La democrazia fra volontà del popolo e verità della scienza
- 23 Dicembre 2022

La democrazia fra volontà del popolo e verità della scienza

Scritto da Pierpaolo Cesaroni

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Negli ultimi due anni i governi di tutto il mondo sono stati chiamati a fronteggiare una emergenza sanitaria eccezionale, per contrastare la quale si sono rivolti alle competenze acquisite dalla epidemiologia. Il ricorso, per esempio, a misure di restrizione alla libera circolazione si è fondato su precisi indici statistici, che hanno consentito di ipotizzare gli effetti a breve e lungo termine di tali provvedimenti e quindi anche di modularli in base alle diverse esigenze. Una conseguenza di tale impostazione è stata la evidente uniformità delle forme di contrasto della pandemia applicate dagli Stati. Anche quando alcune nazioni hanno imboccato una strada diversa, le scelte sono state comunque basate su valutazioni alternative del sapere epidemiologico, il quale, come ogni sapere, non è affatto un blocco unitario e coeso. In altri casi ancora, alcuni Stati hanno preferito lasciare meno spazio, nella determinazione delle proprie politiche di contenimento, al ricorso al parere esperto degli scienziati. È da notare, però, che anche in questi casi-limite i governi oscillavano fra una difesa dell’autonomia decisionale della politica e il richiamo a pretesi saperi alternativi.

L’idea che la scienza possa o debba orientare la decisione politica è emersa prepotentemente in occasione della pandemia, ma può essere rintracciata facilmente in altri contesti. Per esempio, la consapevolezza dell’emergenza climatica dovuta all’azione antropica, che i governi sono (o dovrebbero essere) chiamati ad affrontare, deriva dal lavoro decennale condotto dalla climatologia e dalle scienze della Terra. Anche in questo caso, le posizioni critiche o scettiche nei confronti di decisioni orientate scientificamente oscillano fra la denuncia di una perdita di autonomia della politica (o del suo sacrificarsi a interessi di parte mascherati) e il richiamo a supposte teorie scientifiche alternative che, se seguite, indirizzerebbero in un tutt’altro modo l’agenda dei governi. Ciò che in questa oscillazione è da rilevare, al di là della evidente contraddittorietà insita nel valorizzare l’autorevolezza di pochissimi sedicenti esperti “non allineati” proprio mentre la si nega alla totalità della comunità scientifica, è il fatto che anche tali posizioni si sentano in fondo costrette a riconoscere la necessità di un qualche richiamo al sapere.

L’incrocio fra piano politico e piano della scienza può apparire ovvio: se la società deve decidere sul proprio destino, è naturale che ricorra agli strumenti conoscitivi di cui si è dotata proprio al fine – tra l’altro – di padroneggiare l’ambiente entro il quale vive. Tuttavia, non è necessario uno sguardo particolarmente attento per cogliere un problema. Le società democratiche, infatti, riposano su una concezione precisa della decisione politica: essa deve coincidere con la volontà del popolo e con le procedure che la producono (in primis quelle elettorali). Ora, fondare la decisione sulla conoscenza significa sostituire alla volontà del popolo i risultati acquisiti dalla scienza, per la quale è del tutto ininfluente ciò che il popolo vuole. Sorge allora un quesito angoscioso: i governi delle società democratiche sono chiamati a prendere decisioni aderenti alla volontà popolare o alla verità scientifica?

Questo dilemma apparentemente irrisolvibile occupa oggi buona parte della teoria politica. Essa ha prodotto diversi modelli la cui ambizione è di affrontare e forse anche di risolvere la questione. In alcuni casi si è cercato di argomentare che la contraddizione è solo apparente, poiché, in condizioni ideali, la volontà del popolo non può che coincidere con la volontà migliore, quindi con quella vera (è la cosiddetta “democrazia epistemica”). In altri casi, invece, sono state proposte nuove procedure di legittimazione in grado di produrre forzosamente l’identificazione dei due lati (volontà e verità), per esempio attraverso la rimodulazione del diritto di voto (la cosiddetta “epistocrazia”), o, più radicalmente ancora, si è auspicato un abbandono delle forme di legittimazione democratica in favore di una fondazione puramente scientifica della decisione[1].

