La crisi del modello just in time: verso nuovi paradigmi?
- 10 Gennaio 2022

La crisi del modello just in time: verso nuovi paradigmi?

Scritto da Luca Picotti

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Concepito già intorno agli anni Cinquanta negli stabilimenti della Toyota, ma sviluppatosi poi in maniera consistente solo a partire dagli anni Settanta in occasione della crisi del sistema fordista, il modello giapponese del just in time si è presto diffuso in tutti i Paesi industrializzati, plasmando i processi produttivi del commercio globale. “Appena in tempo” è la traduzione letterale. Indica l’obiettivo principale di coordinare la produzione alla domanda, nell’ottica di un sistema sincronizzato che preveda un continuo flusso di ordini e consegne. Non ci si concentra più su grandi produzioni in serie, ampie scorte di magazzino e prelievi di merci in grosse quantità ma frazionati nel tempo. Il sistema diventa più snello, attraverso l’eliminazione di tutto quanto possa essere ritenuto superfluo all’interno del ciclo produttivo: ad esempio, i costi di magazzino per la conservazione delle scorte (materie prime, semilavorati o prodotti finiti). Il flusso viene gestito da diversi contratti di trasporto ravvicinati nel tempo, con carichi minori e rispondenti alla domanda. La maggiore rapidità delle consegne comporta inoltre il ricorso a operatori specializzati nella gestione logistica delle catene – una evoluzione dei tradizionali spedizionieri o magazzinieri – con la peculiarità che l’insieme delle prestazioni offerte può andare dalla raccolta degli ordinativi allo stoccaggio, dall’imballaggio alla predisposizione dei documenti fino alla consegna finale. Ai maggiori costi logistici e di trasporto si contrappone un risparmio in termini di magazzino e personale tale da rendere il modello economicamente conveniente, oltre che adatto ai caratteri propri della globalizzazione, quali i processi di outsourcing, delocalizzazione, allungamento delle catene del valore.

Il modello just in time per funzionare necessita dunque di trasporti efficienti, flussi informativi e tecnologie avanzate per la gestione delle operazioni logistiche (ad esempio, per raccogliere le consegne), un panorama favorevole al libero commercio con condizioni generali di contratto riconosciute a livello internazionale (si pensi agli Incoterms), nonché un rapporto di stretta sincronizzazione con i fornitori. Rispettate queste condizioni, il sistema permette agli operatori di abbattere i costi e garantire una produzione continua legata alla domanda. Tant’è che alcune imprese erano solite affermare, sulla scia del successo di questo modello, che “i nostri magazzini sono le strade”.

Affermazione che suona quasi ironica oggi, ove il trasporto su strada (o magazzino in movimento, per riprendere la citazione) soffre della carenza di autotrasportatori, nell’ordine di circa 100.000 nel Regno Unito, 80.000 in Germania e 800.000 nell’Unione Europea. La pandemia ha poi provocato una brusca interruzione delle catene logistiche, cui è seguito un disallineamento tra la ripresa della domanda e la lenta reattività dell’offerta. Il modello just in time è così entrato profondamente in crisi: l’assenza o scarsità di scorte di magazzino ha pesato sia nella fase iniziale della pandemia di fronte alla richiesta di dispositivi medici che nei mesi seguenti per quanto riguarda i microchip necessari alle case automobilistiche e alle imprese digitali. Il flusso continuo di ordini e consegne è saltato per le quarantene nei terminal cinesi, la scarsità di manodopera, la congestione nei porti nordamericani (a Los Angeles ancora oggi le navi sono costrette ad una attesa media di circa 11 giorni al largo prima di scaricare). L’incaglio della Ever Given nel Canale di Suez nel marzo del 2021 ha poi contribuito ad aggravare la situazione. Di conseguenza, si sono registrati notevoli ritardi nelle consegne, nonché un generale aumento dei costi di trasporto – a titolo d’esempio, tra aprile 2020 e aprile 2021 l’indice SCFI sui noli nella tratta East-West è aumentato del 264%. L’impegno di Biden per mantenere attivi gli scali 24 ore su 24, la difficoltà che ha avuto Draghi nella trattativa con i portuali di Trieste (era da tanto tempo che i lavoratori non disponevano di un simile potere contrattuale) e le preoccupazioni dei distributori per i regali di Natale sono tutti elementi indicativi di come il tema delle catene logistiche sia cruciale per la ripresa economica.

