La Cina nuova. Intervista a Simone Pieranni
- 20 Febbraio 2022

La Cina nuova. Intervista a Simone Pieranni

Scritto da Giacomo Bottos

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Gli ultimi quarant’anni hanno vista la Cina mutare con una profondità e radicalità di cui è difficile trovare paragoni nella storia. Un processo che ha dato vita alla “Cina nuova” descritta da Simone Pieranni nel suo ultimo libro e che è al centro di questa intervista che affronta le trasformazioni e le contraddizioni della Cina di oggi, un gigante con un’identità fatta di contrasti, in cui si alternano vorticosamente passato e presente. Simone Pieranni è giornalista e fondatore dell’agenzia di stampa «China Files» e autore, con Giada Messetti, del podcast sulla Cina contemporanea Risciò. Ha a lungo scritto per «il manifesto» e «L’Espresso» e oggi lavora a Chora Media. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: La Cina nuova (Laterza 2021), Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza 2020), Cina Globale (Manifestolibri 2017); Il nuovo sogno cinese (Manifestolibri 2013).


La struttura stessa del libro La Cina nuova suggerisce una chiave di lettura della Cina attuale. Il libro è infatti articolato in una serie di capitoli dedicati a coppie di termini in opposizione – a partire da “memoria” e “futuro” – che suggeriscono l’idea della Cina come Paese di contrasti che coesistono o confliggono. Qual è la natura di questa coesistenza?

Simone Pieranni: Con lo scoppio della pandemia si è discusso moltissimo di Cina, inizialmente intravedendovi anche una sorta di modello per il contenimento del virus. Una passione momentanea che per chi si occupa di Cina era piuttosto sospetta e da parte dei China watcher – giornalisti e sinologi – si tendeva a sottolineare come il metodo impiegato fosse profondamente cinese e dunque difficile da attuare in altri contesti. Inoltre, si esaltava il modello cinese partendo da presupposti sbagliati. Agli interventi coercitivi del Partito Comunista Cinese (PCC) in questo caso si affiancava infatti un’assunzione di responsabilità collettiva da parte della popolazione, che riconosceva il valore dei messaggi del governo. D’altro canto, da parte occidentale e in particolare americana, la Cina è spesso dipinta come il nemico, o come un minaccioso e inaffidabile competitor con mire espansionistiche. Una visione in bianco e nero che a mio avviso non è corretta, specie per questioni così complesse, e mi ha lasciato con una sensazione di straniamento, un po’ come quando – dal 2006 al 2014 – sono andato in Cina per la prima volta. Ho quindi deciso di partire da quegli elementi che dal nostro punto di vista sembrano non poter essere che in contrapposizione, e che invece in Cina trovano, a seconda, una propria armonizzazione, una conflittualità o in alcuni casi si succedono e affiancano nel tempo. Quindi elementi che dal nostro punto di vista sembrano in alcuni casi ossimorici, come socialismo e mercato, e che invece in Cina appunto si risolvono a mio avviso all’interno – e questo è uno dei messaggi principali del libro – di una dialettica tra autorità e popolazione che a volte fatichiamo a vedere in Cina perché è difficile da riscontrare, per farlo bisogna parlare coi cinesi stessi, ascoltare. È quella che Kaiser Kuo – autore di Sinica, uno dei più interessanti podcast sulla Cina – ha chiamato «empatia informata», cioè non possiamo solo interpretare o proiettare sulla Cina le nostre supposizioni o i nostri metodi ma dobbiamo anche metterci in ascolto perché la società cinese è molto più dinamica di quello che pensiamo. Attraverso queste “diarchie”, ho provato ad analizzare che cosa accade nella Cina nuova.

 

Iniziando a sviscerare una di queste dicotomie, e anche ricollegandoci a Red Mirror, il suo precedente libro, viene in primo piano il tema del rapporto tra eredità storica e futuro, nel quale stanno in equilibro il rapporto con il passato, la costruzione di una tradizione, con un elemento di estrema modernità e accelerazione, propri di un Paese che riesce a competere sulle frontiere della tecnologia. Come si declina questa relazione?

