Scritto da Giulio Pignatti
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Le democrazie contemporanee hanno conosciuto negli ultimi anni fenomeni significativi, fra cui una tendenza alla disintermediazione, lo sviluppo dei populismi, una trasformazione del rapporto fra opinione pubblica e saperi, la frammentazione delle forme collettive di costruzione della rappresentanza. L’intervista approfondisce questi mutamenti con Nadia Urbinati, professoressa ordinaria di Teoria Politica alla Columbia University di New York. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo (Laterza 2020) e Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (il Mulino 2020).
Lo scenario politico è animato da un fenomeno parallelo di messa in discussione e “secessione” rispetto alle élite, alle forme di mediazione e direzione politica come erano i partiti, all’intellighenzia… Vi sono delle radici politiche e sociali nella scissione tra la comunità e il suo modo di rappresentarsi e comprendersi. All’inizio del suo libro Io, il popolo lei scrive che: «Non è azzardato pensare che il populismo sia l’orizzonte della democrazia contemporanea». Che cosa intende?
Nadia Urbinati: Partiamo dal divorzio tra “élite” e “popolo”. Le democrazie contemporanee sono tutte elettorali, ovvero basate su una struttura del consenso che deve essere formata, entrare in competizione, eventualmente rivedersi per tornare a proporre ricette vincenti; sono tutte basate su una organizzazione dell’opinione politica che deve essere veicolata nel governo del Paese (in una maggioranza) senza mai identificarsi con essa. All’interno della cornice dell’opinione pubblica, di cui tutti siamo parte, si sviluppa una pluralità di opinioni, ciascuna afferente in maniera più o meno diretta a progetti politici, interessi organizzati, visioni del mondo (religiose, estetiche, morali, ecc.). Questo pluralismo interno all’opinione pubblica può essere immaginato come fatto di centri concentrici; non è un pluralismo disorganico perché ciascuna è tenuta insieme al proprio interno da un punto di attrazione intorno a cui l’opinione si sviluppa: può essere l’ambiente, la solidarietà, una visione del mondo legata alla libertà personale e alla libertà sessuale, ecc. Le opinioni sono come sassi di parole gettati e chi si sente colpito da esse e dalle tematiche che esse incorporano interviene agendo (contestando, discutendo, associandosi) così da contribuire a rigenerarle o riconfermarle. Questa forma di azione-reazione non è finalizzata a uno scopo unico; alcune opinioni e non altre si strutturano insieme e alcune e non altre si scontrano. Questo era il mondo fino a qualche anno fa, guidato da attori pubblici forti e bene organizzati: i partiti di massa, i sindacati, i mezzi di comunicazione professionali (indipendenti o/e di partito). Questo mondo autogenerativo delle parti che componevano l’opinione pubblica e il discorso pubblico era ad un tempo il riflesso e la rappresentazione di una struttura sociale associativa altrettanto robusta e articolata. Partiti, sindacati, organizzazioni di categoria, quotidiani rappresentavano dei mondi che si tenevano insieme mediante relazioni conflittuali e cooperative. Che cosa succede quando questa struttura di formazione e organizzazione dell’opinione cambia? Quando i partiti non sono più strumenti di organizzazione e di costruzione dell’opinione, ma semmai inseguitori dell’opinione e sempre alla ricerca di posizionarsi rispetto ad essa? La stessa domanda può essere posta ai giornali: è difficile dire che i giornali, oggi, abbiano delle caratteristiche loro proprie e che partecipino a questo pluralismo, perché molte volte propongono tutti la stessa notizia colorata in maniera diversa, per cercare un posto di rilievo nell’audience; spesso anzi si abbeverano alla sorgente dei social e dei blog senza troppo impegnarsi a verificare le fonti di informazione, diventano cioè come parassitari di questi nuovi attori, salvo poi criticarli di mancare di autorevolezza. Sembra che la scomparsa dei centri attrattivi e costruttori delle opinioni politiche abbia prodotto una schizofrenica orizzontalità. Tutte le opinioni e tutte le visioni hanno uguale autorevolezza e nessuna ha più capacità auto-organizzativa. A partire da questa situazione, sostengo che il populismo è forse la forma che è più funzionale all’orizzonte contemporaneo, perché unisce le varie istanze e i vari interessi non attraverso delle macchine organizzative, ma attraverso la costruzione astuta d’immagini e di discorsi veicolati dai media impersonati generalmente da una figura individuale. Con questa orizzontalità quasi schizofrenica è difficile trovare fuori dalla persona attrattiva (il leader individuale) altri punti di riferimento e di unificazione.
