“La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson
- 12 Giugno 2017

“La fine del dibattito pubblico” di Mark Thompson

Recensione a: Mark Thompson, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 432, 22 euro (scheda libro)

Scritto da Roberto Bertoni

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Basta prendere in esame i casi relativi alla politica americana, ai suoi eccessi verbali, alla sua esuberanza dialettica e alla sovrabbondanza della medesima nel corso dell’ultima campagna elettorale per rendersi conto dell’importanza del saggio di Mark Thompson, intitolato: “La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”.

Thompson, ex direttore generale della BBC e attualmente direttore generale del “New York Times” valuta, dunque, da un osservatorio privilegiato l’imbarbarirsi di un confronto politico e civile che, come ha evidenziato la recente campagna elettorale che ha visto contrapposti Hillary Clinton e Donald Trump, ormai di fatto non esiste più.

La riflessione che fa da sfondo al saggio, infatti, riguarda le condizioni in cui versa ormai l’Occidente: incattivito, privo di sogni, di utopie e di speranze, imbastardito al punto che ogni argomento, persino quelli che un tempo avrebbero consigliato cautela e attenzione agli interessi nazionali, può oggi trasformarsi nell’oggetto di una campagna propagandistica senza esclusione di colpi, di cui le macabre trovate di Sarah Palin all’indirizzo di alcune misure assunte da Obama in ambito sanitario costituiscono solo un esempio.

 

Se anche Thompson ha finito le parole

Non è certo un caso, del resto, che il primo capitolo si intitoli: Non ho parole, manifestando sin dall’inizio tutto lo scetticismo e le preoccupazioni di chi vede sfuggire ogni prospettiva davanti ai propri occhi e, forse, per la prima volta nella propria vita, pur ricoprendo un ruolo apicale e di grande prestigio, si considera impotente.

Al centro di quest’opera, difatti, non ci sono solo le proposte per uscire dalla spirale perversa in cui siamo sprofondati ma anche un sentimento di profonda malinconia che pervade lo snodarsi della riflessione, toccando in alcuni passaggi vette allarmanti e ricongiungendosi anche alla vita politica e mediatica del nostro Paese, come si evince dalla citazione posta all’inizio del secondo capitolo in cui, con un capolavoro di retorica, Berlusconi asserisce di non sopportare la retorica e di essere interessato unicamente a ciò che va fatto.

Già, il mito del self-made man, dell’uomo solo al comando, dell’imprenditore che si afferma sbaragliando la concorrenza, questo mito duro a morire che altro non è che l’emblema del trentennio liberista che stiamo tentando di lasciarci alle spalle.

Thompson analizza, scarnificandole, le tendenze in atto nel mondo occidentale contemporaneo, citando ad esempio la contrapposizione feroce fra l’allora Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, e il Ministro dell’Interno ombra laburista Ed Balls, entrando nel merito dei punti di contatto e delle profonde divergenze fra i due, in un contesto legato alle politiche sociali e al loro mantenimento che coinvolge l’intero universo occidentale.

A detta dell’autore, infatti, stiamo vivendo un classico passaggio d’epoca, con l’esaurirsi dell’immaginario neo-liberista e di tutto ciò che esso comportava anche in termini di linguaggio e l’affacciarsi sulla scena di una nuova stagione bisognosa di un linguaggio in grado di darle un corpo e un’anima.

C’è, difatti, un filo rosso che lega l’ultimo trentennio, accomunando sia le esperienze di centrodestra sia quelle di centrosinistra, ossia una sostanziale continuità fra le politiche seguite. Lo stesso Thompson mette in evidenza come Tony Blair e la sua compagine di governo non si siano affatto discostati dall’impronta data al Regno Unito dalla Lady di ferro; anzi ne abbiano seguito l’impostazione economica e sociale di fondo, al punto da sfondare fra l’elettorato moderato e centrista, assicurandosi un decennio di permanenza al numero 10 di Downing Street.

Come l’89 ha costituito uno spartiacque per il mondo sovietico, dunque, così il 2016 ha costituito uno spartiacque per il mondo occidentale, solo che ancora non ne abbiamo preso atto, o almeno non del tutto.