Simone Pieranni: Sulla questione tecnologica il governo cinese ha insistito moltissimo, in quanto elemento di modernizzazione del Paese, e da questo punto di vista abbiamo quindi un’accettazione e un’assunzione della tecnologia da parte della popolazione che viene vissuta anche come un importante segno d’orgoglio. La memoria dei cinesi è piuttosto lunga e vi è una consapevolezza profonda della storia, che viene manovrata, e in alcuni casi anche modificata, dal PCC in funzione propagandistica. Il Partito tiene moltissimo a sottolineare il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”, quando la Cina fino alla nascita della Repubblica Popolare nel 1949 ha vissuto un periodo di occupazioni straniere, poi l’invasione giapponese e la guerra tra nazionalisti e comunisti, all’interno dello spettro più ampio della Seconda guerra mondiale. Ma tornando ancora più indietro si ricorda il mancato appuntamento della Cina con la tecnologia, con la rivoluzione tecnologica avvenuta durante l’epoca della rivoluzione industriale, ha portato la Cina a diventare “il grande malato d’Asia”, a decadere lentamente come impero. Quindi da un lato la tecnologia viene proprio utilizzata dal governo per ribaltare questo ruolo, da malata d’Asia oggi la Cina è diventata una grande potenza tecnologica, oltre che economica, e questo migliora la vita delle persone e le rende più sicure. In generale la Cina, sin dalla sua epoca imperiale, ha utilizzato la storia e la memoria per modificare il presente, e quindi anche il futuro. Le nuove dinastie riscrivevano la storia di quelle precedenti; di recente il PCC ha pubblicato durante il Sesto Plenum del 19° comitato centrale una risoluzione sulla storia del Partito – fino a quel momento ne erano state approvate solo due, una nel 1945 e una nel 1981 –, con la quale rilegge tutta la propria storia, perlopiù amplificandone i punti positivi, ma confermando per esempio la critica alla rivoluzione culturale, evento che è considerato ormai come da non ripetere. Ma anche in questo caso la sottolineatura della rivoluzione culturale come elemento negativo serve per ribadire che nel presente e nel futuro non dovrà più esserci il caos, e quindi bisognerà essere sempre conformi all’ordine, perché è con l’ordine che, nel piano filosofico cinese, nasce la virtù. Quindi siamo di fronte ad una storia mobile, di fatto, che il PCC usa a proprio vantaggio facendo leva però su caratteristiche che, dal punto di vista occidentale, potremmo definire nazionalistiche, cioè attraverso il costante richiamo al passato rinfocola quelle tendenze di orgoglio nazionale e di nazionalismo che poi servono anche affinché la Cina possa proiettarsi sullo scenario internazionale sapendo di avere il supporto della popolazione.

 

Il socialismo con caratteristiche cinesi è quel particolare sistema in cui esistono elementi di mercato e una guida dei processi esercitata dal Partito che non viene mai messa realmente in discussione. Quali sono le caratteristiche di questo modello?

Simone Pieranni: Questo è un tema su cui rifletto quasi quotidianamente. Cerco sempre di rifuggire il tentativo di decidere se la Cina sia più socialista o più capitalista, e del resto fu lo stesso Deng Xiaoping nel momento in cui avviò le riforme a dire ai funzionari di non cadere in questo tranello, che l’ideologia non doveva essere presa in considerazione e che l’obiettivo era solo fare affari, e non portare avanti scontri ideologici. Un monito che risuona oggi nel momento in cui invece Xi Jinping sembra un po’ cadere in questa trappola. Come dicevo, sto riflettendo molto su questo punto, anche a partire dalla recente ripubblicazione da parte delle Edizioni Mimesis del libro di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino. Giovanni Arrighi è l’autore di due libri molto importanti – Il lungo XX secolo e appunto Adam Smith a Pechino –, nei quali ha identificato un processo che oggi noi stiamo vedendo e che purtroppo, essendo prematuramente scomparso, Arrighi non ha potuto verificare in prima persona. Sostanzialmente, e in estrema sintesi, Arrighi afferma che la Cina non è ancora completamente capitalista, ma non è più completamente socialista. Inoltre, se esaminiamo la storia millenaria cinese – che copre un arco di oltre 5.000 anni – possiamo vedere come il periodo maoista, durato dal 1949 al 1976, rappresenti una fase molto breve. Possiamo quindi dire, nella maniera più divulgativa possibile, che il PCC concepisce la storia come una “cassetta degli attrezzi”: a seconda del momento storico che vive la Cina attinge da questa cassetta gli strumenti più utili. Quindi, dopo la rivoluzione culturale e la morte di Mao, la povertà, le limitate risorse, lo scarso sviluppo tecnologico, la necessità di modernizzare il Paese rendevano necessario un cambiamento. Deng Xiaoping ha avuto l’intuizione, e anche le condizioni internazionali – dovute alla volontà degli Stati Uniti di sganciare la Cina dall’Unione Sovietica a cui segue all’inizio degli anni Settanta il riallacciamento delle relazioni diplomatiche che poi si concretizzano con i viaggi di Deng negli Stati Uniti e di Nixon e poi Bush Sr. in Cina –, di aprire la Cina al mercato globale e di farla entrare di fatto all’interno dei gangli economici di quella che è la globalizzazione. Una presenza che Deng continuava a sostenere dover esser molto morbida, quasi nascondendo le proprie capacità, perché prima occorreva potenziarsi all’interno. L’idea era quella, intanto, di svilupparsi utilizzando ad esempio joint venture, che poi sono diventate utili fra l’altro per raccogliere know-how in giro per il mondo, e anche così dare vita alla nuova superpotenza tecnologica cinese. Allo stesso tempo però questo meccanismo, che è stato trainato negli anni Settanta e Ottanta – come nel resto del capitalismo mondiale – perlopiù da aziende private, è sempre stato sotto il controllo del PCC. Quest’ultimo è, soprattutto oggi, sempre più un Partito-Stato; tuttavia, con Deng Xiaoping e poi con Jiang Zemin negli anni Novanta il PCC ha conosciuto fasi propense alla liberalizzazione e quindi ad utilizzare la nuova classe imprenditoriale – inserita allora all’interno del PCC sulla base della teoria delle Tre Rappresentanze –, cominciando, partendo da una maggioranza di contadini e operai, a diluirsi all’interno di nuove forze produttive come appunto la classe imprenditoriale. Al contrario, oggi Xi Jinping costituisce una svolta nel senso di un ritorno al passato, ma non a quello maoista – che resta una realtà non paragonabile –, bensì a una presenza del PCC che torna ad essere molto prepotente dal punto di vista economico, anche nel controllo delle aziende private. Possiamo quindi tornare a parlare di una Cina di fatto a trazione statale, e lo dimostra anche la campagna contro le piattaforme e contro le aziende private che hanno fatto grande la Cina da un punto di vista tecnologico e di alcuni importanti settori, ad esempio i Big Data, ma che hanno superato una serie di limiti. Il PCC non vuole annullarne l’impatto e la forza, ma riportarle all’interno del piano del Partito: è possibile svilupparsi, crescere, diventare miliardari, ma si deve fare l’interesse del PCC, che è quello di sviluppare la tecnologia in funzione della crescita cinese e, sottinteso, del controllo della popolazione da parte del Partito.