Si tratta di elaborazioni utili nel contribuire a circoscrivere il problema. Tuttavia, l’intero dibattito sembra, almeno a chi scrive, gravato da due problemi di fondo. Il primo concerne una questione che rischia di far precipitare l’intera discussione in un circolo vizioso: è possibile affidarsi alla scienza (politica) per risolvere il problema del rapporto fra scienza e politica? L’unico modo per evitare tale evidente cortocircuito consiste nel determinare la differenza epistemologica fra il sapere implicato nella decisione politica e il sapere che è chiamato a concepire tale implicazione. Si rende cioè necessaria una riflessione sullo statuto della scienza politica e sulla sua diversità da quelli che potremmo chiamare “saperi di governo”. È questo, dunque, il problema più urgente.

Proprio in relazione a tale questione, tuttavia, la scienza politica sembra scontare un grave ritardo. Essa si divide fra una descrizione empirica dei processi reali, molto zelante nel non far intervenire alcun elemento che trascenderebbe il dato, e una produzione normativa di modelli ideali sostanzialmente indifferenti alla realtà empirica. In questa separazione ciò che rischia di non emergere affatto è proprio la dimensione propriamente epistemica dell’indagine. Come dimostrano le scienze più solidamente fondate, la pratica scientifica non è riducibile né alla sola indagine empirica, né alla sola produzione di modelli; piuttosto, essa si impegna a interrogare i fenomeni e le loro contraddizioni al fine di comprenderli rigorosamente mediante la produzione concettuale. Se la teoria politica si dedica all’elaborazione di modelli normativi astratti, incapaci cioè di spiegare i motivi strutturali del loro discostarsi dalla realtà che pure dovrebbero comprendere, relegando tale scostamento a evenienze puramente contingenti (per esempio la scarsa educazione civica degli elettori), essa ha chiaramente fallito nella sua missione.

Il primo problema riguarda, dunque, l’insufficienza di una riflessione sullo statuto della scienza politica. A esso si collega il secondo, concernente la scarsa consapevolezza storica che è propria del dibattito. Le istituzioni politiche non sono eterne: sono prodotti storici, derivanti dall’imporsi di modi specifici, che si trasformano nel tempo in relazione al mutare delle condizioni sociali, di articolare la politica e le sue dinamiche proprie. Una comprensione dei problemi delle odierne società democratiche non può quindi prescindere da una ricostruzione rigorosa della genesi storica della logica che soggiace alle istituzioni di cui esse si dotano. Questo breve intervento non si pone, ovviamente, il compito arduo di affrontare tali questioni, bensì, più modestamente, di fissare – in una forma alquanto generale – alcuni elementi preliminari utili a impostare, coerentemente con le basi a cui si è accennato, il problema del rapporto fra democrazia e scienza.

Partiamo da una semplice constatazione: con il termine “democrazia” non ci riferiamo a un’idea vaga, bensì a un meccanismo molto specifico di determinazione della decisione politica, fondato in definitiva sull’idea che la sovranità non possa che appartenere al popolo[2]. Questo per un motivo preciso: se per sovranità si intende il potere di comando (cioè di produzione legislativa), allora, nel caso in cui essa fosse in mano a un soggetto differente dal popolo, ci troveremmo in una situazione di dispotismo – il popolo si troverebbe a obbedire a una volontà differente dalla propria. Alla base della nostra democrazia sta questa semplice idea, che troviamo esemplificata al meglio nel Contratto sociale di Rousseau: un popolo sovrano è un popolo libero, cioè che obbedisce unicamente alla propria volontà.

L’idea di fondare la società politica sulla libertà, intesa come la condizione in cui si obbedisce unicamente alla propria volontà, non è eterna. Per secoli, l’ordine politico si è retto su un modo di pensare sostanzialmente opposto, cioè sull’idea che fosse ovvio e naturale proprio ciò che a noi moderni appare una insopportabile violenza: il sussistere di una differenza fra governanti e governati. Il pensiero politico classico non mirava affatto a rimuovere tale differenza, bensì a comprenderla: cosa vuol dire governare bene? Chi deve essere chiamato a governare? Quali forme di partecipazione e di controllo dell’operato del governante devono essere attribuite ai governati? In tale orizzonte, segnato paradigmaticamente dalla Politica di Aristotele, il termine stesso “democrazia” denomina una forma politica (fra le altre possibili) che non punta a eliminare la differenza fra governanti e governati, ma che aspira piuttosto ad allargare le condizioni di accesso alle cariche di governo.

