Recensione a: Antonio Campati, La distanza democratica. Corpi intermedi e rappresentanza politica, Vita e Pensiero, Milano 2022, pp. 176, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Giulio Pignatti
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Le democrazie oggi sono messe a dura prova. Da una parte, lo scenario internazionale testimonia la proliferazione di autocrazie (o democrazie sempre più illiberali) che sembrerebbero portare un esempio di cupa efficienza nel prendere decisioni – spesso a dispetto di regolamentazioni sovranazionali pazientemente tessute –; dall’altra, la logica introdotta dalla comunicazione digitale infonde una certa insofferenza nell’opinione pubblica verso processi e mediazioni. Di fronte a queste esigenze diffuse di maggiore rapidità e immediatezza nella decisione politica davanti a urgenze che nascono e si sviluppano nel tempo di un tweet, in tutte le democrazie occidentali – non solo quelle coinvolte nei casi più lampanti di democratic backsliding – la tendenza è quella ad una progressiva disintermediazione del processo politico, concetto divenuto ormai centrale nelle analisi sulle trasformazioni della democrazia.
Il merito dell’ultimo libro di Antonio Campati, La distanza democratica. Corpi intermedi e rappresentanza politica (Vita e Pensiero, 2022) è quello di inserire tendenze evidenti, talvolta rivendicate, del nostro sistema giuridico-politico, come quella alla “presidenzializzazione”, al personalismo politico e in generale all’immediatezza del rapporto tra leader ed elettore, in una più ampia storia delle evoluzioni della democrazia nel suo rapporto con i corpi intermedi e la società organizzata. Non è insomma solo “colpa” della tecnologia e dei social network se il populismo e il suo modo di intendere la vita istituzionale hanno avuto la meglio nell’ultimo ventennio: si tratta piuttosto dell’ultimo atto di una storia che affonda le sue radici almeno nella Rivoluzione francese.
Nato in ambito economico-finanziario, a indicare in origine l’eliminazione dell’intermediazione bancaria nell’erogazione e fruizione dei prestiti, in campo politico il termine “disintermediazione” indica la promessa di un accorciamento delle distanze tra élite e popolo e di una partecipazione diretta alla decisione politica. Promessa resa concretamente concepibile dalla rivoluzione tecnologica, dalla diffusione ubiqua delle piattaforme digitali con le loro logiche di profilazione, di fruizione dei contenuti e di immediatezza nei rapporti – anche quelli degli elettori con i leader politici. Eppure – questa la tesi solo apparentemente paradossale di Antonio Campati, ricercatore in Filosofia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove collabora con Polidemos (Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici) – la promessa di disintermediazione si rovescia in una crescita della distanza tra popolo ed élite. Vi è insomma una vera e propria «ideologia dell’immediatezza» (p. 13), secondo cui la rappresentanza presso i corpi intermedi pervertirebbe la vera volontà degli elettori, che invisibilizza il fatto che, laddove si cerchi di eliminare una mediazione “istituzionalizzata”, emergono altri attori a colmare la “distanza democratica”. Ma questi saranno medium privati, non regolamentati né organizzati al fine del bene comune, e le modalità dell’intermediazione saranno quindi tutt’altro che democratiche. È proprio perché un rapporto immediato è un ossimoro – in termini filosofici: il rapporto stesso è quel tertium che, in forme da determinare, consente di mettere in relazione due soggetti che non possono mai sussistere nell’isolamento – che sempre più nel dibattito teorico si parla di «neo-intermediazione o re-intermediazione per indicare l’integrazione e (o) la sostituzione degli intermediari tradizionali della politica democratica – media, partiti e finanche il Parlamento – con mediatori specificamente digitali» (p. 134). Fenomeni costanti della vita politica dei Paesi europei, come la crescita dell’astensionismo e la diminuzione della partecipazione alla cosa pubblica, testimoniano proprio il fatto che la disintermediazione, per parafrasare il Poeta, “non rende poi quel che promette allor”.