Pensa che la democrazia dei partiti, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di organizzazione, partecipazione e direzione, sia stata una parentesi data da una ormai tramontata età delle ideologie, oppure è il populismo ad essere una patologia della democrazia, e come tale guaribile? Quale futuro vede per il post-Covid?
Nadia Urbinati: Ovviamente ci sono differenze tra i Paesi democratici: quel che vale in maniera preponderante per l’Italia e in buona parte per la Francia non vale necessariamente o ugualmente per la Germania. Quindi è preferibile evitare generalizzazioni. È tuttavia vero che il successo di retoriche populiste con leader individuali è un fatto dirompente un po’ in tutti i Paesi. Perché in questo momento storico e non prima? Si pensava, almeno fino agli anni Ottanta, che il populismo fosse di casa nei Paesi di transizione e stabilizzazione democratica, e non in quelli solidamente democratici. Che cosa ha reso l’offerta populistica più convincente di quella dei partiti? Intendiamoci, i partiti ci sono ancora, ma ciò che li caratterizza è che non svolgono più quel lavoro di organizzatori della partecipazione e di articolazione e direzione del consenso tra parti di cittadinanza. I partiti di un tempo erano anche delle vere e proprie macchine di conoscenza, che davano un’educazione a cittadini ordinari e formavano la classe politica delle città e della nazione. Adesso, nonostante non siano scomparsi, la funzione – nonché la struttura – dei partiti è diversa; sono essenzialmente macchine elettorali con il solo compito di selezionare, far vincere e poi proteggere un’élite. Questo viene avvertito da chi sta fuori dal gioco politico, cioè dalla stragrande maggioranza dei cittadini, come una forma leaderistica di politica – di qui l’attacco generalizzato contro l’establishment. È come se i partiti avessero lasciato cadere il compito di organizzare ed educare preservando solo quello di selezionare e riprodurre un’élite. Non c’è niente di male nel fatto che questo avvenga; il problema è che i partiti fanno solo questa cosa; e ciò contribuisce a creare una sorta di frattura tra élite – quindi i partiti, presenti solamente all’interno delle istituzioni – e chi sta fuori. I due corpi sono molto separati, al punto che, quando interagiscono, lo fanno o con un disprezzo reciproco – lo abbiamo visto in questo anno e mezzo, durante il quale i “pubblici parlatori” molto spesso hanno mostrato il fastidio per una generalità di parola che tutti vogliono avere e che hanno sul web (“come si permettono gli ignoranti di parlare?”) – o con una forte percezione di distanza, soprattutto da parte dei cittadini ordinari, che anche per questo sono diffidenti dei politici e non riconoscono ad essi alcuna autorevolezza. In verità, il dualismo esaltato dai populisti tra “popolo vero” ed “establishment” è una realtà che preesiste al populismo. Il mondo dell’opinione e il mondo della parola si sono infatti divisi. Prima, coi partiti organizzati, parola e opinione stavano insieme: in sezione o sui giornali di partiti si discuteva, si ripeteva magari una ritualità, ma ciò serviva a dare alle parole una veste di opinione pubblica condivisa. Oggi siamo pieni di parole che circolano ovunque, ma la loro veste pubblica è molto dubbia. Dall’altra parte, c’è invece un’opinione armata di parole autorevoli che circola attraverso i mezzi di comunicazione oppure nella politica pubblica, ma che trova a fatica riconoscimento tra i cittadini ordinari. Si tratta quasi di due popoli separati. E così avere solo parola, senza possibilità di una sua espressione pubblica che ci porti a sentirne il peso politico, ci fa pensare che avere parola sia inutile. Lo si sta verificando anche con la tragedia dell’invasione russa dell’Ucraina, quando molti nel nostro paese parlano di pace eppure, nonostante il rumore di queste richieste, chi governa sembra non sentire e sostenere chi vuole continuare la guerra. La divaricazione tra parole e loro efficacia può far sì che in una democrazia ricca di tanti mezzi di informazione e di comunicazione si generi nei cittadini l’idea sconfortante che parlare e discutere non abbia una traduzione nell’opinione politica rappresentativa, che quindi non abbia effetto e peso – che insomma il loro potere sia … senza potere. Quando questa sensazione che il potere sia altrove, che non sia più legato alla nostra costruzione dell’opinione, è forte deve preoccupare: se non vi è nulla che leghi e accomuni il mondo dei “pochi” e quello dell’opinione dei molti non vi è alcuna certezza che la società si mantenga salda e pacifica.
