“La Cina nella storia globale” a cura di Guido Samarani
- 20 Aprile 2020

“La Cina nella storia globale” a cura di Guido Samarani

Recensione a: Guido Samarani (a cura di), La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze, Guerini e Associati, Milano 2019, pp. 512, 35 euro (scheda libro)

Scritto da Davide Regazzoni

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Tutte le storie, in ogni tempo, nascono dalla necessità di raccontare il passato in base ai bisogni del presente. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’idea di storia, supportata da vicende economiche, militari e culturali, era legata all’immagine di un’Europa in ascesa e in espansione. Tale concezione si rifletteva anche nella maniera in cui venivano istruiti gli alunni, e futuri “patrioti”, tramite un’educazione storica mirata all’esaltazione e alla costruzione di un senso di collettività che guardasse alla nazione quale principale riferimento. Inoltre, come osservava il filosofo Ernst Troeltsch, una mancanza di studi approfonditi sul passato dei popoli extra-europei era giustificata in quanto veniva riconosciuta ad essi l’assenza «di un’autocoscienza storica e la cognizione critica del passato, di cui solo lo spirito europeo ha sentito il bisogno», portando con ciò a concludere che fosse possibile unicamente una «storia mondiale dell’Europeicità»[1]. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo tutti gli studiosi europei, forti anche della filosofia della storia elaborata da Hegel in Lezioni sulla filosofia della storia, erano pressoché concordi nel riconoscere un’importanza storica solo all’Europa. Pertanto, una qualunque concezione di storia mondiale che avesse la pretesa di porre sullo stesso piano la tradizione europea con quella di altri continenti o popolazioni risultava del tutto impensabile. Tale logica di pensiero rimase pressoché immutata fino alla metà del Novecento, quando la globalizzazione e i vari processi geopolitici fecero risultare il concetto di eurocentrismo inapplicabile alla realtà che si stava formando. Infatti, l’effettivo ruolo di guida politica, culturale e “morale” del Vecchio Continente stava svanendo, facendo spostare il baricentro verso altre realtà, come gli Stati Uniti d’America, la Russia e, più recentemente, la Cina.

Il libro La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze a cura di Guido Samarani (edito da Guerini e Associati) risponde alla necessità, e a un sentire comune tra gli studiosi in ambito storiografico, di ampliare le prospettive attraverso le quali osservare i processi storici, pluralizzandone i centri di riferimento e oltrepassando così i tradizionali confini storico-europeistici. Attraverso l’approccio storiografico della storia globale o world history, Guido Samarani, professore ordinario presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, propone una serie di saggi e contributi, qui tradotti per la prima volta in italiano, volti a contestualizzare meglio l’orizzonte cinese sul piano sia storico che storiografico. Il presente volume assume inoltre lo scopo, non secondario, di rendere l’Italia partecipe, in un’epoca di gestazione storiografica, di un confronto e dibattito di portata internazionale.

 

L’evoluzione dell’approccio della storia globale nella storiografia cinese

Samarani delinea così due piani di studio paralleli, ma allo stesso tempo legati fra loro: uno puramente teorico e storiografico, nel quale spiega cosa rappresenta la world history delineandone l’evoluzione con particolare attenzione verso il mondo cinese; l’altro di carattere più pratico e storico, dove si applica l’approccio alla storia globale rivalutando alcune vicende euro-asiatiche osservandole da una prospettiva più ampia, anche se questo aspetto nel testo è affrontato esiguamente in virtù della predominanza delle questioni storiografiche.