 

C’è un altro tema che si lega alla questione del rapporto della Cina con la sua tradizione: quello degli esami, già fondamentali per selezionare la burocrazia imperiale, che rappresentano un’istituzione nella storia cinese. Come viene declinato oggi questo elemento, anche in relazione al tema della meritocrazia cinese su cui c’è stato un importante dibattito penso ad esempio al libro del sociologo canadese Daniel A. Bell Il modello Cina?

Simone Pieranni: Bell ha posto a livello internazionale un dibattito al quale il PCC era particolarmente interessato: il PCC afferma infatti che la Cina ha un modello meritocratico, mentre quello dell’occidente è democratico, ma non meritocratico. Ovvero i cinesi sono convinti che nel loro Paese non potrebbe mai arrivare un Trump, o comunque una persona che non ha esperienza di gestione amministrativa. Conosciamo bene il funzionamento del meccanismo elettorale nei Paesi occidentali – il peso dei media e della comunicazione e soprattutto l’immagine di un uomo o di una donna –, ma questo è molto diverso da quello cinese. Al tempo stesso, quello della meritocrazia resta un mito che si può facilmente sfatare. È vero che la Cina possiede dei sistemi meritocratici più profondi rispetto ai nostri, nel senso che è vero che i funzionari cinesi raggiungono posizioni apicali solo nel momento in cui dimostrano la capacità di gestire determinate situazioni, e la loro “gavetta” segue percorsi complicati e impegnativi. Hu Jintao, per esempio, prima di diventare il quarto Segretario generale del Partito Comunista, venne mandato in Tibet, dove tra l’altro impose nel 1989 la legge marziale: un esempio della necessità di dimostrare la propria capacità di gestire certe situazioni complicate. Xi Jinping stesso fu inviato prima nella regione più corrotta della Cina – un fatto che risuona quasi come un presagio, considerando la sua futura campagna anticorruzione –, in seguito in una delle regioni più povere, e infine nello Zhejiang, una regione nel sud-est del Paese che rappresenta uno dei polmoni economici più rilevanti. Insomma, ha dovuto fronteggiare diverse situazioni, maturando un bagaglio di esperienza molto importante e accumulando anche un patrimonio di guanxi, le relazioni, ossia quei network relazionali che poi ha portato con sé nel momento in cui è diventato Segretario generale del Partito, sconvolgendo anche gli equilibri interni al PCC. La lettura che avevamo delle fazioni interne del Partito oggi è completamente saltata, perché Xi ha una sua fazione, molto trasversale, mentre un po’ tutti gli scontenti si sono riuniti intorno al vecchio Jiang Zemin. Non possiamo però dimenticare che Xi è un “principe”, è infatti il figlio di Xi Zhongxun, importantissimo funzionario del PCC del periodo maoista che cadde in disgrazia durante la rivoluzione culturale, ma che poi seppe ritrovare una posizione da grande riformista all’interno della politica di apertura e di riforme di Deng Xiaoping. Se Xi non avesse avuto questa origine familiare e non avesse avuto quel legame con un alto papavero dell’esercito che gli permise di ottenere il primo impiego politico, nel ruolo di suo segretario, e da lì inanellare una lunga serie di relazioni, sarebbe diventato Segretario generale del PCC? Insomma c’è una meritocrazia, che parte però dalle posizioni avvantaggiate. Nello stesso tempo la Cina sottolinea la questione della meritocrazia non solo a livello politico, ma generale, sulla base degli esami – prima gli esami imperiali e oggi il gaokao, paragonabile al nostro esame di maturità e che rappresenta anche il test per l’ammissione all’università. Una vera e propria sliding door per i cinesi: se l’esame va bene, un giovane potrà accedere alle migliori università e presumibilmente avere un’ottima carriera. Altrimenti dovrà affrontare una vita ben meno agiata. È vero che gli esami imperiali furono utilizzati anche da amministrazioni europee – gli esami francesi richiamavano proprio il modello cinese –, ma occorre ricordare ad esempio che le donne non erano ammesse e così neppure larghe fasce della popolazione che non rientravano nel novero dei letterati o che non avevano a disposizione determinati strumenti culturali. Oggi il gaokao è paritario, nel senso che chiunque vi può accedere, però è anche vero che per superare un esame così duro – e che è sempre più duro – i figli di famiglie benestanti sono favoriti, perché possono contare su più ripetizioni, possono frequentare scuole private e accedere a una serie di agi e facilitazioni nello studio. Quindi possiamo dire che il concetto di meritocrazia è probabilmente maggiormente applicato nella selezione dei dirigenti politici cinesi, ma ha un’aura mitologica che poi non è corroborata dai fatti.