Questi pochi accenni possono forse già consentire di intuire che la nostra idea di democrazia non affonda le sue radici nel pensiero politico classico. Essa trova la sua genesi, al contrario, proprio nel momento in cui tale orizzonte di pensiero, segnato dall’interrogazione relativa al principio di governo, viene radicalmente rifiutato perché considerato contrario alla ragione e al diritto. Fra il XVII e il XVIII secolo il cosiddetto giusnaturalismo moderno, nella parabola che da Hobbes giunge a Rousseau e Kant, ha articolato una teoria politica dominata dal concetto di autonomia, in base al quale una società concepita razionalmente deve fondarsi sul rispetto dell’originaria libertà e uguaglianza di tutti gli individui e deve quindi abolire ogni governo diretto dell’uomo sull’uomo.

Evidentemente, i giusnaturalisti continuano ad associare alla politica l’esistenza di un vincolo coattivo, di una legge. Il problema da risolvere è dunque chiaro: bisogna far sì che tale comando non implichi alcuna differenziazione fra chi governa e chi è governato, pena la perdita di libertà degli individui. L’unico modo per evitare questo esito sta nell’affidare il potere al popolo, inteso qui come il soggetto collettivo prodotto dall’unione della moltitudine degli individui che ne fanno parte. Entro questo nuovo paradigma non ha più senso interrogarsi sul contenuto del comando, poiché ciò che unicamente conta è la definizione del procedimento formale in grado di assicurare che il potere sia in mano al soggetto collettivo.

Il progetto di identificare il soggetto e l’oggetto della decisione politica è tuttavia attraversato da una tensione irrisolvibile, colta con lucidità dallo stesso Hobbes: il popolo è tanto soggetto quanto oggetto del comando, tuttavia da un lato compare come soggetto collettivo (la volontà comune), dall’altro come moltitudine di soggetti individuali (ciascuno dotato della sua volontà particolare). Dietro questa schisi si cela il vero punto cieco della teoria: come può emergere dalla pluralità di individui la loro volontà collettiva? Come si passa dai molti all’uno? La lucida dottrina elaborata da Hobbes nel Leviatano fornisce l’unica risposta rinvenibile entro questo assetto teorico: è necessario che qualcuno sia autorizzato in anticipo, da tutti gli individui, a impersonare la volontà comune[3]. Il meccanismo rappresentativo consente di rendere presente la volontà altrimenti fantasmatica del soggetto collettivo, ma a un prezzo: l’assolutezza della volontà del popolo (cioè la sua libertà) viene inevitabilmente trasferita alla volontà del suo rappresentante. Proprio l’eliminazione del rapporto di governo finisce così per produrre un comando assoluto, a cui è logicamente impossibile opporre resistenza. I sudditi hobbesiani vivono quindi una situazione paradossale: sono sottoposti al potere incondizionato di qualcuno e tuttavia, a rigore, non stanno obbedendo ad altri che a se stessi.

Nel momento in cui, a partire dalla Rivoluzione francese, l’impianto concettuale giusnaturalistico trovò il modo di abbandonare la sua veste puramente teorica per trasformarsi progressivamente, pur con mille impacci e contrattempi, nel principio organizzativo delle istituzioni politiche dei nuovi Stati sorti dalla rovina dell’antico regime, la sovranità del popolo di impronta rousseauiana dovette coniugarsi, per potersi realizzare, con il principio rappresentativo di matrice hobbesiana (nella realizzazione di questa fusione svolgerà un ruolo decisivo la produzione teorica di uno dei più importanti esponenti della Rivoluzione, Emmanuel-Joseph Sieyès). Si cercò però di evitare accuratamente gli esiti più inquietanti della teoria politica di Hobbes. A questo fine si fece ricorso a procedure molto complesse di formazione della volontà del popolo, accuratamente regolate in anticipo da una carta costituzionale (prodotta però a sua volta dalla volontà costituente del popolo). Da un lato, il meccanismo moderno delle elezioni è da intendersi come un processo di autorizzazione (cioè di individuazione di coloro che saranno chiamati a produrre la volontà del popolo), che però, a differenza che in Hobbes, pone precisi limiti temporali all’esercizio del potere da parte dei rappresentanti e lascia spazio al concorrere di diverse opzioni alternative fra cui scegliere (incarnate dai partiti politici)[4]. Dall’altro lato, il costituirsi di una sfera dell’opinione pubblica dovrebbe fornire le condizioni per un’informata partecipazione di tutti i cittadini a una sorta di discussione ideale attorno alla determinazione della volontà del popolo.

