“La Banca d’Italia e l’economia. L’analisi dei Governatori” a cura di Federico Carli e Pierluigi Ciocca
- 25 Gennaio 2021

“La Banca d’Italia e l’economia. L’analisi dei Governatori” a cura di Federico Carli e Pierluigi Ciocca

Recensione a: Federico Carli e Pierluigi Ciocca (a cura di), La banca d’Italia e l’economia. L’analisi dei Governatori, Nino Aragno Editore, Torino 2019, pp. 3327, 400 euro (scheda libro)

Scritto da Nicolò Fraccaroli

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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.


La Banca d’Italia oggi gode di un prestigio inestimabile nel panorama delle istituzioni pubbliche italiane. Ma nonostante siamo ormai abituati alla reputazione dell’istituto di via Nazionale, viene da chiedersi come ciò sia possibile. In fondo dal dopoguerra ad oggi l’Italia si è distinta per una forte instabilità monetaria e alti livelli di inflazione, per non parlare delle performance macroeconomiche che tutti conosciamo, dall’alto debito pubblico alla bassa produttività. In altre parole, se l’economia italiana non è certamente quella tedesca, come è possibile che la Banca d’Italia abbia così poco da invidiare alla Bundesbank o alle altre istituzioni europee in termini di prestigio e credibilità?

Una soluzione a questo enigma si trova probabilmente nei governatori che hanno guidato Banca d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi e nelle scelte lungimiranti che hanno intrapreso in tempi di estrema incertezza economica, politica e sociale. Dagli anni Quaranta ad oggi i governatori hanno avuto un impatto fondamentale sulla nostra vita economica e politica. Non è un caso se dopo il loro mandato abbiano ricoperto ruoli quali presidente della Repubblica, presidente del Consiglio o, più di recente nel caso di Mario Draghi, la presidenza della Banca centrale europea. Ma quali sfide hanno affrontato? E a cosa si deve questo merito?

La raccolta in cinque volumi La Banca d’Italia e l’economia. L’analisi dei Governatori curata da Federico Carli e Pierluigi Ciocca (Aragno 2019) offre una risposta storiografica a queste domande, raccontando le sfide affrontate dai governatori e di come le hanno risolte. E lo fa attraverso una narrativa unica: le considerazioni finali dei governatori stessi. Inaugurate da Einaudi nel 1947, le considerazioni finali hanno rappresentato il locus in cui il governatore si ferma a riflettere sulle vicende economiche, politiche e sociali dell’anno trascorso. Se per Gramsci gli appuntamenti annuali fanno «perdere il senso della continuità della vita e dello spirito», leggerli oggi ci permette di cogliere gli eventi della storia economica italiana attraverso il punto di vista unico dei numeri uno di Palazzo Koch. Ma l’opera di Carli e Ciocca non si limita ad una semplice raccolta di discorsi. Introducendo i profili degli otto governatori che si sono succeduti dal 1945 ad oggi, la profonda conoscenza del tema da parte dei due curatori accompagna anche il lettore meno esperto attraverso le decisioni e il contesto socioeconomico che la banca centrale ha affrontato negli anni.

 

L’eredità della «linea Einaudi»

La sfida dei governatori del secondo dopoguerra è quella di ricostruire un’economia lacerata dal conflitto: inflazione galoppante, un PIL dimezzato rispetto al periodo pre-bellico, disoccupazione, malattie e abitazioni ed infrastrutture distrutte. Oggi gli economisti sanno che un simile scenario offre un punto di partenza ideale per la crescita economica, se vengono garantite certe condizioni. Costruire un’infrastruttura, come un ponte, o una strada, in un Paese che ne ha un estremo bisogno ha un impatto economico maggiore piuttosto che costruirlo in un Paese dove le infrastrutture abbondano. La differenza, però, sta proprio nell’abilità di creare le condizioni ideali per cui un Paese possa ‘crescere ricostruendosi’. Come spiega lo storico Barry Eichengreen[1], sebbene in Europa ci fossero le premesse favorevoli per la crescita, le politiche economiche intraprese ebbero un ruolo fondamentale per la crescita che seguì.