Quanto al contenuto, l’ideologia dell’immediatezza, cavallo di battaglia dei populismi degli ultimi decenni, ha una dimensione spaziale e una temporale. Da una parte, si rivendica una logica di prossimità del rapporto tra politica ed elettori, che si rovescia però in una “clientizzazione” del cittadino, il quale, individualizzato nella relazione col leader-capo, è interpellato innanzitutto nelle sue passioni e nei suoi istinti irriflessi. Campati mette dunque in guardia dal rimedio apparentemente più ragionevole per curare la disaffezione politica, quello che si traduce in un «prossimità opportunista» (p. 142). Dall’altra parte, la lentezza dei processi istituzionali – che in Italia ha talvolta del patologico, ma che in generale è una caratteristica costitutiva della democrazia rappresentativa – cozza con la logica della fruizione e di un’attenzione sempre più parcellizzata, per cui si pretendono decisioni rapide sul breve periodo, che possano soddisfare bisogni sentiti come impellenti.
Eppure, l’ideologia dell’immediatezza non è interamente traducibile nell’aspirazione alla democrazia diretta, o in una sua rivendicazione. Questo è un altro fulcro teorico decisivo de La distanza democratica: quello di sostituire a uno schema interpretativo imperniato sullo scontro tra democrazia diretta e forma rappresentativa uno che oppone piuttosto democrazia immediata e democrazia mediata. Il libro di Campati, tornando in alcuni passaggi su un dibattito che per molti versi ci sembra ormai lontano, sancisce in effetti anche la fine della stagione dell’“utopia” della democrazia diretta, che voleva svuotare dall’interno – con decisive contraddizioni politiche e teoriche – l’istituto della rappresentanza. Se quest’ultimo non è quasi più messo in discussione, sono piuttosto le mediazioni plurali che ne dovrebbero assicurare la consistenza a essere sotto il fuoco dell’accusa, sempre più dismesse e svuotate di senso. È per questo che la vicenda della disintermediazione politica può essere compresa in tutta la sua radicalità, secondo l’autore, solo all’interno di una storia dei corpi intermedi nel loro rapporto con la rappresentanza politica.
Si giunge qui al nocciolo de La distanza democratica. La storia dei corpi intermedi all’interno delle democrazie occidentali moderne è decisamente travagliata – non è una novità degli ultimi decenni, dunque – e del resto tra gli studiosi non c’è accordo né sul loro ruolo all’interno della democrazia né sulla definizione stessa: si passa «da quelli che considerano i corpi intermedi come entità organizzative tra i cittadini e […] lo Stato a quelli che li considerano come entità con funzioni organizzative all’interno della democrazia contemporanea, per giungere a quelli che, invece, ne enfatizzano il ruolo di connessione tra la persona e la società» (p. 36). Il primo atto di radicale accusa si situa proprio alle origini dello Stato moderno, nella Rivoluzione francese: la celebre legge Le Chapelier del 1791 decretava l’“annientamento” delle corporazioni professionali, caratteristiche dell’assetto medievale, e di ogni altra associazione di cittadini che si imperniasse su interessi di parte. A questo punto le corporazioni diventano dei soggetti privati, tutte relegate all’ambito economico, quello della cosiddetta “società civile”: è a fine Ottocento che sindacati, corpi professionali e i primi germi di partiti politici tornano a reclamare, soprattutto in Francia e Inghilterra, un ruolo pubblico. Ed è in quella fase che nascono i partiti di massa, che diventeranno centrali nella vita politica italiana ed europea dopo la vicenda nazi-fascista, durante la quale il ruolo delle corporazioni è centrale ma subisce una torsione netta. Il partito politico, dal Dopoguerra, è pensato come un “ponte” tra la società e lo Stato, ma la sua crisi – invero iniziata abbastanza precocemente nella storia repubblicana italiana – ne determina una progressiva marginalizzazione, fino a riconoscergli il ruolo minimo di selezione delle opzioni elettorali proposte al cittadino al momento del voto. La contemporaneità, infine, presenta una diffusa sfiducia verso partiti e corpi intermedi in generale, visti come forme vuote o – ancora peggio – come portatori di occulti interessi di parte e quindi di corruzione.
