Scritto da Lorenzo Benassi Roversi
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Pur fondandosi su intuizioni filosofiche provenienti dall’antichità classica, l’economia civile pone le proprie radici storiche nella cultura monacale e nella ripresa delle città medievali; la sua energia si esprime nel Rinascimento dei mercanti e degli artisti e contribuisce a dare forma a quello che è il periodo più creativo della nostra storia. In tempi recenti, ad aver dato fisionomia scientifica all’economia civile, riscoprendone le caratteristiche, è stato l’economista Stefano Zamagni che, insieme al collega Luigino Bruni, ha costruito un paradigma di sviluppo attuale, orientato al bene comune. È da questa prospettiva che Zamagni guarda alla ripartenza del Paese, superando il modello bipolare Stato-mercato e introducendo un terzo attore: la comunità. L’analisi del Professore volge poi al tema delle conoscenze e delle competenze, considerate centrali per costruire una ripresa effettiva: dalla riforma del sistema scolastico sulla base del principio della conazione, di matrice aristotelica, fino al longlife learning, necessario ad accompagnare i cambiamenti che l’introduzione dell’intelligenza artificiale determinerà nei processi produttivi.
Proponiamo questa intervista a Stefano Zamagni a cura di Lorenzo Benassi Roversi. Zamagni è Professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna in cui ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia. Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e Presidente della Commissione Scientifica di AICCON (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit). È tra gli ideatori delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile.
Ripartenza. Professore, incominciamo di qui. Da un lato, c’è chi teme un ruolo troppo invasivo dello Stato, che avrà una forte capacità di spesa e si propone di orientare l’economia. Dall’altro, c’è chi teme che si riparta da un sistema di mercato troppo simile a quello a cui si imputano le disuguaglianze che la pandemia ha reso più acute. Chi ha ragione?
Stefano Zamagni: È sbagliata l’impostazione. Fino a poco tempo fa, il modello di ordine sociale a cui si faceva riferimento, sia in sede accademica, sia in sede politica, era quello duale: Stato da una parte, mercato dall’altra. L’idea era che tutti i problemi della società potessero essere risolti ampliando la sfera dello Stato o ampliando quella del mercato. A seconda delle simpatie ideologiche c’era chi attribuiva al mercato la sfera d’intervento più grande e chi la attribuiva allo Stato. Di qui la distinzione tra statalisti e mercatisti. Si è andati avanti sulla base di questa visione, fino al termine del secolo scorso. Il modello di ordine sociale che ha incominciato ad affermarsi da un paio di decenni è tripolare: Stato, mercato e comunità. La parola “comunità” comprende tutti i soggetti che chiamiamo Terzo Settore e che la nostra Costituzione chiama “Corpi intermedi della Società”. Tali enti hanno una modalità d’azione che non è né privatistica, né pubblicistica, ma comunitaria, appunto. Se si rimane nello schema Stato-mercato si commette un errore prospettico e non si colgono le opportunità che il presente e ancor più il futuro ci offrono.
Cosa cambia se applichiamo lo schema tripolare? Qual è l’impatto del Terzo Settore?
Stefano Zamagni: Si viene affermando l’idea che società complesse come la nostra non possono essere regolate solo dal principio dello scambio, proprio del mercato, né solo dal principio del comando, tipico dello Stato. Sarà sempre più importante il principio di reciprocità, ossia il modus agendi della comunità. Dalla interazione di questi tre principi si forma una società armonica, capace di futuro.
In molte analisi in tema di ripartenza il Terzo Settore non sembra ricompreso.
Stefano Zamagni: Gli intellettuali nel nostro Paese sono rimasti all’antica, schierati sul fronte del mercato o sul quello dello Stato, senza capire che tali categorie oggi sono insufficienti. C’è un’arretratezza culturale preoccupante e la tendenza a ripetere gli schemi che già si conoscono senza sottoporli a critica. Qualcosa però si sta muovendo.
Cosa?
Stefano Zamagni: 2017, Codice del Terzo Settore: una svolta non da poco. Il problema è che non è stato attuato: mancano ancora i più rilevanti decreti attuativi da parte dei Governi. Ciò ha di fatto congelato la riforma, la quale però mantiene una portata rivoluzionaria perché supera il regime concessorio e afferma il principio del riconoscimento. Il regime concessorio era incorporato nel Codice Civile del ’42, di epoca fascista, e prevedeva che un ente di Terzo Settore per operare dovesse avere il placet dell’autorità pubblica. Oggi invece il potere pubblico è tenuto a riconoscere la presenza nella società civile di enti del Terzo Settore, i quali non hanno più bisogno di un permesso pubblico per iniziare ad operare, ma hanno diritto ad essere riconosciuti, fatto salvo il rispetto delle norme di legge.