È dunque possibile tracciare un parallelismo tra la disintermediazione politica e la disintermediazione dell’opinione, dell’informazione, della cultura, di tutto ciò che plasma l’opinione pubblica. In un libro di qualche anno fa, Democrazia sfigurata, riconosceva tre “vizi” in cui cadeva l’opinione pubblica di fronte all’insoddisfazione per le procedure democratiche, e cioè la tendenza a dare letture tecniche e apolitiche della deliberazione pubblica, la tendenza a promuovere soluzioni populistiche e quella a facilitare il plebiscito dell’audience. Come viene plasmato il foro delle opinioni oggi, cioè ai tempi di un populismo ormai realizzato, “di governo”?
Nadia Urbinati: Innanzitutto, quei processi che sembravano in atto sono ora abbondantemente realizzati. C’è un fenomeno che è emerso durante il periodo della pandemia che è interessante da questo punto di vista. Le ideologie e le visioni politiche sono naturalmente esposte al dissenso, alla discussione e all’opposizione; il pluralismo ideologico e politico è il sale della democrazia. Però abbiamo sempre tenuto fuori da questo mondo dell’opinione cangiante la scienza. La scienza è stata sempre l’altra faccia della medaglia rispetto alla politica come la verità rispetto all’opinione; scienza e verità sono entrambe state per molto tempo interne alla stessa dimensione di discorso e di ricerca di conoscenza che è propria della società democratica. La scienza, nel corso dei secoli, in seguito ai processi di emancipazione dalla religione e poi anche dalle ideologie, ha avuto una sua autonoma evoluzione, che le ha garantito grande autorevolezza. Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe contestato sistematicamente il valore della scienza e la credibilità degli scienziati. Invece, dal momento in cui la pandemia ci ha costretto a una vita politica diversa, dove altre competenze, come ad esempio quelle afferenti alle scienze mediche e biologiche, erano necessarie rispetto al funzionamento delle istituzioni classiche, si è avuto il fenomeno straordinario collegato ai tre processi descritti in Democrazia sfigurata. È successo che perfino la scienza, nella veste dei suoi scienziati rappresentativi, è diventata parte di un campo dell’opinione, che trasforma tutte le nostre conoscenze in possibilità ipotetiche. Le quali possono essere vere o false, ma comunque sempre oggetto di contestazione da parte di tutti. Nel mondo politico questo è normale, ed è sano che sia così, perché tutti i cittadini sono uguali tra loro e non c’è nessuno che possa rivendicare un’autorevolezza superiore nella sfera pubblica dell’opinione; non è così nel mondo scientifico. Ecco il plebiscito dell’audience: quando perfino la scienza viene ad essere parte del dominio del pubblico, perde la sua autorevolezza di verità. Sosteneva John Stuart Mill che, se mettiamo le teorie newtoniane dentro il bacino dell’opinione pubblica, esse troveranno probabilmente un’opinione contraria contro la quale doversi difendere. Questa ulteriore espansione dell’autorità dell’opinione comporta un’ulteriore erosione di distinzione. Non soltanto i leader politici sono sentiti come una élite di disturbo, non soltanto i giornalisti sono sentiti come degli oracoli insopportabili, anche gli scienziati che entrano nell’opinione finiscono nel gorgo dello scetticismo. Così, che chi parla sia uno scienziato che magari ha ricevuto il Nobel non è un dato sufficiente a convincere chi sta dall’altra parte dei mezzi di comunicazione, quindi che fa audience, che egli stia producendo una qualche verità situata oltre la possibilità di critica da parte dei non competenti. È come se ci fosse un’erosione ultima, che fa seguito alla precedente erosione delle identità religiose. Ora anche nel campo della scienza, che era l’altro dominio intoccabile insieme alla fede, si verifica questo fenomeno di accaparramento da parte dell’opinione e quindi di azzeramento di quella che doveva essere l’autorevolezza del sapere, della conoscenza scientifica al di là delle contestazioni d’opinione.