È infatti interessante notare come dall’introduzione di Samarani emerga una definizione plastica e generale di world history, quale lettura della storia rivolta alla ricostruzione dei processi che strutturano quegli avvenimenti e fatti che solitamente risultano incatenati a una visione fortemente eurocentrica. Definizione questa che permette, inoltre, di sottolineare in quale modo tale approccio sia caratterizzato da una spiccata poliedricità di declinazioni. Ad esempio, l’approccio di Sebastian Conrad non mira a sostituire il paradigma storico incentrato sulla dimensione della nazione, che viene considerata il cardine attorno al quale impostare la lettura dei processi, quanto piuttosto a portare alla luce quella fitta rete di concatenamenti e relazioni che uniscono spazi ed eventi ad un livello globale[2]. Al contrario, Akira Iriye afferma la necessità di dover ripensare la storia contemporanea alla luce della storia globale. Accantonando quindi l’idea di una storia fatta di stati-nazione, la sua attenzione si sposta su attori transnazionali, come le organizzazioni internazionali, o su grandi tematiche, quali le migrazioni e i diritti umani[3].

Allo stesso modo di quanto avvenuto in Europa, si può infatti notare come anche nella storiografia cinese l’approccio alla storia mondiale risulti pressoché inconsistente. Ciononostante, il saggio di Dominic Sachsenmaier Un altro mondo? Pensare globalmente alla storia in Cina, risulta particolarmente interessante in quanto tenta una ricostruzione della storiografia cinese in chiave di storia globale, con l’obiettivo di mostrare in che modo, nonostante il suddetto approccio non sia quasi mai stato del tutto formalizzato, tale storiografia, soprattutto nel periodo più recente, presenta tratti tipici della world history. Prendendo le mosse dall’opera di Siam Tan e Sima Qian Memorie di uno storico (史记Shǐjì, II-I secolo a.C.), che rappresenta una fonte di enorme importanza, – prima monografia storica completa nella quale sono presenti i racconti delle dinastie leggendarie cinesi fino alla dinastia Han – essa non fa certo eccezione nel considerare la storia dei paesi esterni al contesto cinese come estranei e barbari. Da questo punto di vista la Cina non è dissimile all’Europa. Il primo tentativo, invece, di scrivere in Cina una storia mondiale fu all’inizio del primo millennio con l’opera Specchio generale per il governo (资治通鉴Zīzhì tōngjiàn, 1084) di Sima Guang. Un tentativo oggi ritenuto dai risultati comunque modesti, in quanto trattò di fatto solo la storia culturale del mondo cinese. Fino all’Ottocento, la Cina si considerava infatti Tiānxià (天下)[4], letteralmente “tutto ciò che sta sotto il cielo”, cioè uno Impero dai confini porosi circondato da altri regni che, pagando dei tributi e inchinandosi davanti all’imperatore, accettavano la supremazia culturale e politica cinese. L’importanza e la centralità che la Cina ricoprì in questo sistema diplomatico enfatizzò il suo primato culturale traducendolo in un forte spirito sinocentrico, che la portò a marginalizzare tutti i paesi al di fuori della propria area di influenza[5].

