“La conquista dei diritti” di Emanuele Felice
- 03 Giugno 2022

“La conquista dei diritti” di Emanuele Felice

Recensione a: Emanuele Felice, La conquista dei diritti. Un’idea della storia, il Mulino, Bologna 2022, pp. 368, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Venieri

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L’ultimo saggio di Emanuele Felice, economista e storico – professore ordinario di economia della cultura e dell’arte presso la IULM di Milano e impegnato nella vita pubblica –, intitolato La conquista dei diritti ed edito da il Mulino, si prefigge l’ambizioso obiettivo di delineare una storia delle maggiori correnti politico-ideologiche moderne (liberalismo, socialismo, ambientalismo) attraverso il prisma della categoria giuridica ed etica dei diritti. Il volume si presenta così in parziale continuità con una precedente opera dello stesso autore, Storia economica della felicità[1], altro saggio dall’ampio respiro che intendeva ricostruire l’evoluzione della storia materiale e ideale umana attraverso alcune rivoluzioni fondamentali, con l’intento di mostrare come il benessere materiale e la felicità immateriale siano correlate tra di loro – in maniera, però, non banale –. Se in Storia economica della felicità l’autore si concentrava maggiormente sulla dimensione etica, in quest’ultima opera avviene un salto definitivo – già in parte prefigurato – dalla sfera etica a quella politica; tramite la storia dei diritti umani si affronta così un discorso molto più vasto, che abbraccia il pensiero politico, l’etica, il diritto e l’economia in un impianto di ispirazione “harariana”.

Il volume si apre con un’intensa citazione tratta dal romanzo del britannico Herbert George Wells La macchina del tempo, del 1895. Wells, considerato uno dei grandi iniziatori del romanzo fantascientifico moderno, vi immagina un mondo alternativo in cui sia possibile muoversi nel tempo, esplorando così il futuro dell’umanità. In un’era caratterizzata culturalmente da un legittimo positivismo – solo in parte smussato da voci critiche come quella di Wells stesso o di Giacomo Leopardi, spesso citato nel corso del saggio – il futuro viene dipinto dall’autore come un solitario nulla, dimentico dell’umanità e della storia e percorso solo da specie elementari, simili a granchi, in attesa della definitiva distruzione del pianeta, destinato a essere inglobato dal Sole in espansione.

Un’opera di Wells di gran lunga più celebre (grazie alla famosa radiocronaca di Orson Welles del 1938), La guerra dei mondi, restituisce un’altra prospettiva, altrettanto relativizzante, del progresso umano. L’assunto immaginifico di fondo all’interno del racconto, la cosiddetta Wells’s Law, è che in una realtà parallela intelligenze superiori vivano su Marte «e noi esseri umani, le creature che abitano questa Terra, dobbiamo essere per loro alieni e inferiori quanto per noi lo sono scimmie e lemuri»[2]. I marziani approdano sulla Terra, con fare predatorio e mettendo in atto un genocidio su larga scala, ma d’altro canto i metodi distruttivi e brutali degli alieni non dovrebbero scatenare facili indignazioni: «Prima di giudicarli troppo severamente, dobbiamo ricordare quale spietata e completa distruzione la nostra specie ha compiuto, non solamente di animali, come lo scomparso bisonte e il dodo, ma delle stesse razze umane inferiori. I tasmaniani, nonostante le loro sembianze umane, furono completamente annientati in una guerra di sterminio sostenuta dagli immigrati europei per ben cinquant’anni. Siamo dunque apostoli di misericordia tali da lamentarci se i marziani combatterono con lo stesso spirito?»[3].