 

Riflettendo sul compito di governare la Cina bisogna sempre tenere conto dell’enorme complessità della realtà, anche geografica, di questo Paese, in cui da un lato vi è un’eterogeneità di spazi e di regioni periferiche con noti problemi e difficoltà, e dall’altro vi è una divisione tra città e campagne che è fondamentale. Quali dimensioni assume questo problema?

Simone Pieranni: Il contrasto tra città e campagne è uno di quelli più immediati, ma in realtà sempre sulla base dei nostri presupposti: presupponiamo perché abbiamo questo ricordo di una Cina rurale. La Cina è sempre stata un Paese principalmente rurale, con i contadini che sono stati un vero e proprio motore della sua storia. Un altro aspetto che spesso dimentichiamo è che quella cinese è una storia molto violenta in realtà, proprio perché è legittima la cosiddetta “revoca del mandato” nel momento in cui il Figlio del Cielo, l’imperatore, non adempie ai propri compiti – vale a dire fondamentalmente assicurare il benessere alla popolazione – è legittimo, attraverso ribellioni e rivoluzioni che comportano per la storia cinese dei momenti di grande violenza, revocarne il mandato. Questo istinto ribellistico infrange un altro dei pregiudizi che abbiamo nei confronti della Cina, cioè che i cinesi siano una popolazione “remissiva”. Tutto ciò si riverbera anche nella contemporaneità: quelli che il governo cinese chiama gli “incidenti di massa” sono migliaia ogni anno e dimostrano la forte propensione alla protesta che esiste in Cina; in alcuni casi è addirittura consentita dal governo, penso alle mobilitazioni ecologiste e ambientaliste. In realtà dal 2011, quindi da oltre un decennio, la Cina è un Paese a maggioranza urbana. Si tratta di un processo di urbanizzazione, di inurbazione se vogliamo, che va avanti da molto tempo e che vede la creazione di città di terza e quarta fascia, nelle quali si formano anche tutta una serie di aziende, oltre che di uomini politici, che poi raggiungono un rilievo internazionale. Parlando di piattaforme, Pinduoduo – una sorta di Groupon cinese – è partita dalle città di terza e quarta fascia e oggi ha superato gli utenti di Alibaba. Si tratta quindi di una potenza incredibile – che si appoggia a WeChat, che a sua volta ha contribuito alla capitalizzazione di Pinduoduo – partita dalla periferia, da città di terza e quarta fascia che, presumibilmente, fino a poco tempo fa erano campagna. C’è ancora uno stacco tra le metropoli ultrafuturistiche cinesi – Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen – e alcune zone rurali che invece sono rimaste più indietro. Tuttavia, le contraddizioni in Cina si rincorrono – e si potrebbe parlare di meta-contraddizioni – perché in realtà negli ultimi tempi si sta osservando un fenomeno di ritorno alle campagne da parte di molti, soprattutto giovani, che non sopportano più i ritmi cittadini. Questo sta ad indicare due elementi. Da un lato che c’è una generazione di figli unici che è cresciuta nel benessere e che all’improvviso scopre che da quel benessere rischia di essere esclusa, o comunque di farne meno parte rispetto ai propri genitori, perché fatica trovare un lavoro ben retribuito. Immaginiamo un ragazzo o una ragazza che cresce in una famiglia benestante, sostiene il gaokao superando un esame molto duro e affrontando le pressioni familiari – particolarmente forti per i figli unici, anche in ragione del concetto confuciano della pietà filiale –, e si ritrova a lavorare in linea nell’assemblaggio degli smartphone o a taggare foto per i sistemi di intelligenza artificiale. Allora tornano nelle campagne, di cui magari erano originari, anche perché nelle città non hanno accesso al welfare – per il sistema del hukou, il passaporto interno – mentre nelle campagne sì, e hanno la possibilità di un’educazione gratuita per i figli e di una sanità più accessibile rispetto alla città. Nelle campagne portano al tempo stesso il proprio vissuto cittadino, per esempio per quanto riguarda la tecnologia; così abbiamo un continuo processo latente di modernizzazione delle campagne. Alibaba, ad esempio, contribuì moltissimo all’inizio a sviluppare l’e-commerce nelle campagne; una dinamica considerata positivamente dal governo, che infatti non ha ostacolato l’azione di queste grandi aziende tecnologiche che hanno contribuito alla digitalizzazione della società. A questo proposito, si possono di nuovo evidenziare delle contraddizioni. La città entra in campagna attraverso i giovani delusi da quella che era la loro vita cittadina, ma che portano tutta una serie di novità e la consapevolezza di uno stile di vita che deve cambiare – sono infatti anche persone che in qualche modo rifiutano il modello di sviluppo cinese, riconoscendone i limiti soprattutto da un punto di vista ambientale e dei diritti, ad esempio nel lavoro o nell’accesso al welfare. Di questi aspetti non si discute mai sui media, perché tendiamo a parlare solo di Xi e del PCC, invece dobbiamo farlo, come giornalisti abbiamo la necessità di affrontarli; ma quanto la Cina comunica all’esterno non è mai slacciato da quello che succede all’interno del Paese, dunque se non si conoscono queste dinamiche è come se mancassero dei vocaboli per comprendere ciò che la Cina ci dice.

