Recensione a: Alberto Mario Banti, La democrazia dei followers. Neoliberismo e cultura di massa, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 136, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
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La pandemia di Covid-19 è stata rumorosamente accompagnata, fin dal suo primo emergere, dal logorante mantra «niente sarà più come prima». Nell’ambito delle scienze umane e sociali, questo ha prodotto una moltitudine di analisi frettolose e proclami che hanno offerto letture semplificate e macchiettistiche di problematiche di lungo periodo (dal mutamento climatico alla rivoluzione digitale) o di stretta attualità. In molti casi, si potrebbe parlare di un’occasione persa: il tempo riflessivo offerto dalla pandemia avrebbe potuto aprire spazi inediti di discussione, per mettere a frutto prospettive più complesse, inevitabilmente strutturate e stratificate. La complessità del nostro presente ci pone come obbligo quello di rifiutare il “fast food” del pensiero, per ritrovare un tempo giusto della ricerca.
È in questa direzione che va l’ultimo saggio di Alberto Mario Banti, La democrazia dei followers, appena edito per Laterza. Lo storico, uno dei più innovativi interpreti del nostro Risorgimento, ci presenta un libro diretto, essenziale, ma mai banale. Semplice senza essere semplicistico, il volume è innanzitutto un esempio efficace di come si possa svolgere la comunicazione scientifica in modo che questa sia accessibile ad un pubblico vasto. I riferimenti e le note sono ridotti all’osso, senza perdere però la ricchezza di un’indagine che trae nutrimento dalle precedenti ricerche di Banti.
Come siamo arrivati qui? Da questa domanda iniziale si dipana il percorso disegnato dallo studioso. Il qui è l’hic et nunc dell’Italia e del mondo che, investiti da un fenomeno di portata epocale, scoprono quanto profonde sono le radici di problemi che appaiono ora drammaticamente tangibili: il culto indiscriminato della produttività e del successo, la svalutazione nel discorso pubblico dei saperi scientifici e della competenza specialistica, l’impoverimento dei sistemi di sanità, educazione, assistenza. Da storico, più che analizzare l’oggi Banti cerca di rintracciare i fili di questa intricata matassa. E subito emerge come fondamentale un anno: 1979, l’ascesa al potere di Margaret Thatcher. Da quel momento in poi il neoliberismo è divenuto il pensiero unico che ha dominato le politiche economiche di pressoché tutti i governi dei Paesi occidentali: drastica riduzione della pressione fiscale, taglio radicale alla spesa pubblica, «culto mistico del “mercato autoregolato”», deregulation (pp. 3-4). Tutto ciò si è intrecciato in modo deleterio con gli sviluppi della globalizzazione, aprendo una nuova era di disuguaglianze crescenti.
Ma l’operazione, politica e di pensiero, è stata ben più articolata. Come ricorda Banti, una delle più note affermazioni della Thatcher è «la società non esiste». Dietro la palese menzogna, si nascondeva un preciso intento programmatico: la società non deve esistere, «non deve esistere la socialità, la cooperazione, l’identità collettiva» (p. 47). I maggiori artefici del neoliberismo hanno proceduto, oltre che a dettare la linea politico-economica mondiale, ad una naturalizzazione delle loro posizioni ideologiche, presentate come realtà dei fatti. Questo spiega anche perché partiti così rumorosamente anti-globalizzazione, dalla Lega al Rassemblement national a Vox, si siano potuti mantenere così ostinatamente «silenti per quanto riguarda gli effetti sociali prodotti dal neoliberismo. […] Considerando le disuguaglianze alla stregua di un’inevitabile realtà naturale […] i neo-nazionalisti incorporano senza alcun problema le politiche neoliberiste nei loro programmi di governo» (p. 20).