Per offrire al lettore una visione dell’opera più eterodossa, è significativo partire da questi richiami al grande scrittore britannico (che peraltro con il suo libello del 1940 The rights of man fu uno degli ispiratori della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948) e dalla terza sezione del libro, intitolata ambientalismo. Sorprendentemente, infatti, il terzo capitolo – che segue quelli su liberalismo e socialismo – non si apre con un inquadramento economico e umanistico dell’ambientalismo, ricollegandosi a dibattiti o criticità contemporanee rispetto alla transizione ecologica o a problematiche legate all’approvvigionamento energetico. Al contrario, con un interessante cambio di prospettiva e di metodo rispetto al resto del libro, l’autore si concentra all’inizio del capitolo su uno specifico aspetto dell’ambientalismo, ossia l’animalismo. Il tema viene affrontato da una prospettiva ontologica e storica originale, che propone una rappresentazione della storia umana come catena di infinite sofferenze perpetrate dall’uomo nei confronti degli altri esseri viventi (proprio quella cui accennava Wells). Questi ultimi dovrebbero invece essere riconosciuti definitivamente come portatori di diritti, e la storia – e preistoria – umana, riletta da questa angolatura, «interroga le fondamenta etiche della nostra società» (p. 259), in quanto il progresso umano è stato reso possibile da uno sfruttamento sistematico degli animali.

La chiave di lettura di Felice, come anticipato, non è utilitarista, ma problematizza il ruolo e il significato profondi dell’uomo all’interno del proprio ecosistema, da una duplice prospettiva biologica e morale. L’ambientalismo diventa pertanto un imperativo morale di cui l’uomo deve farsi carico, nella consapevolezza che è nelle sue possibilità un approccio all’esistenza che vede nell’ambito sociale e ambientale in senso esteso un fine legittimo e anzi necessario. Questo è ciò che l’autore intende come “fioritura” della vita umana, da intendersi come una libertà materiale, morale, sentimentale, intellettuale e politica che non può prescindere dalla propria dimensione pervasivamente collettiva e comunitaria.

Tuttavia, questo dovere del genere umano e dei singoli uomini, che vede nella diminuzione della sofferenza e nell’estensione dei diritti una direttrice di impegno, ha senso solo se inserito all’interno di una cornice storica, e di filosofia della storia, adeguata. All’inizio del volume, Felice pone a sé e ai propri lettori il quesito se la storia abbia un senso. L’autore replica che non vi è risposta certa, ma che non è tanto la risposta, quanto la domanda stessa ad essere fondamentale: se l’uomo, fra tutte le specie animali, può porsi questo dilemma e può pensare a questa possibilità, quella di una storia che abbia un fine e un senso, allora la presunzione che la risposta sia positiva deve tramutarsi in massima morale del nostro agire – Immanuel Kant è in assoluto uno degli autori che più compaiono nel libro e ne ispira vari passaggi.

La “ragionevole speranza” che la storia abbia un senso, e che la direzione sia progressiva e tenda ad un crescente miglioramento delle condizioni umane per un sempre maggiore numero di persone, viene supportata dal progressivo sviluppo ed estensione dei diritti nel corso della storia umana. Nel capitolo dedicato al liberalismo, infatti, attraverso una dettagliata e interessante storia di questo fondamentale filone del pensiero moderno, l’autore mostra come – pur in maniera travagliata – il liberalismo abbia portato alla realizzazione pratica un postulato di uguaglianza giuridica dei cittadini, considerati come portatori naturali di diritti politici e civili. L’autore propone la seguente definizione: «Il liberalismo è un’ideologia o anche solo un principio ideale, che interpreta la storia umana come storia della libertà. Questa concezione risale a Hegel che la tratteggia nelle Lezioni di filosofia della storia (1837)» (p. 62). Libertà di espressione, diritto ad un equo processo, tutela della proprietà privata, diritto di voto, si sono imposti nell’Europa del Settecento e Ottocento, andando ad investire porzioni sempre maggiori della popolazione del nostro continente (e di determinati Paesi al di fuori dell’Europa).