Il modello just in time ha mostrato tutta la sua fragilità di fronte agli shock sistemici. La maggiore efficienza dettata da catene del valore estese e una complessa organizzazione logistica si accompagna ad una intrinseca vulnerabilità. Le tensioni geopolitiche fanno il resto: lo scontro tra Stati Uniti e Cina crea pressioni sempre maggiori sugli alleati occidentali affinché compiano una scelta di campo più decisa; le normative di protezione nei confronti degli investimenti esteri sono andate rafforzandosi in tutti i Paesi, a partire dall’Italia con il golden power; il Mar cinese meridionale, vicino in maniera inquietante allo snodo strategico dello Stretto di Malacca, è zona di grande instabilità; le incognite della transizione energetica prefigurano nuovi sistemi di alleanze. In sostanza, il panorama internazionale si è raggelato, cosa che rischia di pregiudicare la sicurezza delle principali rotte commerciali.

Non a caso si sente parlare sempre più spesso di reshoring e regionalizzazione delle catene del valore. Meno affrontato è il tema del just in time: in questo contesto è chiaro che non può funzionare. Difatti, in alcuni settori si è tornati ad utilizzare il precedente modello del just in case, per cui si produce in anticipo uno stock di magazzino in modo da poter far fronte a eventuali improvvisi rialzi della domanda. Il trauma della scarsità di materiali vissuto dagli operatori del settore nell’ultimo anno e mezzo sicuramente condurrà verso una maggiore attenzione alle scorte, oltre che alla prevenzione dal rischio di shock sistemici. Motivo per cui non ci sarebbe da stupirsi se le imprese dovessero, a costo di perderci un po’ in termini di efficienza, investire maggiormente sulla solidità. Fenomeno che sarà strettamente connesso ai tentativi di reshoring; in ambedue i casi, il soddisfacimento del consumatore potrebbe essere in parte sacrificato, con meno beni a disposizione e prezzi leggermente più alti. Ricordiamo poi che a queste tendenze si aggiunge anche la tematica del climate change, per cui non è così improbabile che le grandi reti di trasporto e le catene del valore eccessivamente dilatate comincino a finire sotto il mirino di un’opinione pubblica sempre più sensibile ad una riduzione generale delle distanze in nome della sostenibilità. Tutto questo impatterà notevolmente sul commercio internazionale.

Se è prematuro dare per morto il modello just in time, così come pensare che le catene del valore verranno drasticamente accorciate (ci sono gli interessi in parte contrapposti dei consumatori e di alcune imprese), quanto potrebbe invece delinearsi nel medio periodo è un sistema a doppio livello: per i settori strategici, reshoring ove possibile, sostanziale abbandono del just in time e regionalizzazione della supply chain (ad esempio, con un rafforzamento dell’asse europeo o atlantico); per gli altri beni, probabilmente una volta terminata la crisi il commercio continuerà a mantenere forme più o meno simili, certamente con una maggiore attenzione verso la resilienza o la sostenibilità, senza però sacrificare eccessivamente l’efficienza.

L’Italia è un Paese che dipende dall’estero per le materie prime e presenta un’economia di trasformazione ed export dei beni precedentemente importati. Rotte sicure e catene di approvvigionamento funzionanti sono quindi necessarie per il sistema-paese. In questo senso, di fronte ad una fase così delicata, l’auspicio è che non si perda l’occasione di investire sulle infrastrutture (porti, strade, ferrovie) e sui settori maggiormente strategici, nonché di definire un sistema di alleanze che meglio rispecchi gli interessi nazionali, nell’ottica di ritagliarsi un ruolo importante all’interno delle (nuove?) value chain che andranno formandosi.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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