In tale contesto il nuovo governatore Luigi Einaudi, partigiano di stampo liberale, decise di concentrarsi sull’inflazione, e di combatterla con una politica monetaria restrittiva. Aumentare il tasso di sconto (dal 4 al 5.5% nell’estate del 1947) ebbe l’effetto desiderato di limitare l’espansione del credito. In altre parole Einaudi diede priorità alla lotta all’inflazione, piuttosto che creare nell’immediato le condizioni economiche favorevoli agli investimenti in un contesto inflazionistico. Non era una risposta scontata e la decisione provocò non poche rimostranze, in particolare da sinistra. I salari erano infatti legati alle variazioni dell’indice dei prezzi: limitare l’inflazione significava quindi contenere la crescita dei salari. Einaudi si oppose a questo sistema, noto come scala mobile, proprio nelle sue prime considerazioni finali. Secondo il governatore, in mancanza di un aumento del flusso dei beni prodotti, «la scala mobile è uno strumento di privilegio per i meno e di immiserimento dei più. Ingannati da una fata Morgana, gli organizzatori operai si illudono di operare il bene di tutti ed invece inaspriscono le ingiustizie sociali».

Fonte: Mitchell (1981 e 1993); dati accessibili dal sito di Banca d’Italia.

Con le prime considerazioni finali il governatore non si rivolgeva più alla ristretta assemblea annuale degli shareholder della Banca, ma all’intera nazione. Consapevole dei costi sociali ed economici delle proprie politiche, chiese agli italiani di sopportare le sofferenze del momento in vista di un benessere futuro. La semplicità e la ricchezza poetica che caratterizza il suo linguaggio sorprende ancora oggi: «Vi è una strada dura e faticosa la quale va verso l’alto, ed un’altra piana ed agevole la quale conduce nell’abisso. La vetta ed il precipizio non sono ancora in vista, ma si sentono. A noi la scelta della via da percorrere».

Il nuovo governatore, Donato Menichella, ereditò un punto di partenza relativamente agevole in questa strada verso l’alto, proseguendo in larga parte la politica del predecessore, che lui stesso chiamò la «linea Einaudi». Combattere l’inflazione significava creare le condizioni favorevoli al risparmio, che si sarebbe tradotto in consumi ed investimenti. In questo sforzo, non dobbiamo tuttavia immaginare la Banca d’Italia come isolata. Se la banca centrale creò le condizioni favorevoli al risparmio, la trasformazione del risparmio in investimenti fu il frutto dello sforzo concertato di sindacati, governi orientati alla crescita e organizzazioni dei datori di lavoro. Quest’azione coordinata permise ai Paesi europei di finanziare gli investimenti in maniera strategica e pianificata, stabilizzando i salari e riducendo la disoccupazione.

A seguito di queste politiche, l’Italia, come altri Paesi europei, toccò tassi di crescita mai più replicati, dando inizio alla fase storica conosciuta come Golden Age[2]. L’Italia fu certamente protagonista del boom, raggiungendo tassi di crescita secondi solo al Giappone. Nonostante gli italiani tendano ad attribuire un carattere provvidenziale a questa crescita, ricordando il periodo come il ‘miracolo’, esso fu il risultato di una serie di politiche e cambiamenti istituzionali in cui Banca d’Italia giocò un ruolo fondamentale. Il sistema a tassi di cambio fissi garantito da Bretton Woods permetteva infatti alle banche centrali nazionali di determinare liberamente la propria politica monetaria. Sotto Menichella l’inflazione diminuì garantendo una crescita del PIL che nel 1948 tornò ai livelli prebellici.

Fonte: Maddison (1995); dati accessibili dal sito di Banca d’Italia.

Gli anni dell’instabilità

Nel 1960 Menichella lasciò a Guido Carli, un Paese in piena crescita. Con Carli questo trend positivo non si interruppe: tra il 1960 e il 1969 la produzione crebbe del 5.6%, i salari del 7.3%, il tasso di disoccupazione superò appena il 5%, mentre l’inflazione rimase contenuta sotto il 3.5%. Ma nel giro di un decennio le istituzioni economiche e le idee che avevano portato a quella crescita sarebbero state stravolte. Nel 1971 la sospensione del sistema di Bretton Woods segnò la fine del regime di cambi fissi che aveva sostenuto il commercio internazionale nel secondo dopoguerra. Senza l’ancoraggio al dollaro, le valute nazionali fluttuavano liberamente creando incertezza nel commercio internazionale. Due anni più tardi, la guerra del Kippur acuì l’instabilità, provocando un’interruzione immediata delle esportazioni di petrolio, e un aumento simultaneo di inflazione e disoccupazione, conosciuto come stagflazione. La crisi cambiò profondamente il modo di pensare la politica monetaria. Una nuova scuola di pensiero, il monetarismo, secondo cui la politica monetaria doveva limitarsi alla stabilità dei prezzi, iniziava a diffondersi tra le banche centrali. Ogni variazione del tasso di interesse volta a promuovere la crescita avrebbe prodotto solo ulteriore inflazione e disoccupazione nel lungo periodo. Rinunciare alla propria sovranità monetaria implicava quindi un costo inferiore, in quanto la banca centrale sarebbe stata comunque incapace di stabilizzare l’economia[3].