 

Il nodo del lavoro, è fondamentale. In occidente si aveva in passato l’immagine della Cina come “fabbrica del mondo”. Com’è cambiata oggi la realtà del lavoro in Cina rispetto a questa immagine? Quali sono le prospettive da questo punto di vista, anche in relazione al tema dello sviluppo tecnologico e dell’automazione?

Simone Pieranni: David Harvey sostiene che la Cina sia più capital intensive che non labour intensive. Questo mi riporta ad un certo fraintendimento che c’è stato dopo l’uscita di Red Mirror: il mio messaggio non era che si fosse giunti alla fine della “fabbrica del mondo”, ma fosse in corso una sua trasformazione. Per questo non sono completamente d’accordo con Harvey, perché la fabbrica del mondo ha segnato una fase dello sviluppo cinese, quella della produzione a basso costo, senza alcuna attenzione per le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori e anche senza alcuna considerazione delle questioni ecologiche, che oggi sono diventate dirompenti sullo scenario globale. Nello stesso tempo il sistema di produzione cinese della fabbrica del mondo, che consisteva nell’assemblare il design che arrivava dall’occidente, ci aveva convinti che il processo di innovazione tecnologica fosse qualcosa di connaturato solo ai sistemi democratici, perché i valori democratici – il rapporto tra libertà di parola e creatività ad esempio – contribuiscono a questa innovazione e la Cina esemplificava la fatica degli Stati autoritari su questo punto: era famosa per le copie, la censura, un sistema educativo molto mnemonico e poco “creativo”. In realtà, il processo di innovazione introdotto dal PCC ha smentito questa convinzione occidentale, collocando la Cina come una grande potenza tecnologica. Ma questo inserirsi della Cina all’interno della filiera, nella posizione in cui aumentare i propri profitti – un conto è esportare accendini, un altro videocamere a riconoscimento facciale – non ha però escluso tutta la produzione manifatturiera. Lo conferma la “nuova via della seta”, che nasce come progetto complesso, ma che riguarda anche il surplus manifatturiero che deve trovare nuovi mercati. Abbiamo avuto una conferma della piena attività della fabbrica del mondo anche più recentemente, con la crisi energetica: l’occidente ha attraversato la crisi pandemica chiedendo alla Cina sempre più prodotti e questo ha provocato un aumento delle richieste di energia da parte della Cina, ponendola anche in difficoltà per quanto riguarda gli obiettivi climatici. In sintesi, questo è il quadro: abbiamo una fabbrica del mondo che continua ad esistere e operare, ma abbiamo anche una produzione ad alta intensità tecnologica che pone la Cina in una posizione più vantaggiosa nella filiera. Questo comporta ovviamente tutta una serie di problemi relativi al mondo del lavoro. Un primo elemento riguarda gli aumenti dei salari minimi avvenuti negli ultimi anni e che avevano portato già molte aziende straniere, e anche cinesi, a delocalizzare fuori dalla Cina. Dobbiamo tenere sempre presente che la Cina è prima di tutto una potenza asiatica, Cambogia, Vietnam e Laos sono tutti Paesi nei quali la presenza cinese è fortissima. Poi sono arrivate le sanzioni americane, che hanno posto la necessità per le aziende – straniere e cinesi – di spostare la produzione in altri Paesi in modo da aggirarle. La Cina ha affrontato, e in parte risolto, questo problema ricorrendo all’automazione: ha puntato moltissimo sulla robotica industriale, tanto che oggi esistono fabbriche gestite completamente da robot e uffici gestiti da algoritmi. L’automazione risponde non solo all’aumento del costo del lavoro, ma anche alla mancanza di manodopera, la Cina infatti è un Paese che nel prossimo futuro dovrà affrontare una forte crisi demografica e di invecchiamento. Il problema dell’automazione riguarda però al momento l’assenza di un piano di riconversione per i lavoratori che saranno espulsi dai processi produttivi. Per quanto riguarda il settore tecnologico, è di recente emerso il problema dei ritmi di lavoro, che sono gli stessi della fabbrica del mondo, soltanto trasposti nel comparto tecnologico. Si tratta del cosiddetto “sistema del 996”: lavoro dalle 9 di mattina alle 9 di sera, per 6 giorni alla settimana. Su questo aspetto negli ultimi tempi sono state avanzate numerose proposte, che hanno portato la Corte Suprema cinese a definire illegale il 996; una decisione che non è vincolante, ma molte aziende – anche su pressione del PCC – hanno deciso di abolire alcune forme di straordinari. Ma questo crea altri problemi perché i lavoratori, pur apprezzando le riduzioni degli orari di lavoro, senza straordinari non possono più permettersi, ad esempio, di acquistare una casa o crearsi una famiglia. Questa dinamica pone al centro la questione del reddito, che potrebbe essere foriera di riflessioni interessanti, perché non si parla solo di salari ma di aumentare il reddito in modo indiretto, attraverso il welfare o una sorta di reddito universale, per consentire alle persone di rimanere all’interno del processo produttivo, ma a condizioni migliori rispetto a quelle attuali.

