Recensione a: Richard Sennett, L’uomo flessibile, traduzione di Mirko Tavosanis, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1999, pp. 160, 19,50 euro (scheda libro)
Scritto da Pierluigi Vagliante
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Questo articolo si propone di presentare un libro di notevole interesse: L’uomo flessibile, di Richard Sennett. Professore di Sociologia alla London School of Economics e alla New York University, Sennett si muove in questo testo con grande agilità, da tabelle statistiche a storielle aneddotiche, da classici del pensiero sociologico a spunti di riflessione moderna, citando pensatori di ogni risma. Il tutto teso alla realizzazione di una descrizione dell’esistente mai banale e sempre ficcante. Il testo, un po’ datato ma estremamente attuale nei contenuti, si propone di analizzare la trasformazione del mondo lavorativo e sociale nell’epoca della flessibilità. Sempre più spesso sentiamo parlare di “capitalismo flessibile”, nuova panacea a tutti i mali dell’economia (si veda il Jobs Act e la tendenza ormai comune nel riformare il mercato del lavoro), senza chiederci però quali siano i profondi cambiamenti oggi in atto.
L’analisi di Sennett parte dalla presa di coscienza di un semplice mutamento linguistico registrato negli ultimi anni: nel gergo quotidiano si è ormai passati dal termine “career” (carriera) al termine “job” (lavoro). L’italiano forse rende poco la differenza tra le due attività, ma in inglese la distinzione, anche etimologica, risulta ben più profonda. “Career” deriva infatti da “carrera”, strada per carri, simbolo di una direzione da seguire, in cui incanalare i propri sforzi economici. Job invece mostra una connotazione differente, avendo significato di “blocco”, pezzo che può esser spostato. In questa semplice trasformazione linguistica sta un po’ il nocciolo del problema. Il mondo lavorativo e sociale sta evolvendo verso un nuovo paradigma, con imponenti conseguenze.
Fin dal primo capitolo emerge la tendenza narrativa e aneddotica dell’autore, che ci porta a spasso nel tempo, anno 1970, quando conobbe un giovane portinaio immigrato negli USA alle prese con la propria carriera, per poi riportarci all’oggi e al casuale incontro con il figlio di quel portinaio, anche lui entrato nel mondo del lavoro, ma in modo molto differente. Le loro storie messe a confronto offrono una lucida cartina al tornasole per comprendere come il mondo lavorativo sia mutato nel corso di pochi decenni. Se Rico (nome di fantasia attribuito al padre) poteva contare su un lavoro stabile e una vita predicibile con dei risultati cumulativi, per Enrico (il figlio) tutto questo è soltanto un lontano ricordo d’infanzia. La vita di Enrico è infatti estremamente flessibile, fatta di svariati spostamenti lavorativi, un downsizing alle spalle, un’attività redditizia ma incerta in un presente che è sempre spinto verso un futuristico avvenire. E sebbene il reddito di Enrico sia nella fascia di quelli più alti in America, i problemi non mancano. La famiglia che si è costruito soffre infatti di una grande instabilità, mal digerita sia dai genitori che dai figli. I primi non riescono a imprimere un modello di vita valido ai giovani di casa (come si insegna il valore della dedizione quando la propria vita è in continuo mutamento?) mentre i secondi vengono sballottati da uno stato all’altro del paese, privi di una guida capace di donargli stabilità.
Eppure la flessibilità è presentata quasi come un favore accordato ai dipendenti preferiti, un premio per i più meritevoli, un modello elogiato da dirigenti d’azienda e politici illustri, capace di tener conto delle esigenze dei lavoratori e di quelle delle imprese. Il mito della flessibilità ha radici antiche: già Adam Smith pensava che un lavoro di routine uccidesse lo spirito, instupidendo l’intelletto. La flessibilità invece ha la funzione di ampliare la libertà dell’individuo, permettergli di vivere in modo aperto agli stimoli esterni. Tuttavia quel sogno di libertà non si è realizzato e alle vecchie burocrazie del controllo si sono sostituite nuove strutture di potere, meno visibili, ma non per questo assenti. Difatti parlare di tempo flessibile significa edulcorare una serie di pratiche che difficilmente potrebbero essere considerate apprezzabili da qualsivoglia lavoratore. È vero che esiste una maggiore libertà diffusa ai piani bassi, ma questa si traduce anche in maggiori responsabilità davanti ai propri superiori, o alle ditte da cui si dipende. Il tempo viene scandito sempre da una logica metrica (alla ricerca di un’efficienza sovraumana) che lascia poco spazio alla libertà comunemente intesa. Il controllo è sempre presente, sebbene maggiormente celato. Anche la stessa impalcatura istituzionale, apparentemente assente, è invece sempre più forte e complessa, tanto complessa da rendere sconosciuti i volti dei decisori. In questo finto paradiso dalla libertà ingannevole i lavoratori sono costretti a raggiungere obiettivi di elevatissima efficienza, pena il mancato rinnovo contrattuale; controllati da una tecnologica scarsamente amica e con sempre minori diritti.
