Recensione a: Antonio M. Morone (a cura di), La fine del colonialismo italiano. Politica, società e memorie, Mondadori Education, Milano 2018, pp. VIII-296, 21 euro (scheda libro)
Scritto da Federico Perini
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Grazie ai contributi di Antonio M. Morone, Emanuele Ertola, Valentina Fusari, Matteo Grilli, Sabrina Marchetti, Mauro Mazza, Tommaso Palmieri e Massimo Zaccaria, il volume può essere considerato un riuscito tentativo di affermare nella storiografia italiana quello che, nella più recente disciplina africanistica, è un punto fermo: la problematizzazione storica della fine del colonialismo italiano in Africa.
Data la complessità del tema trattato, l’approccio scelto dal curatore non poteva che essere multidisciplinare. Vengono messi a confronto in maniera organica contributi di storia politica, sociale, delle relazioni internazionali e del diritto, oltre che di demografia e antropologia. Grazie a ciò, si arriva a evincere la ricchezza del discorso attuale sul colonialismo italiano, iniziato in maniera critica solo alla metà degli anni Settanta del Novecento e ancora in itinere secondo nuove prospettive di ricerca. Se fino alla fine del secolo scorso il proposito era quello di mettere da parte ogni difesa indiscriminata dell’operato italiano in Africa, negli ultimi vent’anni l’africanistica si è posta l’obiettivo di scrivere una storia del colonialismo italiano in modo non eurocentrico e unilaterale, cioè superando la “storia dell’espansione coloniale in Africa” per approdare a una narrazione che tenga conto delle interazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra italiani e africani, con questi ultimi caratterizzati ciascuno dalle peculiarità derivanti dalla propria storia precoloniale.
Tale orizzonte metodologico è visibile nell’introduzione a cura di Antonio M. Morone, in cui viene posta la domanda cardine attorno a cui ruota l’intera indagine del volume: quando è finito il colonialismo italiano? La risposta prende le distanze dalla classica interpretazione che vuole far coincidere la perdita delle colonie durante la Seconda guerra mondiale con la fine del discorso coloniale in Italia. Infatti, all’occupazione da parte delle truppe inglesi e del Commonwealth di Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia tra il febbraio 1941 e il gennaio 1943, la nuova classe dirigente sorta dalla fine del fascismo continuò a coltivare il desiderio di tornare in Africa, seppur in un modo anacronistico. In Francia e in Inghilterra, la dottrina coloniale liberale incentrata sulla “missione civilizzatrice” fu riformata negli anni Quaranta in un impegno a perseguire una politica in favore dello sviluppo delle colonie, al fine di conservarne il controllo. Il colonialismo italiano, invece, continuò a sostenere la civilizzazione, dimostrando a livello diplomatico un bias che lo mise in contrapposizione con la Gran Bretagna, storica alleata nello scenario dello “Scramble for Africa”. Solo nel maggio 1949 lo scenario sembrò mutare, quando il compromesso bilaterale Bevin-Sforza sostenne, senza successo, all’Assemblea generale dell’ONU la tripartizione della Libia tra Italia, Francia e Gran Bretagna, che avrebbero ottenuto rispettivamente la Tripolitania, il Fezzan e la Cirenaica; la bipartizione dell’Eritrea tra Etiopia e Sudan inglese e infine l’assegnazione della Somalia all’Italia per dieci anni sotto l’insegna dell’amministrazione fiduciaria. Delle tre proposte, solo l’ultima passò, portando nell’ottobre del 1949 all’istituzione dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia), che per dieci anni riconsentì all’Italia di esercitare un’influenza diretta in Africa, questa volta appoggiando e guidando l’indipendenza della Somalia fino al 1960, vero anno di conclusione della parabola coloniale italiana.
Partendo dalle considerazioni contenute nell’introduzione, il lettore può addentrarsi nella prima delle tre parti del volume, in cui la politica coloniale dell’Italia repubblicana viene analizzata sia nelle sue caratteristiche ideologiche, sia presentando due casi di studio relativi allo scenario libico. In particolare, il contributo di Massimo Zaccaria illustra in modo efficace le tematiche fondanti del discorso coloniale in atto durante il centrismo degasperiano, sottolineandone le continuità rispetto al fascismo, ma anche gli elementi innovativi determinati dall’assetto bipolare della Guerra fredda e dalla nascita dell’europeismo. Il tortuoso cammino verso l’indipendenza della Libia viene analizzato da Antonio M. Morone e Tommaso Palmieri attraverso due studi complementari, il cui punto di forza consiste nel far dialogare il tema del frastagliato scenario politico interno alle regioni libiche con quello delle ingerenze francesi, italiane e britanniche.