Felice individua alcuni pensatori “chiave” in questa traiettoria storica, andando a congiungere idee e momenti cruciali, identificando come evento cataclismatico la Rivoluzione francese (e, significativamente, l’autore citato in posizione incipitaria al capitolo dedicato al liberalismo è proprio Danton, uno dei personaggi di spicco della Rivoluzione francese). Tra gli autori menzionati viene dato ampio spazio al pensiero di John Stuart Mill, un liberale che nella propria parabola esistenziale ha ricalcato in piccolo quella che sarà l’evoluzione del pensiero liberale del primo Novecento, ponendo «le premesse per il superamento del liberalismo classico e l’avvento del “nuovo liberalismo”» (p. 153), il connubio tra pensiero democratico, socialista e liberale. Viene dato rilievo anche a voci solitamente minoritarie, primo fra tutti Giuseppe Mazzini, che è apprezzato per la modernità di alcune posizioni assunte nella propria azione politica: l’attenzione alla dinamica del capitalismo, che può essere rafforzato da una redistribuzione delle risorse, la difesa delle istituzioni democratiche e della proprietà privata, un’ottica europea di tipo federalista, l’attenzione al rapporto tra diritti e doveri (Dei doveri dell’uomo, 1860). Il lettore più informato troverà rimandi ai grandi classici del pensiero, ma riconoscerà anche autori molto più recenti, che vivificano l’impalcatura intellettuale del libro attualizzandola e collegandola a tesi e proposte del dibattito contemporaneo. Fra gli autori menzionati si trovano infatti Piketty, Mazzucato, Harari, Acemoglu, Stiglitz, Nussbaum, Sen.

Se il nucleo giuridico dei “diritti”, intesi come espressione o desiderio di “libertà” per i cittadini, è in nuce già presente nell’Atene periclea – ma ancora di più, probabilmente, nell’Atene di Clistene –, nonostante i limiti evidenti dovuti all’esclusione di stranieri, donne e schiavi, è solo la Rivoluzione francese, figlia della stagione illuminista, a rompere per la prima volta in maniera decisiva con una storia umana che fino a quel momento si era caratterizzata per un principio di esclusione – in altri tempi si sarebbe detto “classista” – e di differenziazione. Il pensiero liberale “deflagra” definitivamente in quell’occasione: le rivoluzioni precedenti, quella inglese (la prima che arrivò a tagliare la testa ad un re, nel 1649) e quella americana, nonostante la notevole carica di novità si configurarono sempre come delle rivolte – almeno nelle intenzioni dei promotori – restauratrici di un ordine turbato. Al contrario, il liberalismo tramite la Rivoluzione francese «decreta la fine del vecchio mondo, nel momento in cui proclama l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge» (p. 74).

Felice rintraccia inoltre in alcune frange rivoluzionarie – come quella promotrice della congiura degli eguali del 1796 sotto la guida di Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Augustin Darthé – una prima, concreta mobilitazione politica che poneva al centro delle proprie rivendicazioni una redistribuzione della proprietà privata. Certo, non erano mancate nel corso della storia esperienze di radicale ridistribuzione della proprietà, o progetti di riforma sociale: basti pensare ai tentativi di riforma dello Stato spartano nel III secolo a.C. sotto Agide IV e Cleomene III, o ancora all’esperienza dei dolciniani, alla rivolta dei contadini tedeschi del Cinquecento o al movimento dei diggers nell’Inghilterra del Seicento. Ma è solo con la Rivoluzione francese che una rivendicazione socialista trova una tale articolazione politica e programmatica, sostenuta da presupposti teorici forti – prima fra tutte, l’opera di Jean-Jacques Rousseau. L’autore mostra come rivendicazioni liberali e socialiste percorrano assieme, sviluppandosi in maniera non reciprocamente escludente, la prima parte del XIX secolo. Solo nel 1848 le traiettorie liberale e socialista giungeranno ad una distinzione netta – di azione politica ancor prima che di pensiero –, per poi arrivare ad uno scontro aperto con l’esperienza della Comune del 1871, la cui repressione da parte dell’esercito francese mieterà più vittime in 7 giorni, durante la cosiddetta Settimana di sangue dal 21 al 28 maggio 1871, di quanto fatto dal Terrore giacobino nell’arco di due anni (1793-94).