Abbiamo analizzato il rapporto dell’opinione pubblica con la scienza. D’altra parte, è interessante mettere a fuoco il rapporto dei leader politici con la scienza, in particolar modo durante il periodo della pandemia. Il populismo, infatti, si alimenta spesso di complottismo e verità “alternative”, e così il populismo al governo entra in una contraddizione, perché da una parte il leader per forza deve ascoltare scienziati e analisti, ma dall’altra parte non può che continuare a fomentare le fake news di cui si nutre una parte del suo popolo. Come vede questa ambivalenza?
Nadia Urbinati: Ernesto Laclau ha scritto un libro nel 2005 (La ragione populista) nel quale mostra come si costruisce la rappresentazione/rappresentanza del popolo. Ciò avviene attraverso un lavoro che lui chiama “egemonico” o “ideologico”, due termini che egli usa come esemplificativi della capacità che il discorso retorico ha di unificare interessi, esigenze o scontenti che precedentemente erano unificati dai partiti ideologici in maniera parziale e oppositiva. Decaduti i partiti, il leader populista riesce a riunire il più grande numero di idee e scontenti, cercando il tema comune che possa unificare. Questa visione di Laclau presumeva una verticalità e una capacità propositiva e costruttivista da parte di un centro politico, quest’ultimo rappresentato evidentemente da un leader col suo entourage. Si trattava comunque di un lavoro dall’alto. Ora, avvertiamo invece il mutamento di questa struttura classica, nel senso che i leader populisti – lo hanno mostrato durante il periodo pandemico i due principali esemplari al governo, Bolsonaro in Brasile e Trump negli USA – operano non alla maniera raccontata da Laclau, cioè tenendo unite, con una tessitura ideologica, le varie parti della società – secondo un’idea di popolo fatto di diversi e uniti nella persona carismatica –, ma inseguendo le opinioni di quella parte di popolazione che sanno o tendono a credere essere più vicina a loro, o comunque più facile da conquistare e tenere nel tempo. Quindi non è che Trump abbia “generato” questo grande bailamme di opinioni contro il virus e la sua inesistenza, ma le ha “usate”. Le opinioni c’erano già nella popolazione americana (come del resto sono presenti anche in quella italiana); il leader deve in qualche modo adattare se stesso a questa opinione che demolisce certezze di ogni tipo, anche scientifiche, e che è scettica rispetto ad ogni autorità. È come se il leader populista, che tradizionalmente acquisisce la propria autorità per via di una campagna propagandistica formidabile (si pensi ad esempio a Chávez), debba ora vivere fondamentalmente di rimessa, cioè adattandosi al mondo di contestazione del vero scientifico che i nuovi mezzi di comunicazione (i social) esaltano. Ora, perché è conveniente tenere in piedi questa contestazione? Lo è innanzitutto perché consente di creare una frontiera di amico e nemico. Nemici saranno coloro che ritengono di dirci come le cose dovrebbero essere fatte da un punto di vista della conoscenza scientifica. Contro queste élite si contrappone il mondo degli scontenti, i quali vengono inseguiti e catturati dal leader ma non da lui costruiti; che esistono indipendentemente dal fatto che un Salvini sia sulla cresta dell’onda o no. Ecco perché sembra che il rapporto si sia quasi rovesciato, tra questa opinione radicalmente opinionista e cangiante, che rifiuta la stabilità e che finisce per essere impersonale, non attribuibile se non all’indeterminato “web”, e il leader populista, quest’ultimo tenuto in mano dalla prima. Salvini si è trovato in difficoltà a seguire questa china essendo il suo partito al governo. È dunque una forma di populismo collettivo disperso, che corregge la struttura centralistica fondata sul leader alla maniera di Laclau. Questo è un fatto nuovo, che comporta quasi un rovesciamento della piramide.
