Recensione a: Giacomo Maria Arrigo, La filosofia morale di Edmund Burke. Culture, tradizioni, civiltà, Carocci, Roma 2023, pp. 180, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Giulio Pennacchioni
14 minuti di lettura
La filosofia morale di Edmund Burke è l’ultimo libro di Giacomo Maria Arrigo, edito da Carocci a maggio 2023. Già direttore esecutivo e co-fondatore di The Square – Mediterranean Centre for Revolutionary Studies e co-direttore editoriale della rivista scientifica Occhialì – Rivista sul Mediterraneo islamico, Giacomo Maria Arrigo è attualmente ricercatore in filosofia morale presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove è anche membro dello European Centre for Social Ethics (ECSE). La filosofia morale di Edmund Burke segue il suo precedente Gnostic Jihadism: A Philosophical Inquiry into Radical Politics[1], in cui Arrigo propone di studiare l’ideologia rivoluzionaria del movimento jihadista Salafi[2] attraverso la categoria filosofica dello “gnosticismo rivoluzionario”. Operazione, questa, già compiuta in passato, ma per altri fenomeni rivoluzionari, come il nazismo, il bolscevismo, il giacobinismo, tutti di stampo classicamente occidentale[3]. Quindi, il tentativo di Arrigo di applicare la categoria dello “gnosticismo rivoluzionario” al movimento salafista risulta estremamente originale, nonché praticamente unico all’interno del panorama intellettuale italiano. Il contenuto del nuovo libro di Arrigo è tuttavia distante da quello della sua prima opera e, procedendo con ordine, la prima ambizione di questa recensione è quella di tentare di restituire almeno in parte il contenuto di La filosofia morale di Edmund Burke, ripercorrendo diacronicamente le differenti parti del libro.
Introduzione
La filosofia morale di Edmund Burke prende le mosse da una domanda: chi è stato Edmund Burke? Di libri a proposito del personaggio storico ne sono già stati scritti tanti e già solo per questo andrebbe letta l’ultima fatica di Arrigo, che riesce infatti a restituire, o per citazione diretta o per rimando, la letteratura primaria o secondaria su questo autore. Già a questo punto dell’analisi si pone però un primo problema. Se è vero che su Burke si sa già molto, è al contempo vero che si tratta sempre di ricerche concentrate sugli stessi argomenti, seppur riproposti in diverse forme: «le sue battaglie parlamentari, l’abile retorica, le pungenti critiche contro la Rivoluzione francese» (p. 11). In una parola: la sua filosofia politica. Eppure, sarebbe un grave errore “limitare” la figura di Burke al suo ruolo politico, facendosi così forza della “classica” critica burkeana alla ragione astratta. Se questa è stata senza dubbio il principale motivo di marginalizzazione dello studio dei presupposti teorici dietro il giudizio politico di Burke, mancare oggi di compiere un’operazione di maggiore approfondimento del pensiero filosofico dell’autore sarebbe un grave errore. Ecco dunque rivelato l’altro grande merito di Arrigo, probabilmente il primo: aver fatto luce sulla filosofia morale di Burke. Come conseguenza di tutto ciò, Arrigo riesce anche nel meritorio lavoro di contrastare le due tesi principali avanzate criticamente contro questo autore: 1) la presunta mancanza di sistematicità del pensiero di Burke – idea, questa, in qualche modo “vittima” della tendenza a pensare il politico inglese solo nel suo ruolo di politico –; 2) l’etichetta di conservatore. Proprio a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, il pensiero di Burke è assurto agli onori della cronaca per il suo atteggiamento riformista e tradizionalista, che divenne così lo standard per un nuovo orizzonte filosofico: il conservatorismo.