L’attuale sistema di potere e controllo si basa secondo l’autore su tre elementi fondamentali:
Questi elementi entrano in gioco in modo diverso in base a quali modelli statali si analizzino. Sennett propone una suddivisione in due macrocategorie: da una parte il modello renano (europeo), con sindacati e aziende che si dividono il potere, mentre l’apparato assistenzialistico dello stato fornisce una rete di sicurezza a chi è economicamente più debole; e dall’altra parte il modello angloamericano, neoliberista, in cui la burocrazia viene messa a tacere dal libero mercato. Nel primo caso si evita la crescita di disuguaglianza nei redditi, pagando pegno con un’alta disoccupazione, nel secondo si sceglie di aumentare il numero degli occupati accettando però una sempre più crescente disuguaglianza economica. In entrambi i casi, il male che si tollera dipende dal bene che si desidera.
Sennett passa poi a osservare tutta la casistica di problemi legati al mondo della flessibilità. Tra questi spicca il problema del “lavoro illeggibile”. Simile per certi versi a una teoria dell’alienazione di stampo marxiano, quest’osservazione è resa però più sofisticata e moderna per via dell’attenzione posta su un nuovo fattore determinante: la tecnologia informatica e la sua capacità di surrogare l’intelligenza umana. L’esempio offerto da Sennett è quello di alcuni fornai di Boston. Questi, a differenza dei loro predecessori, utilizzano tecnologie all’avanguardia, e il loro lavoro si concreta nel premere alcuni tasti su un display facilmente comprensibile. Nessuno sforzo, nessuna fatica, nessuna tensione verso un miglioramento. Nulla a che vedere quindi con il lavoro dei fornai vecchia maniera, con le mani in pasta e i muscoli tesi nell’atto dell’impasto. Il problema dell’ingresso dell’informatica in tutti i settori è che a una maggiore semplicità di esecuzione corrisponde anche una minore capacità di stimolo per i lavoratori meno specializzati. E questa mancanza di sforzo si traduce poi in un superficiale distacco, che impedisce di andare a fondo nei problemi. Il lavoro, paradossalmente, è diventato più semplice, e quindi più illeggibile.
La flessibilità, nelle parole di Sennett, “crea differenze tra la superficie e il profondo” e “i sudditi più deboli del regime flessibile sono costretti a rimanere in superficie”. E allo stesso modo questa tendenza alla semplicità superficiale costituisce anche uno dei problemi della società americana, comunità basata su un’uguaglianza di diritto, apparentemente senza classi, ma sostanzialmente divisa in blocchi con prospettive di vita molto differenti.
Altra caratteristica peculiare e problematica dei regimi flessibili è quella del fallimento. In un universo lavorativo sempre più basato sulla logica del rischio, il fallimento non è più circoscritto a casi isolati, ma diventa quasi endemico: un evento quotidiano. Tuttavia il senso comune non ha ancora afferrato la trasformazione in atto. E il fallimento è ancora un tabù, un’onta sociale che genera ossessione interiore.
Ma il problema peggiore del fallimento nell’epoca flessibile è che manca una narrazione dentro la quale inserire la propria “sconfitta”. In assenza di una stabile carriera lavorativa il fallimento diventa un evento tra i tanti, perde di senso ed è difficilmente collocabile all’interno della propria storia. Se gli eventi non vengono inseriti in un percorso coerentemente dotato di senso si perdono nell’emotivismo e nella chiusura interiore. Si può ritenere di non esser abbastanza capaci, di aver preso delle scelte sbagliate o di non essersi messi in gioco quando era il momento opportuno. Tutte valide motivazioni, che però spiegano solo superficialmente il fenomeno. Si tratta di cause accidentali, contingenti, che non generano consapevolezza, ma solo smarrimento.