Questi importanti correttivi, che per la nostra sensibilità costituiscono il cuore delle società democratiche (il multipartitismo, l’opinione pubblica, la dinamica di maggioranza e opposizione, ecc.), non eliminano però il nucleo concettuale fondamentale: il popolo è libero solo se obbedisce alla sua volontà, la quale, tuttavia, esiste solo nel momento in cui è prodotta dalla volontà dei rappresentanti scelti per incarnarla (di qui la necessità logica dell’assenza di vincolo di mandato dei parlamentari). A guardar bene, ai governi democratici non si chiede di agire secondo giustizia, bensì di decidere in accordo con la volontà del popolo – che però esiste empiricamente solo nei governi stessi.

Non è qui possibile seguire tutte le implicazioni di questa contraddizione fondamentale che riposa al fondo delle istituzioni democratiche. Concentriamoci unicamente sul problema da cui siamo partiti: il rapporto con la verità. A un primo sguardo, è evidente che si tratta di un rapporto di esclusione: come recita il famoso detto hobbesiano, auctoritas, non veritas facit legem. Qui per autorità si deve intendere l’effetto dell’autorizzazione, il che significa che la legge è tale solo se proviene dal soggetto autorizzato a incarnare la volontà collettiva del popolo e non c’è alcun vincolo a qualche criterio veritativo. Da questo punto di vista, il detto hobbesiano rimane valido anche per le odierne democrazie: il potere è legittimo solo se scaturisce dalle procedure di autorizzazione regolate dalle carte costituzionali. Sorge però inevitabilmente una domanda: a cosa deve guardare il rappresentante per orientare la sua decisione? Evidentemente, non alla volontà del popolo, poiché essa non esiste al di fuori del contenuto che il rappresentante stesso le attribuisce. Il governo democratico non ha di fronte un popolo organizzato politicamente, bensì una “società civile”, una massa di individui liberi e uguali portatori certamente di interessi, esigenze e ideali, ma la cui volontà politica è già incorporata in anticipo nella volontà collettiva incarnata dal governo stesso.

Di qui si giunge al punto fondamentale: in assenza di altri riferimenti possibili, il vuoto entro cui si muove il rappresentante (derivante dalla sua necessaria assenza di condizionamenti) è stato riempito dal riferimento a un sapere, precisamente al sapere relativo alla società che deve essere governata. La logica della verità si innesta quindi, come suo complemento necessario e al contempo contraddittorio, sulla logica dell’autorizzazione. Lo sviluppo della teoria politica democratica, dal XVII secolo a oggi, è stato in effetti accompagnato dallo sviluppo parallelo di un insieme di saperi che si rivolgono alla società al fine di conoscerla e di fornire così degli strumenti utili per il suo governo: le scienze camerali e di polizia del XVIII secolo e poi, a partire dall’Ottocento, le scienze sociali (come l’economia politica, la scienza dell’amministrazione, la demografia, ecc.), le quali hanno conosciuto negli ultimi due secoli una continua e inarrestabile espansione[5]. Il ricorso recente a forme di sapere quali l’epidemiologia o la climatologia (per riprendere gli esempi da cui siamo partiti) non è, dunque, nulla di nuovo: risponde a una logica intrinseca al funzionamento delle moderne società democratiche fin dalla loro nascita.