Come già anticipato, in questa recensione verranno anzitutto analizzati i tre capitoli del libro di Arrigo. Nella parte finale, si tenterà invece di mostrare perché La filosofia morale di Edmund Burke può esserci utile anche oggi nel cercare di comprendere alcune delle sfide del mondo in cui viviamo. Iniziando molto brevemente con la prima parte della recensione: il capitolo primo ricostruisce per sommi capi la ricezione del pensiero di Burke negli ultimi due secoli, con particolare attenzione all’Italia del Novecento; il secondo capitolo investiga la filosofia morale del pensatore britannico; nel capitolo terzo viene affrontata la questione indiana, dunque l’impegno di Burke negli affari imperiali. Obiettivo interno a questa prima sezione sarà anche quello di spiegare al lettore “come” Arrigo riesce ad allontanare il pensiero di Burke dai due pregiudizi sopra menzionati (la mancanza di sistematicità e il conservatorismo), nonché ha l’ambizione di presentare una sommaria introduzione al suo pensiero morale, dettagliatamente sviluppato all’interno del volume.
L’antropologia
Arrigo comincia il primo capitolo sottolineando come, storiograficamente, nonostante il ruolo politico ricoperto, si preferisca citare personalità contemporanee a Burke, come David Hume o Adam Smith, ma non direttamente l’autore di Reflections on the Revolution in France[4]. Opera, questa, di importanza capitale, ma che lo ha nella maggior parte dei casi condannato ad essere “semplicemente” il filosofo “contro” la Rivoluzione francese. Al contrario, come spiegato da Matthew Arnold, precisamente citato da Arrigo, in realtà Burke ha ricoperto un ruolo centrale per il pensiero occidentale: «Quasi da solo in Inghilterra, egli ha portato il pensiero ad avere una grande influenza sulla politica»[5]. Le interpretazioni sulla sua proposta intellettuale sono tante, al punto che Arrigo arriva a dire che esistono «diversi Burke» (p. 16). Tratto comune però di queste letture, è l’elaborazione di un «Burke’s problem»[6], il che è problematico perché lascia intendere che la riflessione del filosofo di Beaconsfield sia semplicemente la summa di tante prospettive differenti e che dunque sia applicabile ai più disparati casi. Il problema fondamentale di questa idea, che in qualche modo può essere considerata la red line delle tante interpretazioni dell’autore, è il presupposto che un sistema filosofico di Burke non esista. Secondo quest’idea, esisterebbero solo delle sue riflessioni, talvolta persino in antitesi l’una rispetto l’altra. Come riportato da Arrigo, in tal senso alcuni studiosi, come Frank O’Gorman, hanno messo anche in discussione l’esistenza di una riflessione filosofica burkeana. Addirittura, O’Gorman arriva a ridurre il pensiero di Burke a semplice produzione al servizio del partito Whig; partito col quale ruppe i suoi rapporti dopo il 1794 proprio in virtù della sua ricezione della Rivoluzione francese. La tesi suggerita da Arrigo è che invece fu proprio la coerenza, la sistematicità del suo pensiero filosofico a determinare questa rottura col suo partito. Quale coerenza però? Del Burke esponente del liberalismo utilitario o del Burke giusnaturalista? Il filosofo di Beaconsfield è dunque sia un liberale sia un antidemocratico? A tutto ciò si aggiunge la più recente interpretazione di John Pocock, che mette in risalto il ruolo avuto dalla tradizione giuridica del common law sul suo pensiero. Anche nel panorama italiano, lavori come quello di Giuliano Tamaglini, Un giusnaturalismo ineguale. Studio su Edmund Burke[7]vanno totalmente in questa direzione: quella di denunciare una sorta di “difetto del suo pensiero”. Per quanto riguarda il dibattito in merito a queste due dimensioni del pensiero di Burke, quello utilitario e quello giusnaturalista, Arrigo, dopo aver fornito una precisa analisi della bibliografia internazionale e nazionale (anche se in Italia questa parte del dibattito non ha avuto molta eco), propone di rileggere l’intera questione a partire da un’altra domanda: qual è il fondamento del suo pensiero morale? Proprio l’introduzione della dimensione morale costituirà la soluzione alla dicotomia fra legge di natura o utilità. «Non si tratta di operare una rigida scelta tra i due concetti, bensì di rinvenire una compenetrazione feconda che appariva tanto chiara a Burke» (p. 35). Altro punto centrale del primo capitolo riguarda l’etichetta di “conservatore” associata al filosofo inglese. Anzi, vi è di più: come sostenuto da Robert Nisbet[8], Burke è proprio considerato il padre fondatore e ispiratore della corrente politica del conservatorismo. Nonostante Burke non abbia mai impiegato questo termine, vi sono stati tanti accostamenti, come quello di Jonathan Israel[9] o quello più recente operato da Karl Mannheim[10]. Ma è davvero così? Anche in questo caso, come in quello precedente, la soluzione proposta da Arrigo è di provare a rileggere la riflessione del filosofo inglese attraverso le lenti della sua filosofia morale.
