“La città dei ricchi e la città dei poveri” di Bernardo Secchi
- 23 Maggio 2017

“La città dei ricchi e la città dei poveri” di Bernardo Secchi

Recensione a: Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 90, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Andrea Baldazzini

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A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, l’urbanistica ha conosciuto un momento di grande espansione, arrivando a costruire attorno a sé un pubblico sempre più ampio composto da specialisti e non. Il tema della città, o in generale quello degli spazi di vita collettivi, ha infatti coinvolto una molteplicità di saperi, discipline ed interessi dimostrando come esso non riguardi solamente problemi di carattere tecnico-funzionale, e mostrando quanto in verità parlare di città significhi parlare dei cuori pulsanti delle società contemporanee: luoghi di conflitto e produzione, di creazione e decisione, di desideri e cambiamento. Vorremmo così cogliere l’occasione della riedizione di questo importante testo di Bernardo Secchi La città dei ricchi e la città dei poveri, per farne una breve presentazione e per rilanciare con forza una questione che riteniamo essere certamente molto articolata e spigolosa ma di assoluta attualità e urgenza, ovvero quella riguardante il rapporto fra urbanistica, etica e politica. Una primissima osservazione che vale la pena evidenziare, riguarda la (relativamente) recente emersione di questo tema a livello di dibattito internazionale, aspetto che delinea un notevole cambiamento nelle sensibilità intellettuali degli studiosi e più in generale dell’intera società. Il primo importante studio a riguardo è infatti rappresentato dall’opera di David Harvey Social Justice and the City (1988), un libro doppiamente importante perché: per un verso mostra la stretta relazione che lega la distribuzione delle ingiustizie sociali alla produzione dei vari spazi di vita, per l’altro afferma ancora una volta come il lavoro dell’urbanista, sia quello teorico che pratico, diventi inevitabilmente, per usare le parole di Secchi, «un continuo esercizio radicale di critica sociale»[1]. Punto di partenza per entrare in La città dei ricchi e la città dei poveri deve così essere la presa di consapevolezza che non esiste una neutralità né degli spazi né di chi li progetta, il che rende l’etica una presenza tanto scomoda quanto inevitabile.

Non è un caso dunque che l’intero lavoro di Secchi abbia come punto di inizio la crisi epistemologico-politica dell’urbanistica iniziata negli anni Sessanta, momento nel quale l’autore comincerà proprio la sua lunga riflessione su ciò che, con un termine cinquecentesco, chiamerà la politica della Renovatio Urbis, cioè un ripensamento del progetto urbano a partire dalla volontà di risoluzione dei tre grandi problemi che segneranno in maniera costante il disegno della città futura (per noi contemporanea): 1) la questione ambientale e di sostenibilità energetica, 2) una mobilità più rapida e capillare, 3) la riduzione delle crescenti disuguaglianze sociali. Parallelamente vengono poi identificati anche i tre principali errori che vanno assolutamente evitati, pena la costruzione di un territorio urbano polarizzato dove le risorse (spaziali e non) rischiano di venire distribuite in maniera estremamente disuguale: 1) bisogna evitare di proporre una nuova versione del modello razionalista e funzionalista tipico del movimento moderno ma ormai definitivamente sorpassato, 2) non accettare quanto imposto dal neonato paradigma neoliberale, espressione di logiche totalmente riduzional-funzionaliste, 3) non cadere nella tentazione della logica autocelebrativa delle produzioni di grandi opere, che fanno dell’urbanista o dell’architetto una “star” e privano la progettualità di una qualsiasi prospettiva ecologica che porta ad osservare lo spazio (persino i suoi aspetti potenziali) in maniera totalmente parziale, individuale e residuale, rifiutando cioè il desiderio di costruzione di una città comune[2]. In questi sei punti sono così riassunte le premesse che gettano le basi per quella che Secchi ha affermato essere la nuova questione urbana, le cui implicazioni ricadono sulla stessa disciplina e professione: «Io sostengo qui che l’urbanistica abbia forti e precise responsabilità nell’aggravarsi delle disuguaglianze e che il progetto della città debba essere uno dei punti di partenza di ogni politica tesa alla loro eliminazione o contrasto»[3].