Il riferimento a questi saperi rende senza dubbio efficace ed efficiente l’operare del governo, poiché fornisce ad esso una conoscenza precisa della realtà a cui si riferisce. È comprensibile, dunque, che si sia prodotto progressivamente, in seno alle stesse società democratiche, un orientamento anti-democratico che potrebbe compendiarsi nel rovescio del detto hobbesiano: veritas, non auctoritas facit legem. I saperi sociali, cioè, sembrano fornire al governo tutto ciò di cui ha bisogno per operare, poiché consentono di determinare i problemi che di volta in volta devono essere affrontati e forniscono gli strumenti per risolverli. In questa idea, che ha guadagnato recentemente una certa popolarità anche in parte dell’opinione comune, agisce silenziosamente un presupposto: che il bene della società sia intrinseco alla società stessa e che il governo sia assimilabile a una sorta di medico, nel senso che dovrebbe ristabilire la salute della società andata perduta nei momenti di crisi o malattia. Si presuppone dunque che esista un sapere in grado di ricavare il bene della società dalla conoscenza dei meccanismi del suo funzionamento. Il problema, tuttavia, sta nel fatto che un tale sapere non può esistere, per il semplice motivo che la società non è un tutto unitario immediatamente presente a se stesso, bensì è attraversata da esigenze differenti, da parzialità confliggenti, da tensioni mai del tutto sopite fra i diversi gruppi che la compongono. I saperi sociali consentono al governo di realizzare al meglio un determinato fine, ma non possono stabilire quale fine sia preferibile perseguire, perché esso non è intrinseco alla società stessa.

Questo è il motivo per cui, in fondo, il governo implicherà sempre un momento di deliberazione sul fine che la società nel suo complesso decide di perseguire. Per determinare tale decisione, le nostre società non possono che rivolgersi agli strumenti di cui si sono dotate, cioè alle procedure democratiche di autorizzazione. Tuttavia, come si è visto, queste ultime non mirano a definire un fine preferibile, ma si limitano a fornire il meccanismo formale che consenta di identificarlo alla volontà del popolo, qualunque essa sia. È proprio per riempire di contenuto questa volontà fantasmatica che i governi democratici si rivolgono, di nuovo, ai saperi sociali. Si entra così in una sorta di circolo vizioso, di rimpallo costante fra la volontà del popolo in cerca di un contenuto e la verità del sapere in cerca di un orientamento. “Populismo” e “tecnocrazia”, se vogliamo usare un lessico attualmente in voga, non sono due strade alternative, ma le due facce della stessa medaglia, i due lati di un unico dispositivo intimamente contraddittorio. Per uscire da questa soffocante impasse, salvando l’aspirazione della società tanto a determinare il proprio bene quanto a dotarsi degli strumenti per realizzarlo, sembra necessario ripensare alla radice la logica soggiacente alle nostre istituzioni politiche.


[1] Quest’ultima posizione trova un’esemplificazione nel recente libro di J. Brennan, Against Democracy, Princeton University Press, Princeton e Oxford 2016, che ha avuto ampia risonanza. Una rassegna delle posizioni più importanti del dibattito si può trovare in P. Marrone, Democrazia epistemica, epistocrazia, algocrazia: alcuni problemi, «Paradigmi», 2/2022, pp. 307-324.

[2] Nelle brevi note che seguono si rinuncia a fornire delle indicazioni bibliografiche esaustive. Per una esposizione più ampia si rinvia ai lavori del gruppo di ricerca sui concetti politici di Padova: cfr. almeno Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Franco Angeli, Milano 19982; G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999.

[3] Il nesso fra identità e rappresentazione trova una delle più celebri e lucide esemplificazioni in C. Schmitt, Dottrina della costituzione [1928], ed. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, §16.

[4] Il partito politico moderno, nonostante l’etimologia possa far pensare il contrario, non è espressione di una parte della società, bensì è la messa in forma di una modalità di intendere la volontà generale, che si propone al vaglio dell’elettorato al fine di essere votata dalla maggioranza e quindi autorizzata. Si rinvia a G. Duso, Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, «Filosofia politica», 1/2015, pp. 11-38. Per una ricostruzione della storia del partito politico si veda D. Palano, Partito, il Mulino, Bologna 2013.

[5] Questo lato governamentale delle società moderne è stato ampiamente studiato, come è noto, da Michel Foucault nei suoi corsi di fine anni Settanta: M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège France (1977-1978), ed. it. a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), a cura di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.

Scritto da
Pierpaolo Cesaroni

Professore associato di Filosofia politica all’Università di Padova. Tra le sue numerose pubblicazioni: “La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem” (Quodlibet 2020), “Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche” (con Sandro Chignola, DeriveApprodi 2016), “La distanza da sé. Politica e filosofia in Michel Foucault” (CLEUP 2010) e “Governo e costituzione in Hegel” (Franco Angeli 2006). Ha inoltre curato, insieme a Marco Ferrari e Giovanni Minozzi, le edizioni italiane di “L’essere e l’evento” e di “Logiche dei mondi” di Alain Badiou (Mimesis, 2018 e 2019).

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