Oltre a questo cambio di paradigma ci sono altre innovazioni da sottolineare?
Stefano Zamagni: La sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale: nell’erogazione dei servizi di welfare viene meno il rapporto di subordinazione funzionale degli enti del Terzo Settore nei confronti degli enti pubblici. Prima le organizzazioni della società civile venivano chiamate ad attuare le decisioni prese dai poteri pubblici, oggi il paradigma cambia. Il nuovo paradigma relazionale tra Terzo Settore ed enti pubblici prevede la co-programmazione, ossia la scelta comune delle priorità, e la co-progettazione, la messa a punto condivisa degli interventi concreti.
Il Terzo Settore lamenta una cronica mancanza di credito e la difficoltà a reperire risorse per dare forma ai progetti.
Stefano Zamagni: Esistono nuovi strumenti di finanza sociale. Mi riferisco al prestito sociale, che a giugno 2020 era arrivato a 635 milioni. È ancora poco se lo confrontiamo con i 6 miliardi di euro dell’Inghilterra e se pensiamo che esistono 350mila enti di Terzo Settore in Italia. Non è però una cifra insignificante ed è in continuo aumento. Poi ci sono i social bond (ancora in attesa di regolamentazione), le cosiddette obbligazioni sociali. L’ente che ha bisogno di denaro emette un’obbligazione. L’investimento è reso sicuro dalla garanzia pubblica ed è anche vantaggioso: agli interessi si applica una detrazione fiscale. Inoltre, va considerato l’elemento etico: chi investe contribuisce a un’iniziativa a impatto sociale positivo.
Una soluzione che mette insieme i tre poli del sistema: gli enti del Terzo Settore come motore dell’iniziativa, lo Stato nel ruolo di garante e il mercato attraverso gli investitori.
Stefano Zamagni: È un’opportunità che permette di conservare l’indipendenza. Finora questi enti dovevano chiedere al politico o al manager di turno ciò di cui avevano bisogno, rischiando di divenirne dipendenti e di perdere la propria autonomia. Man mano che le innovazioni della finanza sociale si diffonderanno questi schemi passeranno definitivamente. La direzione è questa. Il Terzo Settore acquisisce spazio e autonomia d’azione.
Durante la fase più acuta dell’emergenza pandemica, lei denunciava un errore da parte pubblica nel non coinvolgere il Terzo Settore nella risposta alle difficoltà.
Stefano Zamagni: È così. È stato ignorato il patrimonio di conoscenze, distribuite capillarmente sul territorio, che solo il Terzo Settore possiede. Intercettarle avrebbe permesso una reazione più efficace. Va infatti distinta la preparazione dalla prontezza. Mentre l’ente pubblico deve occuparsi della prima, è al Terzo Settore che ci si deve rivolgere se si vuole assicurare la seconda.
Guardando a Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la prospettiva assunta è quella giusta?
Stefano Zamagni: Il PNRR condiziona l’erogazione dei fondi alla disponibilità a operare congiuntamente con il Terzo Settore. Anche la politica in sede amministrativa cambierà radicalmente: la pubblica amministrazione sarà chiamata a un confronto sempre più frequente e costruttivo con le organizzazioni della società civile. Questo metodo permetterà di ottenere una più elevata capacità di progettazione, una risposta più puntuale alle esigenze dei territori. Ci vorrà però del tempo, qualche anno ancora, prima che si diffonda tale modello di governance.
Quale sarà l’impatto economico di una governance pubblica che si apre al Terzo Settore?
Stefano Zamagni: Le politiche pubbliche ne avranno benefici: si spenderà meglio e si spenderà meno. La burocrazia costa. La realizzazione degli interventi pubblici è stata finora affidata ad uffici burocratici, che hanno bisogno di molte risorse anche solo per acquisire la conoscenza necessaria a intervenire in modo efficace, senza contare le inefficienze. Gli enti del Terzo Settore hanno già questa conoscenza e possono metterla a disposizione, aiutando le amministrazioni. Come si fa a sapere se e in che misura in un quartiere esiste un certo problema? Gli uffici del Comune possono avviare uno studio costoso al termine del quale scegliere come agire. L’alternativa è partire dalle organizzazioni già attive in quel quartiere. È facile capire qual è la soluzione più immediata: non si tratta solo di un risparmio economico, ma di non sprecare tempo, risorsa fondamentale in fatto di efficacia delle politiche emergenziali.