Questa tensione nello sviluppo della democrazia risiede nella struttura stessa del governo rappresentativo, all’interno del quale convivono le opposte logiche di distinzione e identificazione: la classe politica è il popolo, dal momento che lo rappresenta, ma allo stesso tempo costituisce un corpo a sé, con una propria volontà, riflessività e capacità di mediazione. Nonostante Campati rilevi che negli ultimi anni, con la pandemia e la lezione sulla necessità di ascoltare gli “esperti”, la tendenza si sia almeno in parte sfumata, certamente viviamo in un periodo in cui l’identificazione prevale sulla distinzione. Di qui, dunque, la necessità di una difesa della “distanza democratica”, di quello spazio, cioè, di mediazione, di raccolta di esigenze e bisogni, di rielaborazione riflessiva di impulsi e umori, che si inframmezzi tra la società e il governo, fornendo un corpo concreto al processo decisionale. Solo riscoprendo quell’asse “verticale” che per natura si affianca, nella democrazia rappresentativa, all’asse “orizzontale”, e cioè attraverso una riflessione sulla mediazione politica e, secondo una traiettoria esplicitata da Campati nelle ultime pagine del libro, sul rapporto tra democrazia ed elitismo, è quindi possibile ripensare la forma democratica all’altezza delle sfide del presente.
Proprio sull’identificazione di questo spazio di mediazione tra la società e il governo, tuttavia, può essere impostata brevemente una discussione delle tesi di La distanza democratica. A più riprese nel libro si teorizza, sulla scorta di un’ampissima bibliografia – elemento prezioso, questo, che permette anche un orientamento in relazione a molti dibattiti subordinati al principale – e del confronto approfondito con altri affermati studiosi, una “diarchia”, all’interno delle democrazie parlamentari, tra la rappresentanza vera e propria, cioè la trasmissione della volontà dei cittadini attraverso le elezioni, e, dall’altra parte, il canale di rapporto tra cittadini ed élite politica che trova nell’opinione e nella pressione il suo elemento. In altri termini, da una parte vi è la rappresentanza parlamentare col suo meccanismo di identificazione-distinzione, per cui il rappresentante, una volta eletto, incarna la volontà generale e dunque la sua azione politica è legittimata a priori, a prescindere da ogni dinamica di confronto e responsabilità con l’elettorato (secondo il principio costituzionale dell’assenza di mandato imperativo). Dall’altra parte, invece, come ricostruisce Campati sulla scorta degli studi di Alessandro Pizzorno, il canale della “pressione” dell’opinione pubblica, dei gruppi sociali organizzati presso il governo, funziona secondo la modalità del mandato, che «le rivoluzioni liberali del XVIII secolo avevano preteso di eliminare» (p. 59). Pizzorno osserva «come si sia sviluppato un “canale alternativo di rappresentanza degli interessi” che funziona, analogamente a quello pre-rivoluzionario, sul principio del mandato e quindi attraverso l’attività dei gruppi di pressione, i quali altro non sono che un canale di rappresentanza di natura privata, alternativo alla rappresentanza politica e sempre più rilevante nel portare avanti le politiche pubbliche» (p. 61). Ecco, dunque, che si costituisce una vera e propria tensione irrisolta tra la rappresentanza politica “formale” e un «ritorno al mandato» (ibid.) che indica, come scrive Lorenzo Ornaghi in relazione al periodo post-rivoluzionario, un’eccedenza del politico rispetto alla sua strutturazione statale liberale moderna.
A ben vedere, dunque, nello Stato moderno è solo la prima forma di rapporto tra cittadini e potere politico a trovare un’assicurazione costituzionale e istituzionale, mentre la rappresentanza degli interessi delle parti rimane relegata ai margini del sistema politico-giuridico, assumendo uno status sempre ambiguo. È questa ambiguità che si manifesta nella storia dei corpi intermedi e del loro rapporto col sistema democratico: non è un caso che la fine dell’Ottocento, fase che vede un ruolo centrale delle organizzazioni intermedie, è anche un periodo di crisi profonda dell’ordine liberale, dettata proprio dall’«aver ignorato la “pluralità dei corpi” e la “materialità degli interessi particolari”» (p. 84); non è un caso che – come testimoniano dibattiti e tentativi di riforma ricostruiti nel libro – di crisi dei partiti, il cui statuto giuridico e costituzionale è tutt’altro che definito, si inizi a parlare in Italia già pochi anni dopo la promulgazione della Costituzione repubblicana; o ancora, non è un caso che dei soggetti privati riescano a occupare relativamente impunemente lo spazio della mediazione tra società e Stato. Se oggi in Europa l’azione pubblica delle corporazioni, del lobbying, dei sindacati, ecc. viene per lo più ricondotta – in maniera addirittura antonomastica – a morbosità e corruzione è perché, nel nostro istinto politico di moderni, la manifestazione politica di bisogni frazionali organizzati è sentita come un affronto all’unico rapporto politico veramente legittimo, quello tra cittadino e rappresentante – come del resto era per Le Chapelier e i rivoluzionari francesi, alle origini dello Stato moderno. Insomma, delle teorie politiche relative alla natura dei corpi intermedi ricostruite dall’autore, quella di Hobbes avrebbe avuto, dal punto di vista dello sviluppo storico-politico, la meglio su uno Hegel, quella di Rousseau su un Tocqueville.