In questo quadro, qual è l’atteggiamento verso gli intellettuali? Nel libro Pochi contro molti, infatti, lei pone l’accento sul fatto che non solo i molti entrano in un rapporto conflittuale coi pochi, ma che i pochi stessi – i dirigenti di partito, gli intellettuali organici, i professionisti dell’informazione – alimentano questa secessione, allontanandosi, anche per paura, dalla legittimazione popolare. E d’altro canto, invece lei cita quali nuovi intellettuali figure come ad esempio gli spin doctor, cioè coloro che, in maniera anche celata, curano delle campagne di comunicazione tali da riuscire a legittimare finanche guerre e sconvolgimenti internazionali. Questi nuovi intellettuali in che cosa differiscono dai loro “predecessori” e qual è invece la continuità?
Nadia Urbinati: Il termine “intellettuale” non è un termine descrittivo, ovviamente; non è che una persona che insegna oppure scrive sia per ciò stesso un intellettuale. La categoria di intellettuale viene da una tradizione molto onorevole e lontana da noi, che ha avuto il suo punto di riferimento più alto in Antonio Gramsci. Per capire il ruolo dell’intellettuale bisogna leggere i testi gramsciani. L’idea fondamentale è che l’opinione debba essere costruita. Perfino Gramsci, che pure era un marxista, riconosceva che la struttura della classe, benché legata a rapporti di forza radicati nel mondo della produzione di beni, fosse in parte il risultato di una costruzione ideologica. Ciò rendeva evidentemente gli intellettuali i detentori di un nuovo potere. Mill, Tocqueville e Le Bon lo compresero, Gramsci lo sistematizzò. L’intellettuale, in questo caso, è il sapiente di un sapere particolare: non scientifico asettico, ma neppure storico asettico: è invece al servizio di una causa. Un intellettuale mette la cultura e la ricerca all’interno di una visione della società da realizzare, una società del futuro, e fa questo svolgendo un’opera di educazione e di interpretazione delle opinione tale per cui in un sistema di partiti organizzati il militante e il cittadino ordinario si affidano alle e si fidano delle letture degli intellettuali. Si trattava di una costruttivismo ideale o ideologico per mezzo di un rapporto di fiducia mediato dal partito. Non ci sono intellettuali senza partito. Ecco perché intellettuali di questo tipo non esistono più. Chi è rimasto tra i vecchi nostalgici del ruolo dell’intellettuale si scontra con la realtà ed è perdente, poiché un cittadino che non ha più nessun legame con un partito organizzato non capisce perché dovrebbe fidarsi dell’interpretazione di questo o quell’intellettuale. Che cosa rende organico quell’intellettuale, quando non c’è più un soggetto collettivo che organizza? Ecco allora che questi intellettuali non hanno più luogo d’essere – e molti, tra giornalisti, creatori di opinione, scienziati si lamentano della perdita di autorevolezza e si lamentano che i cittadini girino le spalle a coloro che sanno. Ma non si capisce perché i cittadini democratici dovrebbero prendere per oro colato ciò che viene offerto loro da coloro che sanno, se questi ultimi non esprimono idee oggettive (non sono scienziati) ma di parte, ideologiche a loro volta. C’è in realtà nel nostro tempo un’altra forma di intellettuale organico, che è organico non ad un partito o a una visione della società, bensì all’organizzazione del consenso. Gli “spin doctor”, coloro che operano nel mondo dei social media e della comunicazione, non sono semplicemente dei tecnici neutri. Questi intellettuali sono organici a progetto di vittoria elettorale di un personaggio politico. È come se ci fosse un’applicazione al mondo degli intellettuali organici della mentalità strumentale di costi-benefici: ovvero non c’è un ideale da raggiungere, ma c’è un leader che deve vincere, e il tecnico del consenso farà di tutto per raggiungere questo obiettivo. È insomma una visione molto più prosaica e strumentale, senza grandi o piccole idee di riferimento. L’intellettuale organico di oggi è un tecnico – principalmente della comunicazione – al servizio del desiderio di potere di qualcuno, così come un operatore finanziario fa tutto quanto è in suo potere fare per poter massimizzare il rendimento dei soldi investiti del suo cliente. Questo tipo di intellettuale organico è evidentemente l’immagine della politica contemporanea, che vuole vincere a tutti i costi, poco importa quel che propone – la vittoria ripaga di tutto. Questa è anche la logica populistica: chi vince ha ragione; l’opinione che ha conquistato la grande maggioranza e che vince sulla minoranza ha ragione ed è legittima. Se non c’è più un’ideologia superiore di riferimento (come nel caso del partito di massa) e se non c’è neppure una verità di riferimento (anche gli scienziati sono decaduti dandosi alla ricerca dell’audience) quale altro può essere il criterio, del resto?