Al PNRR e alle politiche di spesa dei prossimi anni è connesso il progetto di un grande piano di riforme. Complessivamente, si tratta dell’opportunità di risolvere alcuni dei nodi storici del nostro Paese. Quali riforme ritiene più importanti?
Stefano Zamagni: Ci sono riforme di due tipi: le riforme che costituiscono obblighi imprescindibili, come quelle riguardanti la transizione ecologica e tecnologica e le riforme sulle quali deve aprirsi un dibattito, come quelle riguardanti le politiche attive del lavoro. In Italia non ne abbiamo mai avute di efficaci. Abbiamo una norma sull’apprendistato, ma è inadeguata. Poi c’è il comparto scolastico e universitario. Sono in arrivo molti soldi, vanno usati bene. Si tratta di ripensare il modello educativo a partire dal superamento dell’alternanza scuola-lavoro.
Perché? Non si tratta comunque di un avvicinamento tra scuola e mondo produttivo?
Stefano Zamagni: C’è un errore di prospettiva. La scuola non può essere concepita come alternativa al lavoro. Non è solo una questione di parole. Bisogna parlare di convergenza scuola-lavoro. Il principio è quello della conazione. Il termine “conazione” risulta dalla crasi di due parole – conoscenza e azione – e fu formulato da Aristotele e applicato fino al 1700. Oggi va riscoperto. La conoscenza dev’essere finalizzata all’azione e l’azione non può essere esperita se non a partire da una base solida di conoscenza. Azione e conoscenza devono trovare ragione l’una nell’altra: conosco per agire e agisco perché conosco. Va dunque cambiato l’impatto delle politiche scolastiche e universitarie.
In che modo?
Stefano Zamagni: L’ultima riforma universitaria si è un po’ avvicinata a questo modello introducendo la cosiddetta “terza missione”, ossia la missione che si aggiunge a quella della ricerca e a quella dell’insegnamento e che consiste nel mettere il sapere a disposizione della società. È ancora troppo poco. Bisogna fare di più, a partire dalle scuole superiori, ove è ancora applicato il modello taylorista, trasferito dalla fabbrica alla scuola. Esso si basa sul principio di autorità, per il quale lo studente deve imparare quello che dice il professore, senza obiettare. In America, ad esempio, già da tempo si sono introdotte le cosiddette “classi rovesciate” dove gli studenti interrogano i professori. In Italia, finora il dibattito ha riguardato l’edilizia scolastica e gli strumenti digitali, cose importanti, certo, ma bisogna andare oltre e ripensare i modelli. La scuola deve tornare ad essere luogo di educazione ai valori costitutivi della società, e non solo luogo di istruzione e formazione. Abbiamo la Costituzione che è un ottimo strumento di educazione ai valori civici.
Torniamo agli interventi pubblici di riforma che lei ha definito “obbligati”: quelli relativi alla transizione ecologica e alla transizione digitale e tecnologica. Varie sono le preoccupazioni anche da parte sindacale sugli effetti di questi processi. Si teme uno spiazzamento del mercato del lavoro: posti di lavoro che vengono meno.
Stefano Zamagni: Le preoccupazioni sono fondate, e si possono comprendere alla luce della portata delle novità che attraversano il mercato del lavoro. A tale riguardo, bisogna capire la differenza tra automazione e intelligenza artificiale ai fini del loro impatto sull’attività lavorativa. Il sindacato si è finora preoccupato di limitare gli effetti negativi sul lavoro dell’automazione. L’introduzione dell’automazione tende ad eliminare le posizioni di basso profilo, poco qualificate. L’ingresso dell’intelligenza artificiale invece finirà per eliminare buona parte dei profili medi e anche alti. Al contempo, si espanderà la domanda di profili super qualificati. Per restare al passo coi tempi bisogna alzare il livello delle competenze e delle conoscenze. Chi arriva alla laurea specialistica può considerarsi preparato per qualche anno, ma deve continuare ad aggiornarsi per non perdere contatto con il mondo intorno a sé. Oggi l’esperienza di apprendimento non può mai arrestarsi, pena il rischio di essere sbalzati fuori dal mercato del lavoro. Il modello è quello del lifelong learning. Si tratta di ripensare le politiche attive per il lavoro, mettendo al centro un sistema diffuso di formazione continua di alta qualità.