Carli capì che la soluzione andava cercata a livello europeo. Tuttavia non fu spinto da un cieco europeismo. Sebbene la sua figura venga spesso associata all’idea di vincolo esterno, che lui stesso formulò (in particolare in epoca più tarda come ministro dell’economia[4]), già nel 1972 Carli presagiva le debolezze dell’area euro: «la progressiva limitazione delle autonomie nazionali nelle politiche dei cambi, dei movimenti di capitali, del credito e, in ultima analisi, della domanda globale avrebbe potuto influenzare lo sviluppo economico positivamente in alcuni Paesi e regioni, negativamente in altri. Era necessario, quindi, che con il meccanismo di unificazione monetaria fossero apprestati tempestivamente gli strumenti di una politica di sviluppo equilibrato, finanziata anche dal centro».

Forse è ancora più sorprendente la sua posizione sul mandato della banca centrale che avrebbe presieduto all’area euro. In un’epoca dominata dal monetarismo, Carli si mostrò critico verso l’idea di assegnare alla futura Banca centrale europea (BCE) la stabilità dei prezzi come unico obiettivo primario, sostenendo che «se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’unione monetaria europea non può tuttavia es sere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra». Nonostante queste posizioni, circa trent’anni dopo vinse il fronte monetarista che assegnò alla BCE la stabilità dei prezzi, che rimane tutt’ora il suo obiettivo primario.

Anche Paolo Baffi, successore di Carli, dimostrò una grande capacità diplomatica, nonostante il suo breve mandato (1975- 1979). Nelle trattative per la creazione del Sistema Monetario Europeo, un accordo monetario di tassi di cambio fissi predecessore dell’euro, Baffi ottenne un margine di fluttuazione del tasso di cambio più ampio per l’Italia rispetto agli altri Paesi (ovvero del ±6% a fronte del ±2.5% per gli altri Paesi, con alcune eccezioni). Lo stesso Berlinguer, in una lettera, manifestò a Baffi dimissionario «l’apprezzamento del nostro partito e mio personale per il ruolo che lei ha saputo svolgere nell’interesse del Paese in momenti di grande difficoltà, in delicate trattative internazionali». Tuttavia, l’instabilità economica era inasprita dal protrarsi dello shock petrolifero, a cui ne sarebbe seguito un altro nel 1979, e dalla spirale di crescita di salari, inflazione e disoccupazione generata dallo shock. Le tensioni sociali si traducevano in un debito pubblico sempre più alto, che Baffi cercò più volte di frenare con le sollecitazioni al Tesoro. Come sintetizzò Baffi nel 1977, «in una catena di relazioni sociali e politiche in istato di tensione, la moneta rappresenta l’anello debole ed il finanziamento del Tesoro il punto di rottura di questo anello». Lo stato di tensione culminò proprio in quegli anni con l’omicidio di Aldo Moro. Sotto pressioni politiche, Baffi si dimise.

La priorità del nuovo governatore, Carlo Azeglio Ciampi, fu quindi riaffermare l’indipendenza politica della banca centrale. Questo obiettivo culminò nel ‘divorzio’ tra la Banca d’Italia e il Tesoro nel 1981, che si tradusse nel rifiuto da parte della prima di acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti nelle aste. Per Ciampi, una condizione essenziale della stabilità monetaria era che la «creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa». Non fu una posizione facile da mantenere, e le continue tensioni portarono Ciampi ad offrire le sue dimissioni al governo Craxi, che però le rifiutò. Così via Nazionale ruppe una tradizione di interdipendenza a lungo criticata dai predecessori di Ciampi, e che ancora oggi è oggetto di dibattito politico[5].