La filosofia morale
Il secondo capitolo, il più lungo, è totalmente dedicato al pensiero morale di Burke e comincia con una domanda: quale antropologia risiede alla base del suo sistema filosofico? Una domanda che dunque suggerisce un metodo, quello sviluppato da Carl Schmitt. Ma è possibile applicarlo alla filosofia di Burke? Questa è infatti una notevole difficoltà del sistema burkeano, non avendo quest’ultimo scritto alcun testo sulla natura umana. E tuttavia Robert Bisset nel 1798 scrive che «gli studi che più occuparono [Burke], e con quale zelo, erano quelli volti a decifrare la natura umana»[11]. Quindi un interesse antropologico in Burke c’è e si tratta di capire quale sia – compito certamente arduo ma non impossibile. Anzitutto in Reflections on the Revolution in France è Burke stesso a “confessare” il proprio interesse per l’antropologia, ma è soprattutto in un testo come A Vindication of Natural Society: or, a View of the Miseries and Evils arising to Mankind from every Species of Artificial Society che questa ricerca emerge, o sotto la firma del visconte di Bolingbroke, o sotto la sua vera identità (che compare per la prima volta nella Prefazione alla seconda edizione di questo testo). La sua idea, presente in Reflections, nelle Vindications, ma anche nella Letter on a Regicide Peace; in A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, così come in Letter to a Sheriff of Bristols, è anzitutto quella di muovere contro la possibilità di una condizione presociale: lo stato di natura del Contratto sociale di Rousseau. Da ciò consegue un’antropologia primariamente relazionale. Come ben chiaro ad Arrigo: «Per Burke non esiste, né è mai esistita, una condizione presociale, né a livello individuale, dove facciamo esperienza della relazionalità fin dalla nascita, né tantomeno a livello storico, in mancanza di evidenze empiriche, o semplicemente perché è impossibile» (pp. 43-44). Altro caposaldo dell’antropologia burkeana è però un elemento antisociale, che in qualche modo rappresenta l’altro lato della natura intrinsecamente relazionale dell’essere umano. Quando parla di questo momento negativo, sottolinea Arrigo, Burke ha in particolare in mente la nozione di “peccato originale”. A questo Burke contrappone così la forza dell’amore e della carità, possibili soluzioni contro la viziosità umana. Viziosità che era alla base del poco amore dei rivoluzionari francesi nei confronti dell’uomo. «In quest’ottica, il male non viene dalle istituzioni o dalla politica, come vorrebbero Bolingbroke e Rousseau, ma dalla stessa condizione umana» (p. 45). La natura dell’uomo è allora “naturalmente modificata” dalla sua natura razionale. Come? Ad esempio, attraverso la creazione di istituzioni che rappresentano proprio lo sforzo virtuoso dell’essere umano di tenere continuamente a bada le più basse inclinazioni. La natura dell’uomo viene così definita “art”, cioè arte, artificio. «Il naturale per l’uomo è l’artificiale» (p. 46). Ciò detto, l’antropologia burkeana ha un ulteriore risvolto: essendo l’uomo relazionale e artificiale, allora è capace di creare una sorta di “seconda natura”, che prende forma solo all’interno della vita associata da lui costituita. Ma Burke non si ferma qua, sottolineando anche la natura abitudinaria dell’essere umano (posizione che lo avvicina molto anche alle tesi di Cicerone), animale prima di tutto religioso. Sarà allora la religione alla base della vita associata e di ogni istituzione ed è proprio in ragione di ciò che va compreso l’antagonismo di Burke nei confronti dei rivoluzionari francesi, animati certamente come minimo da un veemente anticlericalismo.