 

Rispetto alle dinamiche che sono state evidenziate, qual è lo stato del patto sociale che ha retto lo sviluppo della Cina negli ultimi decenni, fondato sull’aumento del benessere per una parte importante della popolazione in cambio di una moderazione di altri tipi di rivendicazioni? Si tratta di un equilibrio solido, che può reggere anche in futuro o vede dei rischi per il PCC?

Simone Pieranni: Come ha ricordato in un articolo su Foreign Affairs Jude Blanchette – uno dei più attenti e interessanti osservatori della Cina contemporanea, che prende un po’ in giro la letteratura che prevede da circa trent’anni il crollo della Cina – la bolla immobiliare non ha costituito un momento paragonabile al crollo di Lehman Brothers, la pandemia non ha polarizzato la società quanto è accaduto in occidente. In generale, vi erano molteplici situazioni che secondo molti avrebbero costituito un problema immediato per la Cina; in realtà sembra che questi nodi non arrivino mai al pettine – anche se non è detto che le soluzioni adottate dalla Cina per affrontarli non finisca per creare altre criticità – perché il PCC possiede un ampio margine di gestione man mano che le situazioni si presentano. Pensiamo a cosa significa gestire delle bolle immobiliari o delle problematiche come quelle del Covid in una democrazia: è ben più facile farlo per un partito unico all’interno di un sistema autoritario, nel quale è possibile programmare senza avere scadenze elettorali e senza la necessità di confrontarsi con altre forze o nell’arena mediatica. Nello stesso tempo il tema, posto nella domanda, del rinnovamento del patto generazionale è una questione che prima o poi bisognerà affrontare. La mia percezione è che già con il contenimento del Covid questo patto sociale si sia in parte rinnovato a favore del PCC, benché oggi vi siano molte insofferenze nei confronti della politica “Covid zero”, soprattutto nelle maggiori città e tra la classe media più cosmopolita. Tuttavia, la sanità era uno dei grandi vulnus nel rapporto tra PCC e popolazione, e l’aver limitato il numero dei decessi – al di là di quali poi siano i numeri effettivi dei morti, che non saranno 4.000 ma neanche un numero molto più elevato, che non si potrebbe nascondere nella Cina di oggi – è stato un successo. Uno studio afferma – naturalmente a vantaggio del governo cinese – che senza la politica “Covid zero” ci sarebbero stati 600.000 contagi al giorno. Tuttavia, se è vero che i cinesi sanno che la politica “Covid zero” è necessaria perché i vaccini presumibilmente non funzionano contro le varianti – e anche su questo piano si sta cercando di agire –, questo potrebbe però non bastare, e la partita si giocherà sul nuovo mantra, gongtong fuyu, o “prosperità comune”. Il PCC conserva la capacità di avere – pur in maniera paternalistica – il polso della situazione e di utilizzarla a proprio vantaggio, da un lato risolvendo una serie di problemi e dall’altro regolando anche alcuni conti interni. Il caso delle piattaforme è paradigmatico di queste dinamiche: le proteste contro lo strapotere delle piattaforme nella raccolta e nell’utilizzo dei dati hanno portato ad un intervento del PCC, che ha multato le grandi piattaforme, ha varato una legge sulla privacy e ha riportato le piattaforme all’interno del proprio progetto sul progresso tecnologico cinese. In questo, la mossa che deve riuscire a Xi Jinping – che probabilmente rimarrà per un terzo mandato, e presumibilmente anche nel momento in cui si ritirerà conserverà voce in capitolo su molti aspetti – è la redistribuzione. Xi ha parlato chiaramente di prosperità comune nel senso redistributivo, menzionando tre tipi di redistribuzione: quella statale, quindi si avranno le riforme delle pensioni e del welfare; quella del mercato; infine una redistribuzione terziaria, che è quella che studiando modelli filantropici, ad esempio, americani dovrà portare grandi aziende e grandi patrimoni a redistribuire parte di quel capitale alla popolazione. Fra gli altri, si parla insistentemente negli ultimi tempi di una tassa sui dati. Questo avrebbe ripercussioni molto significative per un attore come Alibaba, cresciuto grazie ai dati degli utenti; secondo quanto affermato da un funzionario del PCC, è il momento di restituire qualcosa ai cinesi. Se riuscisse questa operazione, il patto sociale sarebbe rinnovato. Diversamente potrebbero sorgere dei problemi, perché la crescita sarà inferiore. Il PCC ha già annunciato che la Cina crescerà meno, evidenziando però che crescerà con più qualità, ma deve essere in grado di garantire questa qualità. Il Partito proprio per questo sta spostando sempre più avanti nel tempo il traguardo. Prova così a ritardare anche le aspettative, ma la società cinese nel frattempo cambia e comincia ad avere necessità di risposte più rapide. Credo quindi che ci sarà modo di verificare questa evoluzione in tempi brevi. Sicuramente il patto sociale dovrà essere rinnovato anche perché, come ricordato precedentemente, per una parte della popolazione non è evidente perché, dopo la crescita economica che ha permesso di raggiungere un certo benessere materiale, non sia possibile parlare anche di beni immateriali come la libertà di parola, di espressione, di associazione.