 

Di fronte a Trump non siamo ancora diventati adulti

Cosa rappresenta Donald Trump per l’America e per l’Occidente? La risposta di Thompson è piuttosto chiara:

“Immaginate un test. Potrà essere ingiusto dargli il nome di una persona, in fondo Donald Trump è un sintomo, non la causa della malattia, ma per lo meno questo titolo chiarisce le mie intenzioni. Il test Trump è una misura della salute del linguaggio pubblico. Per superarlo, il linguaggio deve permettere ai cittadini comuni di distinguere al volo i fatti dalle opinioni, il discorso politico adulto dalle pure assurdità.
Al momento, non solo negli Stati Uniti ma anche in Gran Bretagna e in altri paesi occidentali, è palese che il nostro linguaggio pubblico non sta superando l’esame. Nelle ultime pagine, ho proposto alcuni passi che potremmo intraprendere per fermare il declino, ma io sono il primo a sconsigliare di affidarsi esclusivamente a questi. Anche se fossero adottati da tante persone, probabilmente gli effetti sarebbero modesti. E troppi protagonisti sono essi stessi prigionieri della spirale verso il basso per essere certi persino di questo effetto limitato.
No, se vogliamo che la nostra retorica torni in salute non dobbiamo solo pensare ai cambiamenti comportamentali a breve termine ma anche alle fondamentali forze culturali e sociali che influenzano il nostro linguaggio”.

E ancora:

“I semi del rinnovamento del linguaggio pubblico germogliano in posti inattesi e dove i pessimisti culturali meno se li aspetterebbero: sulle labbra degli immigrati e dei profughi; nelle città di confine e nei margini sfrangiati della nostra società dove la gente ha meno da perdere e più da dire perché ha più motivi per essere arrabbiata; in contesti apparentemente lontani dal teoricamente serio lavoro della politica e del giornalismo”.

Valutando la parabola di Trump, il razzismo insito nei suoi discorsi, il suo linguaggio sguaiato e diretto e il suo parlare alle viscere dell’America profonda e stremata dalla crisi, è evidente che i timori legati alla contaminazione linguistica, e alla mescolanza in generale, hanno avuto il loro peso, tutt’altro che marginale, nell’affermazione del tycoon lo scorso 8 novembre.

Perché l’America profonda, rurale e riunita nella rust belt dei vecchi stati operai, là dove la crisi si è fatta sentire maggiormente, al pari delle delocalizzazione e degli effetti delle politiche clintoniane degli anni Novanta e di quelle bushiane dei primi anni Duemila, quell’America detesta il melting pot, l’integrazione fra culture diverse e il concetto stesso di apertura e di inclusione.

Quell’America è la principale sostenitrice di personaggi estremi come la Palin, delle predicazioni fondamentaliste della destra più conservatrice e degli eccessi verbali dei cosiddetti Tea Party, in quanto allo scarso livello culturale si somma una comprensibile rabbia per l’impoverimento cui è andata incontro negli ultimi trent’anni.

 

Dalla società affluente alla società della paura

Non c’è dubbio che oggi sia la paura a dominare il dibattito pubblico e l’immaginario collettivo, proprio come negli anni Cinquanta-Sessanta era il sentimento opposto, ossia la speranza. Del resto, basta analizzare la linea politica dei presidenti succedutisi a cavallo fra il ’45 e il ’65 per rendersi conto che, pur appartenendo a culture politiche diverse, seguivano tutti una precisa linea d’azione, cioè quella dettata da Roosevelt negli anni della Grande Depressione e della disperazione dilagante.

Sia pur con qualche piccolo aggiustamento, dovuto alle divergenze politiche e caratteriali dei vari protagonisti, il Roosevelt moment è durato in America per circa quarant’anni, così come in Europa sono andate per la maggiore le politiche keynesiane improntate al Piano Beveridge e alla strenua difesa dello stato sociale.

È stata la rivoluzione economico-culturale del duo Reagan-Thatcher a modificare lo scenario globale, generando un conseguente imbarbarimento che ha riguardato ogni ambito della società, compresa ovviamente la comunicazione.

Scrive, a tal proposito, Thompson:

“Verso la fine degli anni Ottanta ho partecipato a uno degli sforzi più poderosi mai messi in atto per respingere questa predominante visione giornalistica. Lavoravo ancora alla BBC ed ero tornato a Londra per diventare redattore capo di Newsnight. Era un periodo in cui i rapporti tra l’emittente e il governo Thatcher erano più o meno interrotti. Un’incauta indagine di Panorama sull’estremismo nel Partito conservatore (“La tendenza militante di Maggie”) aveva portato a una causa per diffamazione e, per la BBC, disastrosa. Un anno dopo, il governo Thatcher s’era scagliato contro un documentario della BBC, Real Lives: At the Edge of the Union, nel quale compariva il comandante dell’IRA Martin McGuinness, accusandolo di portare una minaccia alla sicurezza nazionale. Poi alcuni ministri avevano criticato i servizi della BBC sui bombardamenti americani in Libia del 1986, che avevano avuto l’appoggio britannico, accusandoli di imprecisione e parzialità”.

L’imbarbarimento ha dunque radici piuttosto antiche, di gran lunga precedenti all’avanzata del terrorismo islamico e all’ascesa del magnate televisivo che da alcuni mesi siede nello studio ovale.