Liberalismo, socialismo e ambientalismo vengono interpretati come linee di pensiero che si sono evolute da un’unica matrice comune, il pensiero umanistico e illuminista del Settecento europeo, e che hanno attribuito a turno un peso relativo maggiore a diverse categorie di diritti: quelli politici e civili di prima generazione, il liberalismo, quelli sociali e civili di seconda generazione, il socialismo democratico, quelli ambientali, per l’appunto l’ambientalismo. Queste categorie di diritti devono essere però considerate come concatenate tra loro, storicamente e anche logicamente. Il libero esercizio dei diritti politici e civili è effettivo solamente attraverso una parità o almeno una comparabilità di opportunità, che può derivare unicamente da un livello di disuguaglianze materiali contenuto: da qui la necessità di accompagnare ai diritti civili e politici anche i diritti sociali (correttamente vengono menzionati Amartya Sen[4] e Martha Nussbaum[5] e le loro teorie sulle capabilities), come avvenuto con successo nel secondo dopoguerra, durante i cosiddetti “trenta gloriosi”. Allo stesso tempo, tutte queste famiglie di diritti possono avere un senso solamente se l’ambiente in cui il genere umano è inserito viene tutelato e ha possibilità di sostenere un livello di risorse adeguato sul lungo periodo.

Lo scollegamento tra le diverse categorie di diritti conduce a delle storture, o paradossi. Da un lato le tesi neoliberali, inclini a dare la precedenza alla difesa della proprietà sugli altri diritti politici e civili e su quelli sociali (e le simpatie di determinati esponenti del neoliberismo come Hayek e Friedman per regimi autoritari ne è la prova lampante). A tutt’oggi il capitalismo, se non è in grado di coniugarsi con un forte riconoscimento dei diritti sociali, può condurre a miseria, emarginazione e morte su larga scala[6]. Dall’altro lato, i regimi del socialismo reale, inclini a tutelare – almeno in sede di principio – i diritti sociali, cancellano però ogni riferimento a quelli politici e conducono quasi sempre a forme di repressione su larga scala. Infine, entrambe le ideologie, liberale e socialista, a propria volta sono svuotate di senso nel momento in cui compromettono in maniera irreparabile il nostro ecosistema, non tenendo in conto le istanze dell’ambientalismo. Queste degenerazioni non sono solo una lezione della storia da tenere presente, ma anche – e soprattutto – tristi notizie di cronaca. Non può passare sotto traccia il regime di Xi Jinping in Cina, che dopo decenni di progressiva apertura sta rapidamente avviandosi per una fase repressiva e autoritaria che la Cina non conosceva dagli anni Settanta[7]. Oppure si pensi al regime di Vladimir Putin in Russia, che da anni ha ormai deciso di avviarsi verso un capitalismo – a tratti turbo-capitalismo: la presenza della flat tax, uno delle policy più amate nei circoli neoliberali, è sintomatica – dai contorni anti-liberali e anti-democratici. All’interno della stessa Unione Europea, poi, vi sono tentativi espliciti di isolare determinate categorie di diritti da altre: in Ungheria, Orbán è stato il più convinto sostenitore di un modello di democrazia illiberale, con l’obiettivo di sganciare i diritti civili da quelli politici.