Che i partiti post-comunisti abbiano seguito la stessa strada, rifiutando pervicacemente di mettere in atto piani ampi di riforma fiscale e redistributiva, appare forse più sorprendente. Banti indica le ragioni di ciò da un lato nel goffo tentativo di purificarsi dal «“peccato originale” della militanza comunista» abbracciando in toto il nuovo ordine ideale ed economico, dall’altro nel fatto che molti politici e partiti si sono trovati nella necessità di «finanziare la propria carriera», stringendo vincoli sempre più stretti con i propri sovvenzionatori (pp. 21-23).
Accanto a questo processo, Banti ne ricostruisce un altro: la recente emersione dei neo-nazionalismi in quasi ogni Paese del mondo occidentale. Qui lo storico mette a frutto la sua lunga esperienza di analisi dei discorsi ideali, evidenziando come in questi fenomeni sia rintracciabile la persistenza di quelle stesse figure profonde che caratterizzarono il discorso nazionalista tra Ottocento e primo Novecento: parentela, con l’enfatizzazione della nazione come comunità genealogica e di sangue; sacrificio; onore[1]. A ciò si aggiungono, in conformità coi tempi, uno sfrontato razzismo, coerente d’altronde con i principi del nazionalismo, e la «polemica permanente contro le istituzioni o le associazioni sovranazionali» (p. 35).
Dopo il 1945, macchiatosi del delitto di due guerre mondiali e svariati regimi totalitari, il discorso nazionalista era stato messo da parte, per ripresentarsi solo nelle forme soft del nazionalismo banale (quello sportivo, ad esempio). Per quanto riguarda l’Italia, osserva Banti, a fine anni Novanta, di fronte alla spinta secessionista della Lega Nord, si ebbe un cambio di passo: il Presidente della Repubblica Ciampi si fece promotore di un neo-patriottismo che ha però attinto alle stesse immagini ideali del «nazionalismo italiano classico, come si era sviluppato dal Risorgimento al fascismo» (p. 39)[2]. Questo neo-nazionalismo ha raggiunto il suo apice durante le celebrazioni del 150° dell’Unità, mettendo in evidenza come anche rappresentanti di culture politiche tradizionalmente internazionaliste abbiano abbracciato una narrazione che li ha avvicinati pericolosamente ai rappresentanti della destra. È stato così agevole per Matteo Salvini, divenuto nel 2013 segretario della Lega Nord, recuperare quelle immagini nazionaliste rilegittimate dal centro-sinistra, declinandole secondo la sua personale visione.
Sempre nell’ambito del neo-patriottismo, Banti sottolinea la preoccupante «virata pop del discorso pubblico», che ha contribuito a delegittimare i saperi scientifici e specialistici, spalancando la strada «all’ideologia dell’ “uno vale uno”» (pp. 41-42). Nel seguire il filo della ricostruzione storica, lo studioso formula dunque anche un indiretto atto di accusa alle forze del centro-sinistra, in particolare italiane, incapaci di presentare un discorso ideale e politico in grado di fornire una risposta da un lato a una disuguaglianza sociale ed economica sempre più drammatica, dall’altro agli scomposti sussulti neo-nazionalisti.
Ma com’è stato possibile assistere a queste trasformazioni senza «reazioni apprezzabili da parte delle opinioni pubbliche», se non con movimenti episodici e volatili? All’origine di ciò è da individuare innanzitutto una «deliberata strategia di comunicazione messa in atto dalle principali agenzie informative». Queste tendono, scrive Banti, a presentare il tema «dell’aumento delle disuguaglianze […] in modo assolutamente decontestualizzato, come se si trattasse dell’ennesima calamità naturale», senza mai esplicitare il diretto rapporto causale con le politiche neoliberiste (p. 46).