Chiariti da subito questi primi aspetti, Arrigo prosegue la sua analisi entrando proprio nel vivo della riflessione morale burkeana e lo fa in particolare nel paragrafo intitolato Senso comune, principi morali e prudenza. Arrigo prende le mosse da una serie di domande: quali sono i beni da perseguire? Quali i principi etici? Burke parla veramente di teoria morale? Per rispondere a queste domande, Arrigo informa il lettore di un particolare biografico curioso della vita di Burke: la sua vicinanza al quaccherismo, un movimento protestante sorto in seno all’anglicanesimo e dissidente rispetto alla Chiesa anglicana. I quaccheri erano in particolare noti per cadere in estasi mistiche durante le loro riunioni, estasi dovute all’entusiasmo (enthusiasm). E proprio dell’entusiasmo Burke parla nel suo Note-Book, dove descrive questa emozione come un dono dato da dio all’uomo per consentirgli di supplire alle mancanze della ragione. Non solo la ragione, dunque, è alla base delle norme morali dell’uomo, bensì un’altra facoltà, appartenente al lato emotivo di quest’ultimo. Come ben sottolineato da Arrigo, è da sottolineare anche il fatto che Burke fosse molto vicino all’ambiente dell’Illuminismo scozzese e dunque la nozione di “entusiasmo” non è da leggere nel significato solo passionale, bensì come “senso comune”. «In Burke l’enthusiasm quacchero e il common sense scozzese hanno la stessa funzione, quella di accompagnare la ragione» (p. 61). E, come ben spiegato da James Beattie, il cui lavoro è da Arrigo saggiamente riportato, è proprio questa complementarietà dei due sensi, la ragione e il common sense, a costituire l’essenza della filosofia morale burkeana. I principi colti dal senso comune vengono a loro volta descritti come «pochi e semplici» (p. 68) e, sia che si tratti di doveri, sia di diritti, non devono essere esplicitati, perché in tal caso diverrebbero astratti. A determinarli sono quindi le contingenze della realtà, che, oltre a donare spessore a questi principi, li moltiplicano a seconda dei tanti e differenti casi. E, tuttavia, un principio fra tutti deve stare dietro agli altri: la prudenza. Prudenza burkeana che molto ha in comune con la φρόνησις di Aristotele, con la prudentia ciceroniana e persino con il pensiero di San Tommaso D’Aquino. Ma in che cosa consiste esattamente? Come spiegato in Speech on a Petition of the Unitarian Society, la virtù della prudenza consiste nello sforzo di continua traduzione delle norme universali sopra menzionate (nella loro vaghezza, per così dire) all’interno del contesto di riferimento in cui ci si trova. Dunque, ciò che deve guidare, ad esempio, un politico, saranno le circostanze in cui si trova e sulle quali deve esercitare la sua prudenza. La stessa storia, come ben messo in luce da Arrigo, non è precettrice di principi (magari in espansione), bensì di prudenza. Come si può intuire già a questo livello, infatti, per Burke i principi sono sovratemporali. A questo punto la presa in considerazione della legge naturale è d’obbligo. La prudenza, per così dire, da sola non basta; le sue decisioni sono sempre troppo legate al “qui e ora” ed è una virtù comunque di pochi.