Quanto pensa che il populismo, come rapporto uno ad uno tra leader e “follower”, sia legato, anche geneticamente, al web e a questa sorta di raddoppiamento virtuale della sfera pubblica?
Nadia Urbinati: Il populismo come strategia per la conquista del potere via elezioni ha bisogno di una retorica che sia capace di unificare varie istanze, che diversamente sarebbero disgregate. Il leader populista è vincente se riesce a tenere insieme bisogni e posizioni anche opposti, provenienti da diverse classi o da diverse aree geografiche. Noi vediamo solo il risultato unitario di questa strategia, la retorica che il leader ci presenta. L’aspetto retorico è indubbiamente fondamentale, ed è un vero e proprio mezzo. Si parla infatti di visione narrativa della politica: il discorso diventa mezzo per unire, per raccogliere. Non è più la classe, la struttura sociale, e nemmeno l’identità religiosa o linguistica, ma qualcosa di artificialmente costruito nel discorso pubblico e che alcuni esperti misurano con il sondaggio nelle preferenze dando al leader la convinzione che sia capace di unire diverse persone ovvero attrarre voti. Questo mostra lo strettissimo legame tra democrazia e retorica populistica, la quale può svilupparsi efficacemente di fronte a un pubblico libero e aperto, capace di recepire e organizzarsi. Il web è uno strumento che rende questa dimensione retorica e narrativa molto più efficace, perché senza tantissimo impegno – senza andare cioè da una piazza all’altra d’Italia, oppure stare dalla mattina alla sera in radio o in televisione –, direttamente da casa (o da un luogo invisibile, dietro le quinte), il leader e i suoi spin doctor possono creare una narrativa. E la creano in maniera che si potrebbe dire scientifica. È questo l’aspetto nuovo: non si tratta più semplicemente dell’arte del discorrere della tradizione del demagogo, ma di una vera e propria scienza, che usa la misurazione delle emozioni, la conoscenza quantitativa delle reazioni del pubblico. Ci sono degli strumenti tecnici che consentono di anticipare una reazione a certi temi. Il web, dunque, non è semplicemente una tecnologia di facilitazione, bensì di “costruzione”, perché usa meccanismi che non sono tanto legati all’arte del singolo leader, quanto a una strategia scientificamente collaudata. A questo punto il populismo raggiunge una capacità di efficacia molto maggiore. C’è però fortunatamente un elemento che ci assicura da una forma di determinazione “meccanica”. Il web ha infatti la caratteristica della temporalità corta, legata al comportamento consumistico, che deve stimolare continuamente nuovi beni e contenuti da presentare. Facendo così, il web stimola e veicola continuamente nuovi gusti, nuovi abiti, nuove idee, cambia il modo di presentarsi della persona. Quindi paradossalmente i leader populisti devono essere sempre capaci di modificare se stessi e le loro idee, seguendo i cambiamenti fatali che avvengono presso i consumatori. È questa corta temporalità che rende il populismo non stabile e le democrazie meno a rischio di sovversione.
Per quanto riguarda i “molti”, il “popolo”, un’impressione è che l’allontanamento della società dalle forme di produzione intellettuale e culturale derivi anche da una frammentazione estrema che impedisce ogni forma di autorappresentazione collettiva, di racconto comune. Da qui anche il successo della identity politics e del populismo stesso. Ma secondo lei quanto riesce davvero un leader come, ad esempio, Trump a unire un popolo (o la maggioranza di esso)? Che forma di unità è?
