Recensione a: Marco Magnani, L’onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti, LUISS University Press, Roma 2020, pp. 148, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Come è stato possibile che il dispositivo Black-Berry, lanciato da Research in Motion (RIM) nel 1999 e diventato presto leader mondiale nel mercato degli smartphone per professionisti prima e anche per consumer dopo, nel solo decennio che va dal 2006 al 2016 abbia visto la propria quota di mercato quasi scomparire e RIM perdere il 95 per cento del proprio valore in Borsa? O che il brand Abercrombie&Fitch, famosissimo tra gli anni Novanta e gli inizi del Duemila per le lunghe code che si addossavano all’entrata dei suoi punti vendita e capace di produrre nel 2001 ricavi da 600 milioni di dollari con centinaia di negozi aperti in tutto il mondo, abbia rischiato di recente il fallimento in un contesto di negozi semi-vuoti?
La rapidità del cambiamento e la difficoltà nel gestirlo può travolgere Stati, città e imprese, mettendo fuori dal mercato marchi e realtà che sembravano dominanti, impoverendo città prima economicamente floride, relegando diversi Paesi ricchi di materie prime ai margini della corsa per lo sviluppo. Ogni trasformazione produce vinti e vincitori, stravolgendo vecchi equilibri per ricostruirne di nuovi.
Joseph Schumpeter parlava di “distruzione creatrice” del capitalismo ed è forse con questa lente che bisognerebbe approcciarsi all’ultimo e interessante libro dell’economista e saggista Marco Magnani L’onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti edito da Luiss University Press. Il volume, prendendo in esame le profonde trasformazioni degli ultimi anni – tecnologiche, economiche, climatiche, nei gusti e nella sensibilità dei consumatori – racconta numerose storie di successi e fallimenti, a seconda della capacità dei diversi attori presi in esame di adattarsi ai cambiamenti, cavalcandoli senza subirli in un continuo processo di re-invenzione: ci vengono presentati così gli esempi di ToysЯUs, Blockbuster o Motorola, travolti dalla rivoluzione digitale e dal mutato contesto in generale, e quelli invece di successo di Zara, H&M, IBM e tanti altri, in grado di resistere, talora sfruttando il cambiamento per espandersi, talora per re-indirizzare il proprio business alle trasformazioni di cui sopra.
Magnani sottolinea innanzitutto, per non cadere nel tipico errore di chi vede nel proprio presente un’epoca eccezionale e differente da tutte le altre, come l’intera storia della civiltà umana sia stata scandita da un susseguirsi di importanti cambiamenti. Vi sono però dei fattori che rendono oggi, secondo l’autore, la gestione degli stessi più complicata: in primo luogo, la loro maggiore frequenza, dal momento che se per passare dalla macchina a vapore alla dinamo è servito quasi un secolo, ora Internet, big data, stampa 3D, intelligenza artificiale sono tutte innovazioni all’ordine del giorno, rapide e dirompenti; in secondo luogo, globalizzazione e tecnologia accorciano le distanze, per cui oggi «scoperte scientifiche, nuove risorse, catastrofi naturali, crisi economiche e politiche, indipendentemente da dove esse abbiano luogo o origine influenzano in poco tempo il resto del mondo. Si pensi come la scoperta di un rilevante giacimento di gas naturale in Kazakistan o di petrolio in Congo condizioni il prezzo dell’energia in Europa» (p.45); infine, un terzo elemento concerne l’accresciuta difficoltà di reagire e trovare risposte lucide nel contesto attuale di iper-informazione, idoneo ad alimentare ansie, paure e tensioni che si traducono in una continua pressione sui decisori, siano essi politici o imprenditori.