Composta di tre contributi, la seconda parte del volume si concentra sull’inserimento della vicenda coloniale italiana del secondo dopoguerra nell’eterogeneo scenario continentale africano, caratterizzato dai profondi mutamenti causati dai vari processi di decolonizzazione. Scritto da Antonio M. Morone, il primo caso di studio offerto al lettore si riferisce alla Somalia, il cui passaggio da colonia a stato indipendente nel corso del decennio 1950-1960 viene analizzato prendendo in considerazione l’evoluzione della presenza militare italiana e somala sul territorio. Risulta interessante notare come a saltare all’occhio in questa sezione del volume siano i “momenti di passaggio”: come la progressiva somalizzazione dell’apparato di polizia dell’AFIS, oppure il rinnovamento della politica italiana in Africa durante la crisi congolese del 1960-1964, fondato sui presunti meriti acquisiti dal nostro Paese attraverso la guida del processo di indipendenza della Somalia e sul proposito di aumentare la presenza commerciale ed economica italiana nel continente. Quest’ultimo argomento è l’oggetto di analisi del terzo contributo, scritto da Antonio M. Morone, il quale fornisce, inoltre, un’interessante panoramica delle posizioni della politica italiana riguardo l’eccidio di Kindu. Nel secondo contributo, Mauro Mazza osserva il tema del passaggio da una “Africa vecchia” a una “Africa nuova” attraverso la lente propria dello storico del diritto, riservando particolare attenzione alla Somalia, unico Stato al mondo ad avere una costituzione modellata su quella italiana. Superando la tendenza a guardare in modo unitario il diritto africano, l’autore descrive il vario intrecciarsi del diritto consuetudinario, religioso, coloniale, socialista e nazionale all’interno delle diverse realtà statuali, soffermandosi su come non si possa parlare di “passaggio” da un tipo di diritto a un altro, ma di un reciproco influsso che sia all’interno del continente sia all’interno dei singoli Stati conduce all’attuale pluralismo giuridico. Il diritto coloniale è dunque solo un aspetto della storia del diritto africano, così come il colonialismo è solo una fase della più ampia storia africana.
La terza parte del volume presenta quattro casi di studio omogenei per la loro impostazione metodologica. Attraverso dati demografici, fonti storiche e numerose interviste, viene proposta dagli autori una visione “dal basso” della fase finale del colonialismo italiano, in cui i soggetti sono gli stessi italiani e africani che vissero quel periodo storico. Emanuele Ertola si sofferma sull’analisi della società italiana nell’Etiopia Hailé Selassié, illustrando efficacemente il ribaltamento tra dominante e dominato che sconvolse l’identità di chi rimase nell’ex Africa Orientale Italiana; Matteo Grilli invece indaga le condizioni di vita delle comunità italiane durante i processi di indipendenza di Ghana e Congo, fornendo al lettore due casi di studio emblematici per comprendere la situazione dei nostri connazionali in Stati africani sorti da tipologie di colonialismo differenti da quelle italiane. Gli ultimi due contributi testimoniano ulteriormente quanto il tema dell’identità e della mobilità siano il perno di questa parte del volume. Valentina Fusari illustra le complesse modalità attraverso le quali, in differenti momenti della nostra storia, gli italo-eritrei tentarono di acquisire la cittadinanza italiana. Le testimonianze orali si fondono all’analisi dei decreti di età liberale, fascista e repubblicana, rendendo tutta la complessità di un caso di studio che nasce dall’esigenza di individuare le eredità del passato coloniale italiano, dimostrando quanto esso si rifletta in maniera evidente anche nella nostra contemporaneità. Nel riportare le vicende di alcune domestiche eritree trasferitesi a Roma negli anni Sessanta e Settanta, Sabrina Marchetti sviluppa un’originale analisi dell’ambivalenza del legame post-coloniale tra italiani ed eritree. Se da un lato risaltano le continuità fra il periodo coloniale e la situazione attuale, in cui la gerarchia tra colonizzatore e colonizzato viene riproposta nella forma del datore di lavoro italiano e della domestica eritrea, dall’altro, il sentirsi capaci nel proprio lavoro da parte delle lavoratrici risulta un motivo d’orgoglio, che porta a reputare tale condizione non come un elemento di marginalizzazione, ma come uno strumento per ottenere un riconoscimento nella comunità romana.
Al termine della lettura del volume viene da chiedersi quante altre prospettive di ricerca offra la storia del colonialismo italiano per comprendere il nostro presente, in cui non si tratta di concepire l’Italia in rapporto all’Africa, ma di costruire un discorso in cui entrambe le realtà dialoghino in maniera costruttiva. A tal proposito, un volume di questo tipo risulta indispensabile per far compiere al nostro Paese una “resa dei conti” col proprio passato coloniale e con la fine di esso, sviluppando un discorso storico e politico sulla decolonizzazione che in altre realtà europee sembra già essere affermato. L’analisi della fine del colonialismo italiano, con la sua peculiare internazionalizzazione della vicenda, deve farci riflettere su come esso sia l’unico in cui non vi fu uno scontro diretto tra colonizzato e colonizzatore, capace di generare un ripensamento di alcune categorie culturali e identitarie: categorie con cui oggi il nostro Paese necessita di confrontarsi.