Quando la città esplode diventando un esteso territorio urbano privo di forme stabili, quando si trasforma cioè in quella che Aldo Bonomi chiama la città infinita[4], ovvero una città senza confini netti, in perenne espansione e attraversata da un’enorme molteplicità di flussi, allora il tema delle disuguaglianze, delle fratture sociali, delle segregazioni spaziali, della «mancata porosità» tra gli spazi collettivi, per usare un’espressione di Secchi, riemerge con vigore ed è proprio in un contesto di questo tipo che l’urbanista e l’architetto possono giocare un ruolo politico di primaria importanza, dimostrando anche la rilevanza dei loro saperi e ruoli. Essi possono infatti intervenire in queste lacerazioni che si sono aperte nel tessuto urbano e che rispecchiano lacerazioni nel tessuto socio-antropologico, lavorando non solo per ricucirle ed evitare emorragie che porterebbero al collasso di interi territori, ma anche per convertire tali fratture e lesioni in spazi di potenzialità, di trasformazione e sperimentazione per nuove forme di co-abitazione tra molteplici gruppi sociali (a tal proposito basti pensare al complesso tema della gentrificazione o della rigenerazione urbana).

 

Città e questione urbana

Chiarite le principali premesse teorico-epistemologiche dalle quali prende le mosse l’autore, ora è il momento di considerare più da vicino il contenuto di La città dei ricchi e la città dei poveri. L’intero libro è infatti costruito a partire dall’affermazione di tre tesi principali:

1) con il variare della struttura economica emerge una nuova questione urbana che porta alla luce diverse conflittualità, soggetti, bisogni, risorse, nonché la necessità di trovare nuove modalità di progettazione degli spazi di vita pubblici e privati, maggiormente condivise e capaci di articolare larghe partnership in grado di coinvolgere una molteplicità di attori sociali. Quella che comunemente viene chiamata città, si trova così ad essere pensata come una struttura vivente che modifica il proprio ambiente e dall’ambiente viene modificata, non più una struttura rigida e statica, ma flessibile e soggetta a costanti modificazioni.

2) La questione urbana contemporanea impone una doppia presa di coscienza: da una parte diviene fondamentale la costruzione di uno sguardo ecologico, cioè una prospettiva progettuale capace di considerare la variegata costellazione di questioni e attori che ruota attorno allo spazio urbano, dall’altra è doveroso rendersi conto che «lo spazio, grande prodotto sociale costruito e modellato nel tempo, non è infinitamente malleabile, né infinitamente disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e della politica». Esistono limiti (non confini) che vanno riscoperti proprio in quanto fonti di valore e legittimazione all’agire sociale comune.

3) Nel territorio urbano le ingiustizie sociali sono prima di tutto ingiustizie spaziali (esemplare a questo proposito è il libro di E. W. Soja Seeking Spatial Justice uscito nel 2010). Le distanze, i muri, i confini si trasformano in isolamento, in esclusione, in dis-integrazione, cioè in separazioni: «Nella città occidentale ricchi e poveri si sono da sempre incontrati e continuano a incontrarsi, ma sono anche, e sempre più, resi visibilmente distanti»[5]. Proprio la separazione diventa così il perno dell’intera critica di Secchi: essa permette infatti di articolare il tema della disuguaglianza spaziale instaurando un confronto dialettico fra la città dei ricchi e la città dei poveri, entrambi simboli di opposti modelli di pensare l’urbano. Da una parte quello nord americano centrato sulla separazione degli spazi: si pensi ad esempio alla costruzione delle cosiddette gated community, ovvero zone residenziali altamente controllate dove vivono le persone più ricche e che danno vita a micro-cosmi completamente isolati rispetto al territorio circostante, oppure ai famosi quartieri-ghetto delle metropoli americane. Dall’altra invece vi è il modello europeo centrato sul tema dell’inclusione negli spazi, il quale, nonostante qualche caso di fallimento (si pensi solo alle banlieu parigine o a certi ex-quartieri operai del sud di Londra), costituisce comunque un serio tentativo di costruzione di spazialità collettive dove la separazione lascia il posto all’ibridazione, al mescolamento, sia in termini culturali che lavorativi e abitativi.

Ad ogni modo, il riferimento alle categorie di “ricchi” e “poveri” è solo il pretesto per gettare le basi di una riflessione molto più ampia concernente anche i meccanismi psicologici che intervengono sulla popolazione modificando i modi di abitare e vivere lo spazio pubblico, quegli stessi meccanismi che presiedono alle modificazioni delle forme di solidarietà o intolleranza. La paura come la sicurezza diventano il fondamento emotivo e psicologico che determina la progettazione e implementazione di specifici dispositivi (dalle mura per la difesa ai manicomi, dai ghetti ai semplici ponti) i quali esercitano una forte influenza nella frammentazione o coesione dello spazio sociale abitato.