Facendo un salto temporale verso l’epoca moderna, la tradizionale credenza per cui l’Impero Celeste fosse il cuore pulsante di una civiltà unica e superiore, rimase praticamente indiscussa fino alla prima guerra dell’oppio (1839-1842). Lo scontro con il Regno Unito fu il primo grande evento in cui il Celeste Impero, subendo una pesante sconfitta sul campo di battaglia, si rese conto della sua inadeguatezza strutturale, dando così inizio al “secolo dell’umiliazione” (1839-1949). La crisi identitaria che ne seguì permise, però, l’avvio di un profondo processo di ripensamento degli elementi fondanti tanto sul piano culturale che economico, militare, politico e ovviamente anche storiografico. In tal senso si può affermare che esso fu un periodo di radicale rottura storica: gli stessi intellettuali cinesi si divisero tra coloro che cominciarono a considerare le proprie tradizioni come un ostacolo alla modernizzazione, e coloro che le ritenevano al contrario un tesoro da preservare. Introdotto dall’Occidente, il nuovo concetto di nazione condizionò inoltre molti intellettuali e politici, spingendoli ad intraprendere un progetto e un percorso che traghettasse la Cina da stato-civiltà a stato-nazione. Ciò consegnò poi agli storici il compito di rileggere il passato alla ricerca di quei semi di civiltà che da lì a poco avrebbero dovuto fungere da basi culturali per sostenere il passaggio verso un vero e proprio stato-nazione occidentalmente inteso. Non a caso, Liang Qichao, uno dei massimi intellettuali cinesi del primo Novecento, di formazione confuciana, sosteneva che la storiografia potesse e dovesse avere un ruolo cruciale nel formare sentimenti nazionalistici nelle persone[6]. Fu lo stesso Liang Qichao a suggerire di abbandonare il nome Tiānxià, usato per riferirsi alla Cina, preferendo il termine Zhōngguó (中国), ovvero Impero del Centro, a sottolineare la progressiva auto-costituzione in riferimento a nuovi confini di carattere sia geografico che culturale[7]. Il nome Zhōngguó appare in un documento ufficiale di carattere internazionale, per la prima volta in assoluto, solo nel 1689 con il trattato di Nerčinsk che aveva in oggetto i confini territoriali tra Russia e Cina[8]. Fu significativo perché la Cina, rapportandosi con un sistema politico e internazionale europeo, ebbe la necessità e l’esigenza di definire meglio il proprio paese tracciando e delineando fissamente le proprie frontiere, passando perciò da confini sfumati e porosi legati al concetto culturale e politico di Tiānxià a confini precisi e moderni che il concetto europeo di stato-nazione aveva stabilito.

A causa, in seguito, degli stretti legami tra le prospettive storiografiche proprie della Cina (ciclicità del tempo), e quelle invece tipicamente europee (dialettica marxista), e i relativi approcci verso lo studio del passato e la costruzione di nuove visioni di futuro, la storia nazionale e la storia mondiale cominciarono a essere assorbite all’interno del contesto cinese. Successivamente, con l’introduzione dei libri di Marx ed Engels, fece breccia anche l’ideologia marxista, divenendo nel corso del Novecento il principale riferimento culturale attraverso cui rileggere l’intera storia millenaria dell’Impero Celeste. Fu infatti proprio il marxismo a rafforzare ulteriormente il ruolo delle visioni internazionali e delle prospettive storiche mondiali nello scenario intellettuale e politico della Cina, proiettando il Paese verso un futuro nel quale esso avrebbe dovuto giocare un ruolo di primaria importanza a livello globale nella guida e diffusione dei valori del comunismo.

Con la salita al potere di Deng Xiaoping nel 1978, alcune aree della Cina videro una profonda espansione economica che permise lo sviluppo di alcuni istituti d’eccellenza, poi diventati importanti centri accademici, come l’Istituto di Storia mondiale dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, che si trasformò in un forum autorevole per l’introduzione e il dibattito di una vasta gamma di nuove teorie storiche provenienti da paesi stranieri, per lo più occidentali. L’afflusso di nuove teorie accademiche va ricollegato al processo di graduale apertura del Paese guidato dal Governo, che trovò il sostegno anche di molti storici. A causa però delle preoccupazioni circa l’imperialismo culturale americano e le ingiustizie di un sistema internazionale dominato dall’Occidente, Deng Xiaoping promosse la nascita di un modello cinese di stato ma anche di storia[9]. A partire dagli anni Novanta del Novecento, molti studiosi cinesi sottolinearono infatti il carattere provinciale della visione storico-culturale dell’Occidente, evidenziandone le profonde contraddizioni rispetto a qualunque pretesa di universalità.

Guardando all’oggi, è poi interessante notare come le ricerche degli storici cinesi si siano mosse dall’impegno verso la costruzione di una prospettiva equilibrata che sapesse tenere insieme un approccio storico occidentale, rivalutato alla luce delle recenti aperture del Paese, con la propria prospettiva che mira ad una ripresa dei caratteri sinologici tradizionali.  Più recentemente, molti studiosi cinesi sostengono che la Cina debba sviluppare ulteriormente uno sguardo personale alla storia mondiale basandosi sui suoi crescenti legami con il mondo. Ciò non significa non raccontare la storia nazionale, ma che essa debba venire inserita in un contesto caratterizzato da una visione e un’aspirazione globale. Tuttavia, la costruzione di una declinazione tipicamente cinese della world history, quale possibile alternativa alla storia tradizionale e a quella di stampo europeo, dipenderà molto dai futuri sviluppi politici del Paese.