Quale guida morale allora per l’uomo? Per Burke è anzitutto la comunità a giocare un ruolo importante: l’appartenenza del soggetto a un humus, da Arrigo definito «artificiale» (p. 76). Proseguendo in tal senso, bisogna introdurre altri due termini fondamentali per l’infrastruttura filosofica burkeana: i pregiudizi e i manners. Il primo è definito come «il tratto umano quintessenziale, quello che fornisce la motivazione al consenso [sociale] che manca alla ragione presa in isolamento» (p. 80). I manners nella Letter on a Regicide Peace vengono invece definiti come «ciò che ci perseguita o che ci dà sollievo, ci corrompe o ci purifica, ci glorifica o ci degrada, ci imbarbarisce o ci perfeziona, attraverso un’azione costante, continua, uniforme e invisibile» (p. 82). Com’è evidente, manners e pregiudizi vanno allora di pari passo perché entrambi racchiudono la saggezza viva di un popolo. Si capisce così tutta l’attenzione di Burke per la tradizione, o la sua idea di giurisprudenza come espressione della «saggezza accumulata nei secoli» (p. 84). Come di conseguenza, la validazione di alcune norme sociali avverrà così nel tempo e tale operazione è da Burke chiamata “prescrizione”: l’«operazione prudenziale della specie» (p. 91). Ma a questo punto, seguendo Arrigo, è necessario introdurre un ulteriore elemento, ché altrimenti si rischierebbe “semplicemente” di inquadrare il lavoro di Burke all’interno dello storicismo: il ruolo giocato dalla Provvidenza divina. La Provvidenza, l’azione di Dio nella storia, è ciò che agisce sul ruolo degli uomini nel mondo. «Che tutte le entità sociali siano prodotti della storia, non invenzioni pianificate dalla ragione, ma formazioni emergenti dai capricci degli eventi storici, dall’interazione di idee e interessi, da sofferenze e passioni, tutto ciò è più vecchio di Hegel. Risale ad Edmund Burke»[12]: così scriveva Karl Popper nel 1974, magistralmente riportato da Arrigo. E, tuttavia, questo “senso della storia” in Burke va compreso come volontà di Dio ed è infatti proprio al riconoscimento di quest’ultima che servono i pregiudizi e le tradizioni[13]: a riconoscere la volontà di Dio. Non vi è quindi alcun determinismo nel pensiero di Burke, ma certamente l’azione misteriosa della Provvidenza è una parte essenziale del suo sistema filosofico.
Ma come fare a comprendere se una pratica (antica o nuova) rispecchia veramente la legge naturale? Arriviamo così a un altro punto fondamentale della riflessione filosofica di Burke: il principio dell’utility. L’utile di tutti e ciascuno è ciò attraverso cui riconoscere l’appartenenza alla legge naturale o meno. Lo stesso discorso, va da sé, si applica ugualmente ai manners, ai customs e ai prejudices ed è proprio questa corrispondenza alla lex naturae a rendere l’utilitarismo di Burke certamente sui generis. Riassumendo quanto spiegato nel secondo capitolo, la filosofia morale di Burke, che nel suo sviluppo rivela proprio tutta la sua sistematicità, di risposta ai critici che lo hanno pensato solo come a un politico capace di querelle parlamentari, si fonda quindi su due principi fondamentali: 1) l’esistenza della legge naturale, identificabile con l’ordine stesso che governa il mondo (la Provvidenza); 2) il libero arbitrio dell’uomo, che, proprio in forza della sua volontà, può seguire o meno la legge naturale. Per comprendere però quest’ultima, sono necessarie due vie: il senso comune e la prescrizione. In entrambi gioca un ruolo essenziale la prudenza ed entrambe le vie, infine, conducono all’utilità.