Come insegnano studi ormai classici come quelli di Giuseppe Duso, infatti, nella modernità il politico è ridotto al – e “neutralizzato” dal – criterio della legittimità, quest’ultimo consistente nell’autorizzazione a incarnare la volontà generale attraverso le elezioni. È pertanto financo inutile porsi la questione della legittimità politica dei corpi intermedi: in questo senso ristretto della legittimità politica, essi non la potranno avere, pena l’ammissione che l’espressione della volontà popolare può avvenire per mezzo di soggetti che non sono stati autorizzati a rappresentare l’interezza dell’interesse generale – pena, insomma, la decadenza del principio fondamentale alla base dello Stato moderno, quello dell’autogoverno dei cittadini e dell’autonomia dell’individuo. Il contributo dei corpi intermedi alla vita democratica costituirebbe allora un supplemento della struttura democratico-liberale, animato da spinte sociali alla partecipazione in determinate fasi storiche ma non cristallizzato in un assetto istituzionale che incentivi strutturalmente la comunicazione tra gruppi sociali e governo e la responsabilità di quest’ultimo di fronte ai governati. La parabola del partito politico è esemplare da questo punto di vista: se oggi i partiti rischiano di essere «ormai simili ad aggregazioni elettorali, attive solo al momento del voto» (p. 58), è perché il loro ruolo di rappresentanza di identità collettive e di trasmissione ed elaborazione di istanze da parte di determinate parti della società, a partire da una propria democraticità interna, non è strutturale nel nostro ordinamento. Lo è invece certamente – per ragioni legate al funzionamento stesso della fictio della rappresentanza: la nozione di volontà del popolo è vuota se non vi sono delle incarnazioni predeterminate che la interpretino – il ruolo di selezione e proposta delle scelte a cui l’elettore dovrà dare approvazione. La questione che allora si pone è: una tale funzione dei partiti, quintessenza dei corpi intermedi, è sufficiente ad assicurare il sistema politico dalla deriva populista, se quest’ultima consiste proprio, come ricostruisce il libro sulla scorta degli studi di Pierre Rosanvallon, in un «processo di adesione a un’offerta politica già stabilita» (p. 131) da parte di elettori-followers?
È, a questo punto, evidente perché «il richiamo ai corpi intermedi è strettamente legato alla cosiddetta “crisi della rappresentanza politica”» (p. 50). Il parere di chi scrive, che emerge anche tra le righe di alcune parti del testo, è che per ristabilire la “distanza democratica” e renderla effettivamente uno strumento di mediazione e di riflessività e non piuttosto un vuoto segno della disaffezione politica, è innanzitutto necessario ripensare il concetto di rappresentanza. Senz’altro la definizione avanzata da Campati, quella di «meccanismo atto a produrre decisioni “più lungimiranti e meditate”, per filtrare le “volontà immediate” del corpo elettorale e dei suoi particolarismi» (p. 10), indica una giusta direzione a tal fine, ma bisogna interrogarsi se tale definizione sia descrittiva o normativa, se designi insomma il modo in cui effettivamente l’istituzione della rappresentanza funziona e in cui il senso comune pensa il mandato politico. Ecco allora che il compito che si rivela forse più urgente è quello indicato sempre da Rosanvallon, «di organizzare al meglio il rapporto tra potere e società attraverso delle nuove istituzioni di interazione» (p. 145), inventando nuove mediazioni (perché no, anche digitali) secondo una concezione pluralista della rappresentanza che non neutralizzi la politicità della società a favore del potere rappresentativo, unico attore politico legittimo, ma che possa tenere viva la tensione dialettica tra i due poli.