Fonte: Balassone et al. (2013) in Toniolo (eds.).Alla sfida dell’indipendenza si affiancò quella dell’inflazione a due cifre ereditata dalle crisi petrolifere. Ciampi adottò un approccio gradualista, che dovette far fronte all’aumentare dei tassi mondiali come conseguenza della politica restrittiva della Federal Reserve di Paul Volcker. L’obiettivo di Ciampi era evitare quella che definì «una cura d’urto, di restringimento monetario», che avrebbe sì stroncato l’inflazione, ma generando enormi costi nel mercato del lavoro. Gli esempi di Carli e Baffi negli anni Settanta avevano dimostrato che una simile cura era destinata a perire sotto le crescenti pressioni che avrebbe generato. In un mondo di mobilità dei capitali e tassi di cambio fissi, la soluzione di Ciampi fu l’adozione di tassi di interesse superiori a quelli dei mercati internazionali, riducendo quindi la fuoriuscita di capitali che avrebbero deprezzato il cambio. Questo approccio avrebbe gradualmente costretto le imprese a contenere i costi interni, ovvero i salari, ed aumentare la produttività.

Banca d’Italia

Fonte: Banca mondiale.

Questo equilibrio si ruppe nel 1992 con l’attacco speculativo alla lira e l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo. Dopo quell’anno fatidico, nel 1993, Ciampi lasciò il suo posto ad Antonio Fazio per diventare primo ministro di un governo tecnico che avrebbe guidato un Paese sconvolto dallo scandalo di Tangentopoli. Fazio guidò l’Italia verso l’adesione alla moneta unica in un momento di estrema turbolenza. Agli alti tassi della Bundesbank e della Federal Reserve, si unì la crisi messicana, portando via Nazionale ad un prudente rialzo del tasso di sconto nel 1995. Il governo si oppose, convinto che l’aumento dei tassi a breve avrebbe inasprito quelli a lunga, aumentando l’onere del servizio del debito pubblico. Ma accadde il contrario: i mercati valutarono positivamente la politica restrittiva, diminuendo le loro aspettative sull’inflazione e quindi i tassi a lunga; il costo del debito scese. Anche in questo frangente sorprende la lungimiranza di palazzo Koch nell’osservare i fenomeni del suo tempo. Di fronte alla crescente finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, Fazio non fu un’entusiasta promotore dell’ortodossia economica. Al contrario, ne sottolineò i rischi: povertà e disuguaglianze, in particolare nei mercati emergenti. Nonostante il bilancio positivo caratterizzato dalla riduzione di inflazione e disoccupazione e un aumento del PIL del 1.6%, il mandato di Fazio si concluse con le sue dimissioni in seguito ad uno scandalo giudiziario.

Il quinto volume della raccolta conclude con gli ultimi due governatori, entrambi allievi di Federico Caffè: Mario Draghi e l’attuale governatore Ignazio Visco. Chiaramente è difficile ‘tirare le somme’ su due personalità che hanno ancora un peso significativo sul panorama politico ed economico italiano e internazionale. Come governatore, la sfida di Draghi fu principalmente la restaurazione della credibilità di Banca d’Italia dopo la scandalo Fazio. Possiamo dire che vi riuscì con successo, e gli valse la nomina a presidente della Banca centrale europea, il primo italiano dalla creazione dell’euro. Ma la capacità analitica di Draghi non fu seconda a quella dei suoi predecessori. Già nel maggio del 2007 ammonì contro i rischi della finanza, che si manifestarono nel settembre dello stesso anno con lo scoppio della Grande Recessione. La tentazione di pensare che dalla sua posizione fosse facile anticipare un simile rischio è smentita dalle dichiarazioni dell’ex governatore della Federal Reserve americana, Alan Greenspan, che ammise di fronte al congresso di non essere riuscito a prevedere la crisi in quanto il suo modello di interpretazione del mondo dell’economia, la sua ideologia, erano sbagliati, flawed.