La questione indiana
L’ultimo capitolo è infine dedicato all’impegno di Burke nelle questioni imperiali del governo britannico, in particolare in India. Nonostante, infatti, come già detto all’inizio, il filosofo di Beaconsfied sia perlopiù ricordato per la sua opinione sulla Rivoluzione francese, la sua attenzione era rivolta molto di più verso la Compagnia delle Indie Orientali. Ed è in particolare a partire dagli anni Settanta del Settecento che Burke iniziò a considerare severamente tutti i problemi costituzionali sollevati dalla presenza in India di questa compagnia commerciale con interessi economici e politici. Fu in particolare la denuncia delle malefatte di Warren Hastings ciò di cui si occupò Burke, arrivando persino a proporne l’impeachment. Com’era prevedibile, Burke alla fine perse il processo, ma, come ben messo in evidenza da Arrigo, è senza dubbio necessario conoscere anche questo del pensatore inglese, perché è proprio in tali occasioni che venne espressa la sua idea a proposito dello statuto, il ruolo e il senso delle civiltà extraeuropee, specialmente non cristiane. Il processo contro Hastings non va dunque inteso solo come un esempio senza tempo della lotta contro la corruzione, ma anche come una concreta manifestazione della simpatia (da intendere nel senso di Adam Smith) per Burke verso tutti gli oppressi, gli ultimi, come il popolo indiano. E proprio a questa simpatia Burke cerca di educare gli inglesi. Di contro al presupposto teorico di Hastings (che più che un presupposto, sembra essere un escamotage), secondo cui il (presunto) sistema di governo dispotico orientale costituisce ragion sufficiente per giustificare il controllo arbitrario e tirannico sulla popolazione indigena da parte della East India Company, Burke è invece consapevole delle distorsioni che anche la legge inglese può manifestare se applicata in un sistema politico diverso da quello britannico. Come riportato da Arrigo in quest’ultima parte del suo libro, il vero sistema dispotico non è quello orientale (che certamente del dispotismo aveva alcuni tratti, ma solo perché intenzionalmente non letti alla luce delle leggi sacre del Paese), ma quello occidentale, inglese, «che è, per paradossi, il potere più dispotico che vi sia mai stato in India» (p. 145). Tuttavia, la divergenza fra Hasting e Burke non si esaurisce solo a questo livello, sul diverso giudizio sul dispotismo orientale. La differente idea di Burke era anche a partire dal fatto che le leggi della morale sono le stesse ovunque. Ciò significa che anche un ufficiale britannico, anche se sotto gli ordini della Corona e della Gran Bretagna, non è svincolato dalle lex naturae, diretta emanazione di Dio. Come scritto da Burke nei suoi discorsi, se anche si volessero esaminare tutte le differenti nazioni, nelle loro particolarità, si scoprirebbe comunque che un solo principio le muove: il tentativo di stabilire un’equa giustizia distributiva. E tale idea, a suo avviso, non può che provenire da Dio. Nel suo Note-Book utilizza ad esempio l’espressione “universal custom” che, come ben spiegato da Arrigo, va inteso come un principio generale da sempre presente e che continuamente informa gli uomini di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, adattandosi di volta in volta ai differenti casi. Come già spiegato, ciò non esclude la presenza anche di principi nocivi, in antitesi alla legge naturale, ed è in tal senso che va compresa l’azione di Hastings. Il senso comune è allora in Burke qualcosa di universale anche per estensione, perché (potenzialmente) condiviso da tutta l’umanità. Ed è proprio con quest’ultimo punto che termina questa recensione.