Nadia Urbinati: È una forma identitaria, senza dubbio. Se non ci sono più idee guida e ideologie fondate su una base ontologica, che cosa ci può legare agli altri? Questo qualcosa può essere ad esempio l’identità etnica, l’identità nazionale, di genere. C’è nella democrazia, che è fatta di individui (e di votanti singoli e tra loro indipendenti) il bisogno di radicare e legare a qualcosa di stabile le vite e idee. Finiti i grandi racconti collettivi con la loro astrattezza, ora entriamo nella concretezza delle nostre identità – che, almeno, concrete ci sembrano. Su questa povertà di tessuti connettivi e discorsi che legano crescono con grande facilità i leader populisti. Trump, che ancora esiste e che ha una capacità di parola e di testimonianza delle sue posizioni ancora forte, ha bisogno di avere dei democratici che lo detestino per poter mobilitare i suoi a detestare a loro volta i democratici. È una politica divisa che sta in trincea, ma non in attesa che il nemico arrivi per poi colpirlo (com’era la trincea nella rappresentazione di Gramsci) bensì una trincea che costruisce gli stessi eserciti armati. È una politica che non ha più una visione del generale, bensì un obiettivo concreto e vicino nel tempo, come la vittoria elettorale.
In questo senso, secondo lei i movimenti riescono ancora a tenere insieme politici e popolo?
Nadia Urbinati: Oggi anche gli stessi populisti preferiscono creare movimenti o partiti leggerissimi, capaci di muoversi con agilità secondo i loro interessi. I movimenti come Occupy Wall Street, Indignados, movimenti dunque dal basso, sono capaci di scuotere l’opinione pubblica, però non hanno – né forse vogliono avere – una rappresentanza, e quindi muovono le cose senza poi volerle gestire. Questo è anche ciò che è successo con le Sardine, la cui funzione è stata quella di muovere civilmente i cittadini ad andare a votare, senza diventare però un partito a loro volta. La funzione di dare voce a una parte della cittadinanza rimane comunque importantissima.
L’interesse per i temi della costruzione e trasformazione dell’opinione pubblica è dovuto al fatto che per molte sfide politiche epocali, come quella legata al cambiamento climatico, si fa spesso riferimento a un cambio di mentalità collettiva che, esso solo, potrebbe produrre una reale rivoluzione. Questo fantomatico argomento spesso si conclude con una fatale autoassoluzione (in attesa di tempi più maturi), ma più raramente ci si sofferma a riflettere su che cosa significa effettivamente un cambiamento di mentalità. Ci può aiutare?
Nadia Urbinati: Marco Tarchi, scienziato politico vicino alla destra e molto attento ai fenomeni populisti, identifica il populismo prima di tutto come mentalità – più che come strategia, ad esempio. Io ho delle resistenze, perché secondo me il populismo non ha una mentalità specifica; è l’appello al popolo fatto in un determinato contesto da alcuni attori politici. La mentalità è piuttosto quella che Gramsci chiamerebbe “senso comune”. In tutti gli intellettuali dell’Ottocento, fino appunto a Gramsci, c’era l’idea profonda che i mutamenti di tipo istituzionale non fossero sufficienti, che occorresse cambiare la cultura spirituale e morale del Paese, quindi la mentalità. Per stabilizzare un sistema istituzionale nuovo serviva una mentalità che non fosse più legata – come era per grandi masse di persone – al ceto e alla corporazione di appartenenza; si trattava di educare l’opinione pubblica generale e nazionale. Se il problema nell’Ottocento era di creare dei cittadini capaci di avere una mentalità non subalterna ma democratica – di qui la necessità di una educazione delle masse sul lungo periodo –, adesso la sfida per noi cittadini è quella di diventare capaci di fare i conti con problemi, che sono apparentemente più “distanti” da noi, come appunto quella del clima, ad esempio. Mentre nell’Ottocento la sfida era innovativa della società (si trattava di lottare per il suffragio e poi fare in modo che i cittadini imparassero a usare l’arma del discorso politico e del voto), noi abbiamo a che fare con sfide che ci richiedono