Visco oggi si trova di fronte a sfide simili e diverse dai suoi predecessori. La lotta all’inflazione è stata sostituita dalla riduzione dello spread, in cui l’azione di Banca d’Italia può avere effetto solo se concertata con i partner europei. La stagnazione economica dell’occidente persiste e con esso il problema della produttività, che Visco ha spesso sottolineato nelle sue considerazioni. Infine, l’indipendenza della banca centrale dalle pressioni politiche non può essere data per scontata. Oggi in particolare è legata a doppio filo alla stabilità bancaria, come ha dimostrato la conferma di Visco ad un secondo mandato nel 2017, che è stata oggetto di attacchi da parte di diverse parti politiche.

 

Tre ‘considerazioni finali’

Quali sono le considerazioni che possiamo trarre da questi volumi sulle figure dei governatori? Certamente, come ogni opera di contenuto storico, ne possiamo trarre molte, a seconda del nostro punto di vista. Ad avviso di chi scrive, ne emergono tre.

La prima considerazione è la capacità sorprendente di Banca d’Italia di rimanere aperta e all’avanguardia nei confronti delle nuove idee e approcci all’economia. Lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo, attraverso le parole dei governatori. Ma dietro di esse si muovono esperti che interpretano il mondo informando e consigliando i governatori. Figure come Baffi, Draghi e Visco, per citarne alcuni, devono la loro formazione proprio a questo ambiente. Se non fosse per questa flessibilità e questa apertura, forse la Banca d’Italia non sarebbe stata così capace di trovare rapidamente delle risposte ai problemi di ogni epoca. Ad esempio, come notano Carli e Ciocca nell’opera, sebbene le idee di Keynes e Minsky siano tornate in auge solo con la crisi del 2007, non erano mai state dimenticate in via Nazionale.

Una seconda considerazione sembrerà ovvia ad alcuni, sorprendente ad altri. I governatori della Banca d’Italia non erano solo economisti o banchieri, nemmeno nella loro formazione. Menichella era laureato in scienze politiche, Ciampi in lettere antiche, Einaudi e Carli in legge. Ciò sorprende, in quanto oggi gli economisti vengono formati attraverso rigidi percorsi di formazione, che comunicano poco con le altre scienze sociali. Come evidenziano i volumi di Carli e Ciocca, i governatori si sono distinti per la loro capacità non solo di interpretare gli eventi economici, ma anche di bilanciarli con una lettura attenta dei fenomeni politici e sociali. I governatori sono stati scienziati sociali a tutto tondo, attenti alle ‘variabili’ economiche quanto a quelle (geo-)politiche, storiche e sociali.

La mia terza considerazione guarda al futuro. Fino ad oggi, la storia dei governatori è esclusivamente una storia di uomini. Fortunatamente, non è lo stesso altrove, specialmente in tempi recenti. Janet Yellen, a capo della Federal Reserve sotto Obama, si è dimostrata una governatrice eccellente e si prepara a ricoprire un ruolo di spicco nella presidenza Biden. L’anno scorso Christine Lagarde è diventata la prima donna presidente della BCE, sostituendo Draghi. Dal 2013 Elvira Nabiullina è governatrice della banca centrale russa. L’Italia su questo fronte rimane indietro. La Banca d’Italia, che si è mostrata all’avanguardia su molti aspetti, potrebbe essere un motore di cambiamento anche in questa direzione.


[1] B. Eichengreen, The European Economy since 1945, Princeton University Press, Princeton 2006.

[2] M. Amato, L. Gobbi, Fu vera gloria? Ripensando i Trenta Gloriosi, «Pandora Rivista» online, 16 marzo 2020.

[3] P. De Grauwe, What have we Learnt about Monetary Integration since the Maastricht Treaty?, «Journal of Common Market Studies», 44(11), pp. 711-730, febbraio 2006.

[4] I. Begg, K. Featherstone, From ‘Vincolo Esterno’ to ‘Nemico Esterno’: The disturbing new demonization of the EU, «Dahrendorf Forum Blog», 26 ottobre 2018.

[5] G. Galli, Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà, «Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani», 25 novembre 2018.

Scritto da
Nicolò Fraccaroli

Postdoctoral Research Associate alla Brown University, Stati Uniti, presso il Watson Institute for International and Public Affairs. Ha lavorato presso la Banca Centrale Europea, la Banca d’Inghilterra e l’Inter-American Development Bank. Ha conseguito un dottorato in Economia all’Università di Roma Tor Vergata e un master in Politica economica europea alla London School of Economics. È autore di: “Austerity vs Stimulus. The Political Future of Economic Recovery” (con R. Skidelsky, Palgrave Macmillan 2017).

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