 

L’approccio della storia globale in un contesto eurasiatico

Passando poi da un discorso di carattere strettamente storiografico, al considerare il piano di carattere più storico-sociale, Samarani propone tre contributi che permettono al lettore di concentrare l’attenzione su quelli che sono i risvolti maggiormente pratico-epistemologici della world history rispetto alle possibili modalità di lettura degli sviluppi del contesto mondiale.

Dai lavori di William H. McNeill, Roy Bin Wong e Jonathan W. Daly, tra i principali storici americani in questo settore, emerge un ritratto dell’Asia e più specificatamente della Cina non più come luogo lontano, distante e isolato, ma al contrario quale vero e proprio riferimento imprescindibile per la comprensione delle vicende europee, seppur ancora troppo poco preso in considerazione. Ad esempio, attraverso un’analisi storico-culturale sugli scambi e sulle interconnessioni avvenute tra Occidente e Oriente in epoche diverse, McNeill concentra l’attenzione sull’ascesa dell’Europa e il simultaneo crollo delle civiltà asiatiche nel XIX-XX secolo. Rispetto a ciò, grande rilevanza acquista lo sviluppo del sistema tecnologico dei trasporti e di comunicazione che permise alle due realtà euroasiatiche di ampliare i processi di interazione culturale. Alla luce di questi scambi transcontinentali, R. Bin Wong analizza come la Cina e l’Europa si siano sempre confrontate, direttamente e indirettamente, coniugando elementi culturali condivisi con elementi specifici, fino a generare percorsi di reciproca influenza. Il fulcro di questi scambi, come sottolinea Jonathan Daly, avvenne sulla base della cultura delle idee e delle tecnologie afro-asiatiche, che furono all’origine di importanti invenzioni e scoperte europee: la polvere da sparo, la bussola, i primi macchinari per la stampa o la stessa carta. L’Occidente, perciò, non fu il solo a possedere creatività e spirito di innovazione, il che ha portato in epoca recente a rivedere profondamente l’eccezionalismo europeo e a dover riconoscere nel continente asiatico il luogo d’origine di saperi dimostratesi fondamentali per il suo sviluppo[10].

A questo proposito, una domanda sorge spontanea: perché se la Cina era così sviluppata tecnologicamente ed economicamente non si verificò mai la sua ascesa a livello mondiale? Se il primo a riflettere su tale questione fu lo storico e biochimico Joseph Needham, una prospettiva interessante può essere ritrovato nel saggio Perché non la Cina? di Jonathan Daly, il quale osserva come l’insuccesso della Cina nel raggiungimento di una forma di “modernità occidentale” possa venire ricondotto ad almeno cinque aspetti principali[11]:

  • La centralizzazione politica e l’opprimente egemonia culturale della classe dei mandarini;
  • Una stagnazione economica iniziata nel XIV secolo;
  • Un sistema agricolo efficiente grazie al quale si mantennero bassi i salari e di conseguenza non si stimolò la ricerca di sistemi tecnologicamente più efficienti;
  • Il disprezzo delle élite nei confronti del commercio e delle scoperte scientifiche e una riluttanza ad assimilare o adattare idee e tecnologie provenienti dall’estero;
  • La cruciale mancanza di istituzioni indipendenti.

Infine, è interessante notare come Jonathan Daly concluda osservando che le spiegazioni individuate per rispondere al “problema di Needham”, se considerate nel loro significato opposto, diventino valide motivazioni per dare conto dello sviluppo del sistema economico e politico che si è verificato soprattutto in Europa nel corso dei secoli tra la fine del Medioevo e l’età moderna.