 

Rispetto alla suggestione in merito alla tassa sui dati, pur nelle enormi differenze tra sistemi istituzionali, economici, sociali, è possibile vedere un possibile parallelismo con quello che sta avvenendo negli Stati Uniti e in Europa? Esiste un crescente dibattito sulla necessità di regolare il potere delle big tech e trovare dei meccanismi di redistribuzione delle ingenti risorse da loro raccolte?

Simone Pieranni: C’è un parallelismo nel senso che le big tech sono diventate, in occidente come in Cina, troppo potenti. Facebook, ad esempio, è uno spazio privato, ma che noi concepiamo come pubblico, con tutte le conseguenze del caso, a partire appunto dal fatto che le regole siano stabilite da un privato senza consultare gli utenti. Questo avviene anche in Cina e qui il processo è ancora più peculiare, nel senso che le big tech occidentali si sono tendenzialmente confrontate sul mercato ad armi pari, mentre le big tech cinesi sono state molto favorite dallo Stato: senza la censura e la chiusura dei confini virtuali cinesi alle aziende straniere Alibaba e Tencent sarebbero diventate quello che sono ora? Che cosa sarebbe successo se si fossero dovute confrontare sul proprio mercato interno con Amazon e Facebook? È anche per questo che oggi il PCC ha gioco facile nel far valere la propria posizione in questo rapporto. Anche la Cina, quindi, intercetta delle riflessioni che in occidente sono in corso da tempo, ma la Cina procede più velocemente e in certi momenti sembra quasi esaudire i desideri degli Stati democratici, che non possono procedere d’imperio su questi temi. Ad esempio l’antitrust cinese funziona davvero, al contrario di altre forme di antitrust presenti nel mondo occidentale; nello stesso tempo le sanzioni nei confronti delle aziende sono state molto severe. Si è ricordato l’esempio di Ant Financial, un caso clamoroso, se si pensa che è stata bloccata la quotazione in borsa di Ant e di DiDi, “la Uber cinese”. La Cina ha riscontrato questi problemi e si è mossa, sulla scia dell’occidente, in termini di regolamentazione, da Paese senza alcuna norma, dove la crescita delle big tech non è mai stata contrastata dal governo, e anzi si è garantito un terreno fertile escludendo i competitor stranieri, e inoltre non si sono mai affrontate le condizioni di lavoro delle piattaforme, né il tema della raccolta dei dati. Oggi le cose stanno cambiando: il primo novembre 2021 la Cina ha varato una legge sulla privacy che è molto simile, per quanto riguarda la tutela dei diritti degli utenti, a quella europea; con la differenza che si specifica poco rispetto a come lo Stato possa o meno intervenire. Vi sono poi altre due differenze: il GDPR pone molta enfasi sulla tutela della privacy come diritto fondamentale, mentre questo in Cina è molto più sfumato; vi è poi la questione della localizzazione, poiché con la Cybersecurity Law del 2017 la Cina impone a chiunque raccolga dati all’interno del Paese di mantenerli in Cina, e l’addendum alla legge del 2017, da cui poi deriva quella sulla privacy, è la norma sulla sicurezza dei dati. Quest’ultima costituisce davvero una peculiarità cinese: la Cina è il primo Stato che affronta il tema della sicurezza dei dati in relazione alla sicurezza nazionale. I dati vengono catalogati e ci sono dati considerati più rilevanti di altri; su questi viene esercitato un processo diverso di governance e di controllo. In questa cornice, la Cina attua il proprio concetto di sovranità digitale, equiparando la rete al territorio nazionale. Quello che accade nella virtualità è equiparato a quello che accade sul territorio fisico. Per citare un esempio banale, se domani un Paese straniero avesse bisogno di acquisire un dato raccolto in Cina, dovrebbe attuare un procedimento paragonabile a quello per l’estradizione di una persona. Da un lato abbiamo quindi uno Stato come quello cinese che reclama e fa valere in concreto la propria necessità di controllare lo sviluppo tecnologico e limitare il potere delle piattaforme; dall’altro lato c’è un occidente che prova a fare altrettanto, ma che allo stato attuale fatica ad ottenere risultati. Anche qui, come per la pandemia, dobbiamo però essere attenti a parlare semplicisticamente di “modello”, anche se la tassa sui dati, se realizzata, potrebbe costituirne uno.

 

Un tema di cui si è discusso molto, anche in relazione al dibattito sulla COP26, è quello del contributo della Cina alla transizione ecologica e al contrasto al cambiamento climatico. Su questo punto quali riflessioni si possono fare?