Conclusione
La filosofia morale di Edmund Burke di Giacomo Maria Arrigo non fa soltanto chiarezza sulla figura storica e sulla riflessione del filosofo di Beaconsfield, ma offre elementi oggi più che mai necessari. Come certamente il lettore avrà ormai ben capito, Burke vive in un’epoca di passaggio: la sua filosofia rappresenta l’ambivalenza fra un europeo ancora incerto sulla modernità, ma che anche guarda ad altre società extraeuropee, in tal senso non(ancora)-moderne. Burke capisce la forza dirompente della tecnica occidentale, che si sarebbe sempre più imposta, ma al contempo convive con saldi principi religiosi, primo fra tutti quello della Provvidenza. Burke è “al di là” della divisione fra Stati perché riconosce la permanenza di un principio morale universale, che rende tutti i popoli parte di una stessa comunità. Al contempo, Burke vive in un’epoca in cui già questa “possibilità” di una morale universale è iniziata a scomparire sempre di più. Una domanda implicita sembra chiudere tutta la sua riflessione: c’è ancora spazio per la legge naturale nel mondo moderno? E una domanda conclusiva sorge spontanea: c’è ancora spazio oggi per la legge naturale? La convinzione di fondo di chi scrive, infatti, è che i nostri tempi non siano poi così diversi da quelli descritti da Burke. Riflettendo su alcune sfide contemporanee, come quelle dell’intelligenza artificiale o della transizione ecologica, la riflessione di Burke sul ruolo della tecnica, sull’esistenza o meno della legge naturale, su un principio come quello della prudenza o infine sul ruolo della comunità, sembra essere più attuale che mai. Sembrerebbe anzi che ancora oggi non abbiamo avuto abbastanza forza e coraggio per affrontarle davvero. Questo, tra tutti gli altri, il grande merito di Giacomo Maria Arrigo e di questa sua ultima fatica, la cui lettura è fortemente raccomandata. Questo, sempre posto che la grande dea della Sapienza sia ancora fra noi e non si sia ormai consegnata all’inattuale e all’inutile.
[1] G. M. Arrigo, Gnostic Jihadism: A Philosophical Inquiry into Radical Politics, Mimesis International, Sesto San Giovanni 2021.
[2] Molto generalmente, il salafismo può essere definito come un movimento all’interno dell’Islam che cerca di emulare il modo di vivere dei primi seguaci del Profeta Maometto, noti come i “Salaf” o “Predecessori Puri”. Il termine “salafismo” deriva dalla parola araba “salaf”, che significa predecessori o antenati. I salafiti cercano di ritornare alle radici dell’Islam seguendo il Corano, gli insegnamenti del Profeta Maometto e le pratiche dei primi musulmani. In particolare, alcuni salafiti insistono sulla comprensione letterale del Corano e del Hadith (detti e azioni del Profeta). È importante notare che il salafismo non è un’unica entità monolitica; ci sono varie sfumature e interpretazioni all’interno di questo movimento. Alcuni salafiti sono coinvolti in attività benefiche e didattiche, mentre altri sono associati a correnti più radicali che sostengono l’uso della forza per stabilire una visione più rigida dell’Islam. Il salafismo è stato spesso associato a movimenti e organizzazioni islamiste radicali, anche se la maggior parte dei salafiti respinge la violenza e non sostiene necessariamente posizioni estremiste. Come in molti movimenti religiosi, ci sono diverse interpretazioni e approcci tra i suoi seguaci.
[3] Per un’introduzione su questo, si rimanda all’Introduzione di G. M. Arrigo, Gnostic Jihadism, op. cit.
[4] E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, in Id, Scritti politici, a cura di A. Martelloni, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1963.
[5] M. Arnold, The Function of Criticism at the Present Time in Id., Complete Prose Works of Matthew Arnold, vol. III. University of Michigan, Ann Arbor 1962, p. 266.
[6] D. Winch, Riches and Poverty: An Intellectual History of Political Economy in Britain, 1750-1834, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 128.
[7] J. G. A. Pocock, Burke and the Ancient Constitution: A Problem in the History of Ideas, in Pollock, Politics, language and Time: Essays on Political Thought and History, Chicago University Press, Chicago e Londra 1971.
[8] R. Nisbet, Conservatorismo: sogno e realtà; a cura di S. Pupo, Rubettino, Soveria Mannelli 2012.
[9] J. Israel, Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, Einaudi, Torino 2011.
[10] K. Manheim, Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero conservatore, Laterza, Roma-Bari 1989.
[11] R. Bisset, The Life od Edmund Burke, George Cawthorne, Londra 1798, p. 27.
[12] K. R. Popper, La società aperta e I suoi nemici, vol. II, Armando Editore, Roma 1974, p. 81
[13] R. Kirk, The Conservative Mind, Gateway Editions, Washington 2019.