Tutto ciò fornisce poi lo spunto a Secchi per invitare l’intera comunità scientifica e politica a studiare una diversa grammatica e sintassi per la città: non il tentare di imporre una forma che per forza di cose collasserà su se stessa, e nemmeno di imbrigliare il territorio urbano in rigide griglie fisiche o amministrative solo in nome di una gestione più efficiente e sicura. Al contrario, lo stimolo vuole andare nella direzione di un ripensamento radicale della territorialità immaginata come una realtà altamente porosa, dotata di una capillarità (in termini di spostamenti e possibilità di incontri) più diffusa e generalizzata, dove l’accesso agli spazi diventa un diritto e non una concessione, dove le comunità che nascono in maniera spontanea possono trovare spazi di espressione, nonché occasioni di sviluppo o proliferazione. In questa maniera gli spazi ri-diventano luoghi, ovvero territori dotati di memoria, solidali, accessibili, in una parola: generativi. Per approfondire ulteriormente queste tematiche, Secchi introduce poi un nuovo concetto, quello di isotropia, intendendo con esso il criterio di democrazia opposto alla gerarchia pensata quale simbolo del potere imposto, un criterio che indica l’indipendenza dalla direzione, la volontà di pensare lo spazio urbano superando le idee di perimetro, di organizzazione radio-centrica e guardando al territorio in maniera omogenea, considerandolo in tutte le sue direzioni, fino ad arrivare a una prospettiva urbana compiutamente ecologica[6].

 

Conclusioni

Arrivati a questo punto, la domanda che bisogna allora porsi è: come si dà forma ad una configurazione isotropica della spazialità urbana? La risposta dell’autore è chiara: inglobando nel progetto le categorie di porosità (termine con il quale immagina uno spazio fluido, disponibile a «pratiche non codificate», e che riprende dalla lettura di Bloch e Benjamin.), di connettività, permeabilità e accessibilità[7]. Ciò comporta infatti un notevole passaggio: «Noi urbanisti pensiamo sempre ai condotti principali, dotati di rubinetti di entrata e di uscita (caselli autostradali, stazioni ferroviarie), ora ci dobbiamo interessare ai capillari, definire e organizzare le reti delle reti»[8]. «È necessario che si torni a ragionare sul collettivo, […] se si vorrà uscire dalla crisi economica e dalla recessione bisognerà sviluppare la domanda del plus grand nombre, non affidarsi a domande espresse da nicchie sociali e tecnologiche»[9]. Ecco che l’etica diviene così una bussola che orienta la progettualità urbanistica e le sue implicazioni politiche, una bussola con la quale cercare nuove rotte ed evitare la deriva riduzionista che esalta la funzionalità ponendola a metro universale di ogni spazialità collettiva. Per concludere, ma restando il più possibile vicini allo spirito di quest’opera e del suo autore, parole molto belle sono state scritte da Tiziana Villani la quale mette in risalto l’aspetto più importante di qualunque spazialità, ovvero quello qualitativo, riguardante il modo in cui esse vengono vissute e riprodotte: «Gli spazi costituiscono scritture, sono il derma costruito dalle esistenze. Definire lo spazio come derma significa riprendere l’espressione di superficie che qualifica gli spazi. Il derma del corpo e il derma dell’ambiente sono coestensivi e creano un’intensa rete di rimandi. La felicità del corpo si alimenta della potenza dell’ambiente cui appartiene. Il nostro tempo è dominato da scritture segreganti e imperative, che si affannano a prescrivere comportamenti, perimetrare territori, privatizzare ogni sorta di risorsa. È un derma deturpato quello del nostro ecosistema e come la pelle del corpo si lacera, s’infetta, e scrive i segni di questa grammatica violenta. La felicità è la posta in gioco»[10].


[1] Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari 2005.

[2] Maurizio Giufrè, Abitare la porosità, «il manifesto», 22 settembre 2016

[3]  Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 30.

[4] Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese, La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 13.

[5] Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, op. cit., p. 21.

[6] Luca Reale, Isotropia, porosità urbana e scenari per il futuro della metropoli parigina, «(h)ortus rivista di architettura».

[7] Luca Reale, Isotropia, porosità urbana e scenari per il futuro della metropoli parigina, «(h)ortus rivista di architettura».

[8] Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, op. cit.

[9] Bernardo Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, op. cit., p. 78.

[10] Tiziana Villani, Ecologia politica, ManifestoLibri, Roma 2013, p. 143.

Scritto da
Andrea Baldazzini

Ricercatore Senior presso AICCON, centro di ricerca dell’Università di Bologna dedicato alla promozione della cultura della cooperazione e del non profit, dove si occupa di imprenditoria sociale, innovazione e trasformazioni dei sistemi di welfare territoriale. Svolge inoltre attività di formazione e consulenza per organizzazioni di terzo settore e pubbliche amministrazioni. Per «Pandora Rivista» è membro della Redazione.

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