di cambiare il nostro modo di agire e di pensare 24 ore su 24. Per avere effetti sul clima si tratterebbe di promuovere una mentalità di autocontrollo radicale, per cui si giunga a limitare il consumismo, ad apprendere come gestire la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, ad apprendere a privilegiare certi comportamenti invece che altri – fare tutto questo non solo in un singolo paese ma in tutto il mondo. Sono abbastanza scettica: a meno che non cambiamo gli esseri umani – come nel mito utopistico settecentesco dell’uomo nuovo da educare –, bisogna accettare il fatto che una mutata mentalità non si rifonderà mai sulla base dei nostri desideri o anche delle nostre volontà. Certo, rispetto alla tradizione illuminista della riforma della mentalità “top-down” o giacobina c’è anche la tradizione educatrice di Rousseau o degli utilitaristi inglesi del “bottom-up”. In tal senso, si tratterebbe ad esempio di riformare i programmi scolastici, fare in modo che siano uniformi, e che il personale che si occupa di trasmissione culturale, sia nei media che nelle istituzioni scolastiche, si ponga nella condizione di autolimitazione, entrando in un ordine più responsabile di formazione delle opinioni. Come si vede, si tratterebbe comunque di un lavoro organizzativo titanico.
Un altro esempio di invocazione di un cambio di mentalità è quello relativo alla costituzione di un’opinione pubblica realmente europea, che permetterebbe un avanzamento del progetto comunitario. Tentativi in tal senso – in termini di policies, di movimenti e associazioni, di scelte editoriali, ecc. – ve ne sono sempre di più, ma d’altro canto è anche vero che, se uno Stato è un sistema diarchico di opinione pubblica e decisione politica sovrana, allora c’è il rischio che l’opinione pubblica si costituisca sempre intorno a una struttura nazionale. Secondo lei si può realizzare qualcosa come un’opinione pubblica europea?
Nadia Urbinati: Gradualmente siamo riusciti a edificare una mentalità europea. Siamo più europei noi dei nostri genitori; e i giovani ancora più di noi. Le norme, le regole, le procedure amministrative, commerciali e burocratiche hanno uniformato i comportamenti di milioni di europei benché diversi nella lingua e anche nei costumi. I progetti Erasmus hanno cercato di creare una popolazione di studenti capaci di interagire come europei oltre che come cittadini nazionali. Tutto questo ha contribuito a formare cittadini europei senza un sovrano europeo. E in tempi critici – come la pandemia – questa unità si è espressa anche in una concreta collaborazione scientifica, medica ed economica. I fatti, la loro gestione e anche un’emergenza sanitaria hanno cementato un’unità e fatto sentire noi europei “come se” fossimo uniti; noi europei molto più che noi occidentali. Noi europei come parte del mondo occidentale, ma specifici e non assimilati, per esempio, ai canadesi o agli statunitensi. Sarebbe desiderabile che questa unità di sentire si esprimesse anche nella dimensione delle relazioni internazionali, ovvero l’Unione Europea riuscisse ad avere una politica estera e di difesa comune e indipendente. Stiamo verificando con la guerra in Ucraina quanto importante sarebbe che l’Unione Europea riuscisse a garantire la pace e la cooperazione sul proprio continente. Un’unione più perfetta sarebbe certamente aiutata da un’opinione politica comune. Certo, servirebbero media unitari (una CNN europea, ad esempio) e non soltanto nazionali, una stampa attenta al continente e non solo al paese di riferimento. I tempi sono lunghi e gli ostacoli non piccoli (pensiamo a quello della lingua), ma indubbiamente la convenienza può indurre a pensare che non ci sia alternativa alla nostra unità. La debolezza delle sovranità nel mondo globalizzato dei mercati non lascia, mi sembra, molte alternative all’unione. Ma sono propensa a pensare che non si tratti soltanto di necessità e convenienza, poiché l’unione di questo continente guerrafondaio ha nei fatti offerto una qualità della vita, una tranquillità di spirito direbbe Montesquieu, che ha reso grandi servigi a tutti noi.