Riportando diverse citazioni sull’importanza dell’adattamento per la sopravvivenza – dall’approccio dello storico CEO di General Electric Jack Welch per cui bisogna “cambiare prima di essere costretti a farlo” alla massima del guru del management Philip Kotler per cui “l’unico vantaggio competitivo sostenibile è la capacità di apprendere e di imparare più rapidamente degli altri” – Magnani delinea quattro diversi approcci di fronte all’onda inarrestabile del cambiamento: subirlo, come i produttori di candele dopo l’invenzione della lampadina; opporvisi, come Sony o Motorola, che hanno pensato di poter resistere facendo unicamente leva sulla forza del proprio marchio e sulla posizione dominante sul mercato; cavalcarlo, come la Barilla negli anni Settanta che, per far fronte al blocco del prezzo della pasta, è entrata nel segmento dei prodotti da forno con il Mulino Bianco ottenendo un enorme successo; o promuoverlo direttamente, creando nuovi mercati e nuovi gusti, come nel caso della Apple e di Amazon o, per cambiare settore, della Cable News Network (CNN), canale tv interamente dedicato all’informazione che nel 1980 ha introdotto un nuovo importante spazio nel mercato dei media.
I numerosi esempi di storie aziendali presenti nel volume vanno ad intersecarsi con le diverse fonti da cui può scaturire il cambiamento, in modo da offrire al lettore una prospettiva ampia e articolata: non vi è infatti solo la rivoluzione digitale ad incidere sulle diverse realtà decretandone il fallimento o il successo, ma anche la globalizzazione dei mercati, le modifiche nei quadri legislativi-regolamentari, il cambiamento climatico, i fattori esogeni come migrazioni ed emergenze sanitarie, il mutare dei valori e delle sensibilità dei consumatori, nonché dei loro gusti ed esigenze. Vi è un intero contesto soggetto a repentine trasformazioni da prendere in considerazione.
Per quanto concerne l’impatto travolgente della rivoluzione digitale, è interessante soffermarsi sulla parabola della Eastman Kodak Company, attiva dal 1888 con il lancio della prima fotocamera per non professionisti e che presto diventa leader nella produzione di pellicole cinematografiche e apparecchiature per immagini e stampa, arrivando a detenere nel 1976 quote di mercato negli US del 90 per cento nelle pellicole e dell’85 per cento nelle macchine fotografiche; nel 2000, all’alba della transizione digitale, Kodak è il quinto marchio più conosciuto al mondo. Poi, una serie di trasformazioni ne determinano la caduta: «la digitalizzazione della fotografia è un vero e proprio tsunami che cancella rapidamente e quasi completamente il mercato della pellicola […] la domanda mondiale di film, al massimo storico nel 2001, nel 2010 è pari a meno di un decimo»; Kodak cerca di reinventarsi nel settore delle fotocamere digitali ma, «come se non bastasse, a poca distanza di tempo arriva un secondo tsunami, ancor più violento del primo. Le grandi aziende di elettronica Apple e Samsung in testa, iniziano a produrre telefoni cellulari in grado di scattare fotografie di ottima qualità. I profitti di Kodak crollano» (pp.58-59). Dopo una pesante ristrutturazione nel corso di una procedura fallimentare, Kodak oggi rimane attiva, ridimensionata e con un giro di affari nemmeno di un decimo di quello di fine anni Novanta, prevalentemente nei servizi di stampa industriali e professionali. Nonostante la posizione dominante quindi, e a causa di una cultura aziendale rigida e autoreferenziale, nonché della sottovalutazione della rivoluzione digitale, l’azienda americana è stata travolta e relegata ad una posizione di mercato nettamente inferiore a quella dei grandi player globali.