Ma questo aspetto rientra in una più generale interiorizzazione dei «principi fondamentali della società neoliberista, che nasce da un processo molecolare, quasi indefinibile, […] una nuova microfisica del potere comunicativo» (pp. 46-47). Pochissime corporation (come la AT&T o la Disney Company) detengono il controllo pressoché assoluto dell’industria dell’intrattenimento e dell’informazione: le loro produzioni sono così in grado di incidere su scala planetaria sugli immaginari collettivi. In che direzione? Banti presenta qui sinteticamente lo sviluppo della cultura di massa occidentale dell’ultimo secolo[3], evidenziando le caratteristiche del mainstream contemporaneo, tanto quello filmico che quello seriale. Archiviata la breve stagione della controcultura, relegata a una nicchia di consumo, le «proposte narrative» attuali «chiedono agli spettatori e alle spettatrici di sottoscrivere un patto narrativo altamente regressivo, nel senso di altamente infantilizzante» (p. 75). Attraverso una lettura attenta delle produzioni degli ultimi decenni, Banti ne ricostruisce i tratti principali (l’obbligo del lieto fine, la moralità manichea, l’«improbabile glamourizzazione del contesto sociale», etc.) che danno corpo ad un «immaginario veramente totalitario», fondato sulla sospensione permanente e automatica dell’incredulità, o meglio «di ogni spirito critico»; ciò fa sì che, «rispetto agli eroi e alle eroine dei film, ci si ponga come figli/figlie nei confronti di buoni padri, o buone madri» (p. 75-77). Un panorama desolante, spietatamente ricostruito dallo storico, da cui scompaiono il tragico, l’inaspettato, la morte. È questo un elemento particolarmente interessante e che meriterebbe ulteriori approfondimenti: «credo che la nostra sia la prima società» – scrive Banti – «che, pur essendo perfettamente consapevole del dolore e della morte, com’è ovvio che sia, nondimeno tenacemente li sposti ai margini del suo immaginario» (p. 84). E immaginare un percorso trasformativo, politico o esistenziale, diventa forse più difficile se si aderisce a tali fantasticherie immortaliste.
Il discorso può apparire semplicistico, ma è in realtà estremamente puntuale, perché si basa sull’analisi di quelle che sono, globalmente, le produzioni culturali più pervasive e diffuse (in particolare film e serie tv). Non si tratta di tracciare un rapporto diretto di causa-effetto, la creatività umana è sempre pronta a svolte e picchi inaspettati, ma di riconoscere che questi sono gli immaginari che nutrono la gran parte del pianeta, con quanto ne può conseguire in termini di interiorizzazione di un mondo ideale che fa della passività il suo cardine.
Come potrà dialogare questo immaginario con il «bellicismo sacrificale» dei «leader neo-nazionalisti» è una domanda che lo storico lascia aperta (p. 92). Quello che è certo, è che l’impreparazione in cui ci ha colto la pandemia ha alla base, secondo Banti, una complessa rete di ragioni economiche, sociali, politiche e culturali: l’interiorizzazione del modello umano proposto dal neoliberismo (con il culto della performance e della produzione), i concretissimi danni che questo ha portato alle strutture di welfare e assistenza, lo «stato di passività» incoraggiato dalla cultura di massa, che ha «attenua[to] la capacità di reazione collettiva» (pp. 96-97). In una «democrazia di followers», come la definisce l’autore, dominano «opinioni pubbliche fragili, incapaci di formulare autonomamente un pensiero critico; incapaci di riconoscere cause ed effetti nel disastro sociale prodotto dal neoliberismo; indotte a recitare bovinamente il mantra “There Is No Alternative”» (ivi).
In questo libro fortemente politico, Banti lancia un lancinante grido di allarme rispetto alla crescente perdita di capacità di reazione collettiva. Non offre soluzioni ma prova a illuminarne le ragioni, attraverso un’esplorazione del recente passato a tratti provocatoria, ma convincente e improntata ad una larga e salutare interdisciplinarietà. Un invito a un pensiero critico denso, problematico, necessariamente lungo, alla ricerca di un nuovo immaginario.
[1] Su questi temi, si veda anche: A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
[2] Si veda: Id., Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011.
[3] Per una trattazione più ampia, vedi: Id., Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Laterza, Roma-Bari 2017.