Anche Tony Blair, dal canto suo, ha formulato una riflessione in merito al rapporto fra la politica e i mezzi d’informazione e Thompson la riporta all’inizio del quinto capitolo:

“Sto peggiorando? Ancora una volta risponderei di sì. Nei miei dieci anni ho notato tutti questi elementi evolvere con sempre maggior forza. Si auspicava, e intendo anche me stesso, che fosse in arrivo un miglioramento, che nuove forme di comunicazione avrebbero portato nuovi sbocchi per bypassare il tono sempre più gridato dei media tradizionali. In realtà le nuove forme possono essere ancora più dannose, meno equilibrate, più succubi delle ultime teorie del complotto”.

È esattamente così: in questo caso, Blair ha centrato il punto.

Il problema è che i social network, per funzionare e non trasformarsi in trappole infernali per la democrazia, avrebbero bisogno di una politica forte, di soggetti strutturati e radicati all’interno della società e, soprattutto, di minori incertezze rispetto a quelle che stiamo vivendo in questa stagione, caratterizzata, contemporaneamente, dalla mancanza di lavoro e di opportunità per le nuove generazioni, dalle minacce legate al terrorismo e da cambiamenti tecnologici talmente repentini che si fa sempre più fatica a star loro dietro.

 

Una cattiva comunicazione danneggia la democrazia

Il dito dell’autore viene puntato sistematicamente, fin dal sottotitolo, contro la retorica. Ora, che un eccesso di retorica possa rivelarsi, e si stia rivelando, dannoso è fuor di dubbio. Fatto sta che il vero problema, a livello politico ma anche giornalistico e di comunicazione in generale, non è tanto la retorica quanto la demagogia. E se questa retorica violenta, esasperata ed esasperante sta trovando un terreno tanto fertile è perché le ideologie del Novecento hanno esaurito la propria spinta propulsiva e non sono state sostituite da ideologie nuove e all’altezza del dibattito pubblico del nostro secolo, fino a convincersi, almeno nelle sterili discussioni di casa nostra, che possano esistere partiti o coalizioni post-ideologiche.

Considerando che ideologia viene dal greco e che vuol dire, letteralmente, “discorso su una visione”, è chiaro che la confusione nella quale siamo immersi sia dovuta proprio all’assenza di una visione non solo da parte degli attori politici ma anche di quel vasto mondo che racconta le loro azioni quotidiane senza essere in grado di interpretarle alla luce di un disegno più ampio della mera descrizione di avvenimenti che sono sotto gli occhi di tutti e di retroscena che, a lungo andare, assumono contorni quasi morbosi.

Basti pensare ad un argomento concreto che è stato al centro del nostro dibattito pubblico per mesi: i vaccini. C’è una frase di Trump, posta all’inizio del capitolo 9 (intitolato, non a caso, Gettare nel camino) che vale più di mille analisi sul personaggio: “Ho una mia teoria, ed è una teoria a cui alcuni credono, e riguarda le vaccinazioni. Intendo dire che non abbiamo mai avuto una cosa del genere. Ormai è un’epidemia. Si è diffusa parecchio negli ultimi dieci anni… negli ultimi due anni. E sapete, quando portate un piccino che pesa cinque chili dal dottore e gli iniettano tanti, tanti vaccini contemporaneamente… Io sono a favore delle vaccinazioni, ma credo che, quando metti tutti quei vaccini insieme, due mesi dopo il bambino è molto diverso e sono successe tante cose diverse, sul serio… e conosco dei casi”. Era il 2012 e nessuno, all’epoca, credeva che un personaggio del genere potesse diventare presidente degli Stati Uniti.

Cos’è questo se non un classico esempio di ignoranza mista a sproloquio? Ovviamente Trump non sa nulla di vaccini però ne parla, i media rilanciano ciò che ha scritto magari sui social network ed ecco che qualunque sua affermazione, vista l’importanza del soggetto in questione, entra a far parte dell’immaginario collettivo.

Come sopravvivere, dunque, ad una liquidità che sta rendendo la nostra società sempre più fragile, fino ad indurla a chiudersi in se stessa? Come restituire alla lingua della democrazia, e anche a quella della politica, una sua dignità e una prospettiva meno amara? Una via possibile, che può essere suggerita dalla lettura di questo libro, è quella della ricostruzione di un sistema ideologico degno di questo nome, che restituisca un minimo di solidità all’assetto sociale e un minimo di umanità ai nostri rapporti personali. Bisognerebbe inoltre coltivare una sorta di etica del linguaggio che miri a responsabilizzare tutti ma, in particolare, chi ricopre un ruolo pubblico che lo rende, di fatto, una guida e un punto di riferimento per gli altri.

Scritto da
Roberto Bertoni

Classe 1990, di Roma. Giornalista free lance, scrittore e poeta, collabora da anni con diverse testate, cartacee e on-line, ed è autore di saggi, racconti, romanzi, raccolte di poesie nonché di quattro libri-intervista.

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