In definitiva, la monografia curata da Samarani è un ottimo libro per comprendere meglio, attraverso varie angolazioni, in che modo e lungo quali binari è venuta evolvendo la storia e la storiografia dell’Impero del Centro.  Proprio come scrisse il sinologo Maurizio Scarpari: l’universo cinese «è semplicemente diverso, e come tale va affrontato, studiato, capito. […] Migliorare la nostra conoscenza della Cina significa migliorare la conoscenza di noi stessi e della realtà in cui vivremo nel prossimo futuro»[12]. Il periodo in cui stiamo vivendo, infatti, è un momento di grande cambiamento, l’Europa ha perso da tempo il proprio primato e ha dovuto riconoscere l’emergere di altre potenze e centri di interesse. L’impegno verso la conoscenza del mondo cinese non può più venire ridotta ad un interessamento personale per l’esotico, ma è ormai diventata una vera e propria necessità tanto sul piano politico, quanto su quello culturale. La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze contribuisce e aiuta dunque il lettore a entrare in una realtà che per molto tempo è rimasta sconosciuta agli occhi dell’Occidente, la cui messa in ombra non trova più giustificazioni.


[1] E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, vol. 3, Guida, Napoli 1993, pp.8-23.

[2] Recensione a: Cos’è la world history? “Storia globale” di Sebastian Conrad, Pandora Rivista.

[3] A. Iriye, Global and Transnational History: The Past, Present, and Future, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2013, p.1

[4] agi.it/wang_hui_e_la_modernita_anti-moderna_cinese

[5] Tiānxià è un termine che risale alla dinastia dei Zhou (1046-256 a.C.), quando la Cina non era ancora mai stata unificata. Nell’XI secolo a.C. i Zhou sconfissero la dinastia Shang, e assunsero il potere nella pianura centrale cinese. I Zhou, per autolegittimarsi e per mantenere il controllo davanti alle molteplici città-stato appena conquistate, dovettero pensare un sistema cooperativo e accettato da tutti per garantire la propria esistenza e il proprio potere. Il problema principale erano le enormi differenze che avevano i vari regni e territori sotto il loro controllo. Tiānxià è un concetto che pone tutte le popolazioni sotto un unico imperatore (天子, Tiānzǐ, Figlio del Cielo) che comanda non su uno spazio territorialmente inteso, ma su una popolazione culturalmente omogenea. I confini sono fluidi e relazionali: chiunque raggiunga le norme culturali può essere considerato parte del Tiānxià. In altre parole, i Zhou hanno dovuto istituire un sistema “mondiale” che fosse al di sopra di tutti gli stati e regni: ciò che unirà il suo governo non è la volontà di espandersi verso l’esterno, ma di rendere tutte le parti membri di un “interno”. Cfr. Y. Zhang, The Origin of the Concept “Tianxia” in the Political Ideological Configuration of Traditional China, “Sinologia Hispanica. China Studies Review”, vol. 6, n.1, (2018), pp.89-114, p.102.

[6] G. Samarini (a cura di), La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze, Guerini e Associati, Milano 2019, p.367.

[7] H. Harrison, China, Hodder Education, Londra 2001, p.103.

[8] Z. Gang, Reinventing China: Imperial Qing Ideology and the Rise of Modern Chinese National Identity in the Early Twentieth Century, in Modern China, vol. 32, n. 1, versione online, 2006, pp. 3-33, p.10.

[9] G. Samarani (a cura di), La Cina nella Storia globale, pp.380-381.

[10] Ivi, p.17.

[11] Ivi, p.356.

[12] M. Scarpari, Ritorno a Confucio: la Cina di oggi fra tradizione e mercato, il Mulino, Bologna 2015, p.7.

Scritto da
Davide Regazzoni

Nato nel 1996, attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze storiche e orientalistiche all’Università di Bologna. I suoi interessi principali riguardano i rapporti politici, religiosi e culturali tra Chiesa Cattolica e Cina sia in epoca medioevale che contemporanea.

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