Non è questo il caso della giapponese Fuji, attiva anch’essa prima della rivoluzione digitale nel settore di Kodak e che oggi capitalizza in Borsa 20 miliardi, rispetto ai 200 milioni dell’americana. Dinanzi alla transizione dei primi anni del Duemila Fuji operò una importante ristrutturazione dei comparti dedicati alla cinematografia puntando al contempo su diversificazione delle attività e innovazione: si apre quindi all’elettronica commerciale, alla farmaceutica, alla cosmetica e utilizzando le proprie tecnologie si inserisce nel mercato dei pannelli a cristalli liquidi LCD per televisori, computer e smartphone. Ad oggi offre quindi una variegata gamma di servizi, con le tradizionali pellicole che rappresentano meno dell’1 per cento dell’attività e i prodotti per la fotografia il 16%. Il coraggio del management è stato così premiato.
Gli esempi poi continuano: dal famoso marchio ToysЯUs nel mercato dei giochi per bambini spiazzato dalla rivoluzione dell’e-commerce a Blockbuster, azienda leader nel videonoleggio travolta dall’on demand e da realtà come Netflix – anch’essa inizialmente attiva nel settore del noleggio – che hanno saputo cogliere le opportunità del digitale e focalizzarsi sullo streaming e la produzione di contenuti; da Nokia, che ha perso la sfida degli smartphone dinanzi all’avanzata di Apple e Samsung ma ha saputo reinventarsi nel settore delle infrastrutture di telecomunicazione, a IBM, che è stata capace di anticipare il cambiamento e la crescente concorrenza nell’hardware dedicandosi allo sviluppo di software e servizi a elevata redditività.
Vi è poi il caso particolarmente interessante del declino di Abercrombie&Fitch, dovuto sì in parte all’emergere dei concorrenti aggressivi della fast fashion come Zara o H&M, ma anche e soprattutto al mutamento della sensibilità del consumatore, che si è allontanato dallo stereotipo di bellezza associato al marchio e dall’immagine diseducativa di prodotti che devono essere indossati «solo da persone ricche e belle», per andare in un’altra direzione, verso la ricerca di abiti più personali, economici e non firmati. Sempre per quanto riguarda l’importanza della mutata sensibilità di cittadini e consumatori, un campo importante è quello dell’etica ambientale, che ha portato ad esempio Barilla a puntare «sull’acquisto di materie prime da coltivazioni agricole che usano il 30 per cento di acqua in meno e su un packaging riciclabile progettato con un’attenta valutazione dell’impatto ambientale» (p.111); o ERG, un tempo uno dei principali operatori petroliferi italiani, che ha avviato nel 2008 una transizione che lo ha condotto nel giro di nove anni a cedere tutti gli asset fossili prima detenuti investendo parallelamente nell’energia rinnovabile, diventando così il primo operatore eolico in Italia.
Il volume di Magnani si presta ad essere una ricca enciclopedia di storie aziendali (e anche di città, con il successo di Milano e Rotterdam, il declino di Detroit) capace di coinvolgere il lettore e mostrare quanto sia dirompente la forza del cambiamento, nonché quanto sia necessario gestirlo, adattandosi e re-inventandosi. Inoltre, le pagine del libro e i numerosi esempi che vi si trovano suggeriscono una riflessione più ampia sulle fasi di transizione: ristrutturazioni, licenziamenti, stravolgimenti dell’organizzazione aziendale, sparizioni di determinati lavori, delocalizzazioni, espunzioni dal mercato sono realtà che si accompagnano alle profonde trasformazioni del nostro tempo e che vanno analizzate con cura, elaborando politiche volte a proteggere o quantomeno ad accompagnare le diverse realtà coinvolte durante la fase di transizione cercando di attenuare i danni potenziali; nell’obiettivo di cavalcare il cambiamento, non bisogna quindi dimenticare chi ne rimane travolto. Nel mentre, andrebbe promossa una cultura dell’innovazione, in modo che più attori possibili siano in grado di muoversi all’interno di un contesto complesso e soggetto a continui mutamenti come quello attuale, vincendo le sfide del domani. A questo fine, ci dice Magnani, «strategia e visione, cornice culturale di riferimento e capitale umano sono i cardini imprescindibili per gestire con successo il cambiamento». Da qui si potrebbe e dovrebbe partire.