Simone Pieranni: Innanzitutto ci troviamo in una fase mediatica non proprio positiva nei confronti della Cina. In questo senso, la linea dell’amministrazione Biden non si discosta molto da quella della presidenza Trump. È innegabile che la Cina sia il primo Paese a livello globale per emissioni inquinanti, ma è anche innegabile che invece l’inquinamento pro capite sia ancora distribuito tra Stati Uniti, Europa e Cina. Occorre partire dalla constatazione che nessun Paese – nonostante gli importanti impegni assunti – sta procedendo ad affrontare una questione che, secondo la comunità scientifica, è già oggi solo parzialmente reversibile. La Cina vive in questo senso una delle sue maggiori contraddizioni, vale a dire che è il Paese che inquina maggiormente, ma anche il Paese al mondo che investe di più nelle energie rinnovabili e nella green economy. C’è, anche sotto questo profilo, un problema che riguarda la stabilità interna del Paese – la crisi energetica lo ha dimostrato –, cioè nel momento in cui la Cina ha imposto una serie di standard ambientali e di consumo che le regioni dovevano rispettare, per non sforare questi parametri le regioni hanno spento l’interruttore, provocando non solo la chiusura di alcuni stabilimenti industriali e un blocco nella produzione, ma anche innumerevoli blackout nelle città e nelle case. Questa dinamica ha portato all’aumento della produzione di carbone per rispondere alle esigenze dei cittadini, ma anche alla crescente domanda occidentale di beni prodotti in Cina. Volendo essere ottimisti – e non ingenerosi con la Cina – occorre notare anche gli aspetti positivi e di novità, rispetto a molti anni di assoluta noncuranza del problema: la Cina oggi ha un Ministero dell’Ambiente; sono stati stabiliti articolati parametri ambientali; nel recente XIV piano quinquennale la sostenibilità è l’elemento centrale, insieme alla digitalizzazione. C’è quindi l’intento di intervenire per arginare la questione ambientale: nessuno infatti vuole vivere in Paese inquinato, il comune cittadino tanto quanto l’alto funzionario del Partito, e per questo il movimento ambientalista e le campagne ambientaliste sono fra gli elementi più interessanti emersi in Cina negli ultimi quindici anni. Quello ambientalista è il movimento cinese contemporaneo che ha raggiunto le vittorie più significative, tanto che oggi si parla di chiusura o riconversione di importanti impianti industriali. In gioco non c’è solo l’ambiente, ma anche la sicurezza alimentare: oltre a quello atmosferico è infatti sempre da tenere a mente l’inquinamento delle acque e delle terre coltivabili. In realtà l’aspetto, a mio giudizio, più preoccupante è quella che sarà la vera risposta cinese: il nucleare. La Cina sta infatti sviluppando centinaia di impianti nucleari e addirittura ne costruisce anche all’estero. La risposta al problema ecologico potrebbe essere proprio un grande ritorno dell’energia nucleare, con tutto quello che ne può conseguire, perdipiù in un Paese che – seppure le cose siano molto cambiate rispetto al passato – non è famoso per gli elevati standard di sicurezza.

 

Per concludere, dopo aver attraversato tanti aspetti della realtà cinese, quale immagine della Cina emerga dalle sue analisi?

Simone Pieranni: Dovendo tracciare un’immagine, rappresenterei la Cina come un Paese che in questo momento rischia una forte chiusura su se stesso – come già in altri momenti della propria storia –; nonostante Xi Jinping abbia affermato che la Cina è aperta al mondo, il rischio è che ad essere aperti al mondo siano solo i flussi di capitale. La pandemia e le altre crisi rischiano di creare una situazione particolarmente critica. La Cina corre il rischio di accettare il confronto ideologico con l’occidente, se non addirittura di fomentarlo in certi casi, e questo, ricordando il monito di Deng Xiaoping citato in precedenza, ritengo potrebbe essere l’errore più grave. Così come, a mio avviso, sarebbe un errore clamoroso fossilizzarsi in alleanze come quelle con la Russia e l’Iran, che non portano la Cina ad aprirsi, ma a chiudersi sempre di più. La chiusura e lo scontro ideologico rischiano di portare con sé gravi ripercussioni, a cominciare dalla situazione di Taiwan, che potrebbe sfociare in un conflitto militare. Aizzando il nazionalismo e quello scontro di civiltà che in realtà inizialmente ha giustamente rifiutato, la Cina rischia di attraversare un periodo molto complicato, in cui potrebbe anche acuirsi una torsione autoritaria oggi piuttosto evidente. Per chi si occupa di Cina c’è quindi una tripla delusione: innanzitutto, non vedere un modello alternativo di sviluppo, posto che possa esistere; in secondo luogo, non poter tornare a sperimentare quell’apertura che invece ha caratterizzato gli ultimi anni della Cina; infine, assistere ad una popolazione che rischia di pagare il prezzo di ulteriori chiusure e irrigidimenti da parte del PCC. L’unica via che a mio avviso può aprire uno spiraglio è la ripresa del dialogo con l’occidente.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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