L’unica soluzione possibile, secondo Felice, è riconoscere il carattere olistico dei diritti, che esplicano la propria vera essenza nel riconoscimento della natura “relazionale” degli uomini, l’unica che a sua volta è in grado di dare senso alla storia. Arrivati a questo punto della vicenda umana, di fronte all’imminente catastrofe ambientale «capiamo che i diritti sono di tutti, di ogni specie dotata di sentimento e ragione. Della natura stessa. E che i diritti così diventano doveri: i doveri che abbiamo verso gli altri. I doveri per coloro che vengono dopo di noi. Il liberalismo e il socialismo, anche insieme, non bastano più, non basta più il vecchio umanesimo, antropocentrico, di fronte all’avanzare della peste. L’ambientalismo è la terza dimensione, che completa, e può salvare, le prime due» (p. 351). La posizione di Felice non è pertanto improntata alla nostalgia, sic et simpliciter, per l’epoca dei “trenta gloriosi”, quel periodo tra gli anni Quaranta e Settanta in cui liberalismo e socialismo democratico cooperarono per portare un’ondata di benessere e stabilità ai Paesi più avanzati del pianeta, l’epoca del liberalismo inclusivo il cui ritorno viene auspicato da più parti[8]. È invece una posizione che va oltre il materialismo e l’antropocentrismo, che complica il quadro delle relazioni di forza esistenti e delle retoriche alla moda, per accettare la sfida del “principio speranza”. Solo così l’umanità, finalmente “fiorita” e riconciliata con la natura che la rende possibile, può stagliarsi sull’enigma della vita, descritta nel capitolo conclusivo dall’autore tramite le parole di uno dei massimi scrittori del Novecento, Albert Camus, che ne Il mito di Sisifo tratteggia l’esistenza umana come assurda incomprensibilità. Tornando proprio alla domanda insoluta dell’inizio, l’assurdità della vita e della storia vale tanto quanto le domande stesse che suscita nell’uomo, interrogativi che assumono senso come azione politica, in un impegno che nell’inclusione ed estensione delle varie categorie di diritti è anche promozione materiale e morale della dignità umana e del nostro ambiente.

In tal modo, citando di nuovo l’autore francese, «al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore. I nostri fratelli respirano sotto il nostro stesso cielo, la giustizia è viva. Allora nasce la gioia strana che aiuta a vivere e a morire e che rifiuteremo ormai di rimandare a più tardi. Sulla terra dolorante, essa è la gramigna instancabile, l’amaro nutrimento, il vento duro venuto dai mari, l’antica e nuova aurora. Con lei, rifaremo l’anima di questo tempo e un’Europa che, essa, non escluderà nulla»[9].


[1] Emanuele Felice, Storia economica della felicità, il Mulino, Bologna 2017.

[2] H. G. Wells, La guerra dei mondi, Newton Compton Editori, Roma 2017, pag. 15.

[3] H. G. Wells, La guerra dei mondi, op. cit., Ibidem.

[4] Amartya K. Sen, Commodities and capabilities, North Holland, Amsterdam 1985.

[5] Martha C. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, il Mulino, Bologna 2012 / 2014.

[6] Anne Case e Angus Deaton, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, il Mulino, Bologna 2021.

[7] Michelangelo Cocco, Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale, Carocci Editore, Roma 2020.

[8] Norberto Dilmore e Michele Salvati, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Feltrinelli, Milano 2021.

[9] Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2002, p. 315.

Scritto da
Alessandro Venieri

Nato nel 1992 in Ancona, ma residente da sempre a San Benedetto del Tronto, ha conseguito una laurea triennale in storia all’Università di Bologna con una tesi sul tardo-antico. In seguito, ha ottenuto il doppio titolo magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna (campus di Forlì) e in Public Policy alla Higher School of Economics di Mosca. Dopo aver studiato alla London School of Economics (MSc in International Political Economy) ha conseguito un Advanced Diploma in Economics e un MPhil in Economic and Social History all’Università di Cambridge. Al momento lavora all’ESMA (European Securities and Markets Authority), mentre in passato ha svolto tirocini presso l’Ambasciata d’Italia a Stoccolma, l’Institute of International Monetary Research e lo European University Institute.

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