Inoltre, quando la comunità internazionale si è impegnata in sanzioni che avrebbero intaccato il potere economico della Russia in chiave di depotenziamento dello sforzo bellico in Ucraina, New Delhi ha fatto esattamente il contrario degli Stati Uniti e ha acquistato grandi quantità di petrolio e di gas naturale dalla Russia a un prezzo estremamente basso. Probabilmente l’India diventerà una superpotenza, ma in questo momento ancora non lo è, soprattutto perché le manca la forza economica delle grandi potenze che oggi prendono le decisioni.

 

Con la Cina sempre più descritta come minaccia da alcuni vicini in Asia e dell’Occidente, New Delhi è sempre più un interlocutore privilegiato per gli Stati Uniti e l’Unione Europea, che la vedono come un partner strategico utile a garantire i propri interessi economici e la propria sicurezza in funzione anticinese. L’India seguirà il blocco euroatlantico rinunciando al suo storico non allineamento oppure il suo fine resta quello di modificare la distribuzione del potere internazionale per assumere un più rilevante ruolo nel “Sud globale”?

Matteo Miavaldi: L’India da tempo viene corteggiata in quanto grande speranza del blocco anticinese nell’ottica di avere un forte alleato che in Asia che possa contenere Pechino, più per valutazioni geografiche e demografiche che economiche. È vero che il Paese sta crescendo, ma il suo PIL è al momento un sesto di quello cinese e renderla un polo di scambi alternativo allo strapotere di Pechino in tempi brevi è molto difficile. È indubbio però che in virtù di questo rapporto privilegiato in costruzione con gli Stati Uniti e con alcune forze politiche molto rilevanti, come ad esempio la Francia, vengano ignorate delle azioni politiche e repressive compiute dall’India che, se arrivassero da un altro Paese, dove le speranze di queste superpotenze sono meno riposte, verrebbero sicuramente sanzionate. Parliamo dell’arresto di oppositori all’interno della società civile e di giornalisti, ma anche di episodi di discriminazione e di violenza da parte di alcuni esponenti della maggioranza hindu contro la minoranza musulmana. Sono azioni che intaccano i valori universali dei diritti umani che l’India sta disattendendo molto di più che in passato. Il governo indiano sta approfittando di questa situazione in cui tutti gli occhi sono puntati altrove, soprattutto per i due conflitti in Ucraina e Palestina. Quello che l’India farà da qui in avanti è la vera scommessa, perché l’Occidente spera di coinvolgerla aiutandola a ottenere uno status di superpotenza per contenere la Cina, ma senza che diventi più potente dei propri alleati. Ma se raggiungerà lo status di superpotenza, a cui ambisce dalla sua indipendenza, probabilmente l’India farà i propri interessi, che non è detto coincideranno con quelli delle potenze occidentali.

 

Che tipo di politica sta adottando New Delhi, invece, su scala regionale?

Matteo Miavaldi: Nei Paesi confinanti la superpotenza cinese è molto presente e l’India non si trova in una posizione favorevole. Con il Pakistan, nonostante sia un potenziale partner commerciale, siamo lontani da una risoluzione a causa dello strascico della partition ma anche perché Islamabad si è avvicinata alla Cina attraverso la Nuova Via della Seta. Lo stesso vale per il Nepal, storico alleato forzato perché circondato geograficamente dall’India con l’unico accesso al mare a sud, che negli ultimi anni si è avvicinato a Pechino e un discorso analogo può essere fatto per lo Sri Lanka e anche per il Bangladesh. Quest’ultimo Paese deve la sua indipendenza all’India per l’intervento di Indira Gandhi nella guerra di indipendenza dal Pakistan nel 1971, ma recentemente ha stretto rapporti commerciali con la Cina, creato joint venture e ricevuto prestiti. L’India si ritrova circondata anche in quanto unico Paese che non partecipa alla Nuova Via della Seta nella regione, per una scelta frutto del timore di diventare uno Stato vassallo e soggetto al volere cinese. La sfida è quindi quella di riuscire a ricucire i rapporti con i vicini, cosa che per almeno due Paesi a maggioranza musulmana come Pakistan e Bangladesh è estremamente difficile a causa di un governo, quello di Modi, platealmente pro-hindu. L’altro grande dilemma è se sia più semplice diventare una superpotenza istituendo uno Stato etnocratico oppure rimanendo una democrazia pluralista, misurandosi così con le diversità e con le differenze interne ed esterne.

 

A proposito di quest’ultimo punto, i risultati delle ultime elezioni hanno certificato la terza vittoria consecutiva di Modi ma il BJP avrà quasi la metà dei seggi che sperava di ottenere e dovrà formare un governo di coalizione, mentre l’opposizione si è rafforzata: la National Democratic Alliance (NDA) guidata da Modi ha ottenuto circa 290 seggi mentre la coalizione Indian National Developmental Inclusive Alliance (INDIA) guidata da Rahul Gandhi circa 230 seggi. Cosa significa questo esito per gli equilibri e la distribuzione del potere interno alla Lok Sabha? Cosa comunicano queste elezioni riguardo lo stato di salute della democrazia indiana?

Matteo Miavaldi: Il risultato elettorale ha sancito una cosa che in India c’è sempre stata ma non era mai stata rilevata con questa chiarezza: è vero che Modi continua a mantenere un grande consenso, che il BJP è il primo partito e che ha ricevuto un mandato maggioritario per formare il governo, ma esiste un’India che non è d’accordo con il suo progetto politico, che non trova favore in una buona parte, ovviamente, della comunità islamica, ma anche tra gli hindu. Un’India che questa volta è riuscita a trovare la rappresentanza che aveva faticato a trovare negli anni passati, perché questa volta le opposizioni si sono organizzate meglio stringendo alleanze oculate che hanno permesso di raccogliere i voti sufficienti ad aggiudicarsi i seggi in un sistema elettorale “first-past-the-post”. Per la prima volta in dieci anni Modi non ha la maggioranza per formare un governo monocolore, accentratore e autoritario che rispecchi la sua personalità, e dovrà stringere accordi con i suoi alleati. Quelli principali sono Nitish Kumar in Bihar e Chandrababu Naidu in Andhra Pradesh, i veri kingmaker che permettono alla coalizione di superare la metà dei seggi in Parlamento per governare e legiferare. Il prossimo governo Modi sarà un governo soggetto ai ricatti di questi azionisti di minoranza perché dipenderà da questi due politici noti per cambiare schieramento di frequente, soprattutto Nitish Kumar. Dal punto di vista dell’economia il voto evidenzia che questo grande miracolo economico raccontato da Modi e da buona parte della stampa internazionale si ferma alle cifre che vengono divulgate, perché le persone nella vita di tutti i giorni, come detto, non hanno ricevuto grandi vantaggi da questa crescita. Molti hanno mostrato scontento per l’inflazione e lamentato la mancanza di lavoro e di opportunità e questi temi le opposizioni sono riuscite a portarli all’interesse pubblico in modo efficace. La notizia eccellente è che queste elezioni ci dimostrano che, nonostante negli ultimi dieci anni la democrazia indiana sia stata sempre meno una democrazia a causa del declino degli standard democratici formali, l’elettorato indiano ha risposto al Paese e a tutto il mondo che crede ancora tantissimo in quei valori e immagina un futuro diverso da quello proposto da Narendra Modi. I prossimi cinque anni probabilmente saranno duri perché l’opposizione si farà sentire in Parlamento e per le strade, ma finalmente la democrazia indiana potrà essere più completa avendo un governo ma anche un’opposizione forte.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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