Sennett parla a tal proposito del caso dei dipendenti dell’IBM, nota azienda statunitense che negli anni 90 visse una forte crisi. Questa provocò il passaggio da un’impostazione paternalistica (per cui l’azienda concedeva ai suoi dipendenti molti benefit) a un’impostazione freddamente distante, in cui i dipendenti perdevano il loro piccolo eden (campi da golf, copertura sanitaria, mutui e altre agevolazioni). Inoltre nei primi sei mesi fu licenziato un terzo dei dipendenti (e in seguito ne vennero licenziati altri); cosa che creò un clima di profonda sfiducia nell’ambiente. L’effetto prodotto da questo cambiamento epocale fu che tanti dipendenti iniziarono a chiudersi in se stessi. Diminuì in maniera drastica l’impegno comunitario. L’unica forma di partecipazione sociale era quella alla propria chiesa di riferimento, che offriva un senso di accettazione per le disgrazie avvenute.
Tuttavia alcuni dipendenti tra quelli licenziati riuscirono poi a risollevarsi, almeno in parte, dalla caduta. I loro discorsi avevano sempre avuto il tono triste e malinconico del vittimismo. Ritrovandosi sempre nel solito bar pensavano a quel superiore che non aveva loro concesso di finire una partita di golf, ai loro colleghi che non erano stati licenziati, ai misteriosi viaggi dei propri capi: ai primi segnali che avrebbero dovuto metterli in guardia dall’imminente disastro. Si sentivano ingannati dall’azienda, traditi da quella che per loro era stata più di una semplice sicurezza, quell’azienda che aveva costituito per loro un orizzonte di senso. Pian piano si accorsero però che le loro osservazioni non erano poi così veritiere: quel superiore era stato poi licenziato, i colleghi rimasti non se la passavano troppo meglio e anche la stessa azienda non navigava in buone acque. In un secondo momento cercarono poi di valutare le possibili cause esterne: la globalizzazione, l’entrata nell’azienda di dipendenti stranieri. Ma anche queste spiegazioni funzionavano poco. Gli ex dipendenti cominciarono allora a chiedersi quali fossero i motivi individuali del proprio fallimento e iniziarono a costruirsi una specifica narrazione. La mancata intuizione di ciò che stava succedendo sulla costa occidentale (l’esplosione di internet), le nuove sfide che informatica e industria si proponevano di affrontare. Avevano sbagliato a fidarsi della politica aziendale, senza prendere in mano la propria vita: questa fu la conclusione maggiormente accettata. L’esito finale fu quindi un ritorno al senso della carriera e alle possibilità di scelta individuale. Riuscirono a ricostruire una propria narrazione. Ma, sebbene questa costruzione fosse nata da un’attività dialogica e di gruppo, il risultato che ne scaturì fu fortemente individuale. Gli ex dipendenti sfruttarono le capacità di discernimento e narrative della comunità, senza però riconoscere il pronome che animava quelle discussioni.
È questo il titolo dell’ultimo capitolo che chiude il testo: “Il pronome pericoloso”, il pronome “noi”. Il capitalismo flessibile ha creato, secondo Sennett, una forte mancanza di comunità, sia virtuale che fisico-spaziale. E proprio quest’assenza sta diventando negli ultimi tempi più viva e presente. Spesso declinato in forme discutibili, attraverso una logica negativa e difensiva (come con il rifiuto dei migranti), il desiderio di appartenere a una comunità sta riemergendo come tendenza capace di generare partecipazione. Sennett saluta con favore l’affiorare di una nuova consapevolezza, di un diverso modo di osservare il mondo. E sebbene il modello flessibile sia molto meno leggibile rispetto alle precedenti forme di capitalismo, stanno nascendo oggi nuove chiavi di lettura. Si sta riscoprendo la necessità di comprendere il mondo, attraverso un codice per penetrare la superficie delle cose; un codice di cui la maggior parte delle persone è oggi priva. Significativa la considerazione che chiude il testo: “Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni degli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità”. In un mondo fortemente individualizzato, costituito da monadi che fluttuano in un universo fluido, sta oggi germogliando l’idea che la dipendenza reciproca degli esseri umani non è necessariamente una maledizione dell’individuo libero e autonomo. La dipendenza tra esseri umani potrebbe essere intesa diversamente. Come la prova tangibile che siamo tutti accomunati da una storia comune, da un destino condiviso.