Recensione a: Lorenzo Trapassi, La fragile intesa. Berlino e le relazioni euro-atlantiche nei primi anni della Guerra fredda, Prefazione di Vincenzo Amendola, Luiss University Press, Roma 2022, pp. 178, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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L’attuale crisi dell’ordine globale, segnata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022, ha riportato al centro del dibattito pubblico il delicato tema dei rapporti diplomatici tra i diversi Paesi. Solidità o fragilità di alleanze storiche, convergenza o divergenza di interessi, difformità negli approcci alla guerra. Ad esempio, sin dalle prime settimane del conflitto si sono registrate molteplici differenze all’interno del patto atlantico, per cui l’assertività anglosassone non ha trovato piena adesione nelle cancellerie dell’Europa occidentale; così come all’interno della stessa Unione Europea vi sono state numerose rotture, basti pensare alla politica spiccatamente antirussa promossa dalla Polonia rispetto alla più interessata neutralità ungherese.
In questo contesto, particolare attenzione merita il fragile rapporto tra Stati Uniti e Germania: Berlino come incognita degli americani in Europa, Washington come alleato inaffidabile oltreoceano. Per comprendere le dinamiche attuali, risulta innanzitutto fondamentale adottare una prospettiva storica, senza la quale non sarebbe possibile orientarsi nel presente. In merito, è uscito un interessante libro del diplomatico Lorenzo Trapassi, che ha lavorato a lungo, tra le altre, presso l’ambasciata italiana a Berlino, intitolato La fragile intesa. Berlino e le relazioni euro-atlantiche nei primi anni della Guerra fredda, edito da Luiss University Press. Focalizzato su un determinato periodo storico, ossia la stagione del cancellierato di Konrad Adenauer (1949-1963), il volume offre una puntuale panoramica dei rapporti tra Stati Uniti e Germania in una fase cruciale della ricostruzione dell’ordine internazionale sulle macerie della Seconda guerra mondiale. Relazioni diplomatiche, albori della Guerra fredda, lo spettro dei partiti comunisti, l’ombrello imperiale statunitense, il piano Marshall, la Nato, il patto di Varsavia, il Muro di Berlino e la crisi missilistica di Cuba: un contesto in cui le ambizioni di Bonn, capitale della Germania Ovest, hanno spesso faticato a conciliarsi con gli obiettivi di Washington; dove i singoli leader, a partire da Adenauer, hanno provato a “fare la storia” in una cornice di vincoli ed emozioni, realpolitik e psicologie collettive. Il risultato è un libro prezioso che, scavando soprattutto tra le memorie dei protagonisti di quella stagione, riesce a fotografare un passato che è anche presente; a parlare di ieri ma anche di oggi.
Il punto di partenza dell’analisi di Trapassi si colloca nella Germania dell’immediato dopoguerra: sconfitta, occupata da russi e americani, priva di sovranità. In particolare, nell’ottica di affrontare le relazioni con Washington, l’autore evidenzia come in quel periodo covasse nel popolo tedesco un sentimento ancora spiccatamente antiamericano; non solo perché si trattava dell’ex nemico, ma anche per talune brutalità da questi perpetrate, come il bombardamento di Dresda o gli abusi commessi dai militari statunitensi, nonché per una più generale diffidenza verso il mondo anglosassone preesistente all’ascesa di Hitler e radicata nelle profondità culturali del popolo tedesco (espressa, ad esempio, da Friedrich Nietzsche o Thomas Mann). Nel complesso, era diffusa la convinzione che si trattasse più di una umiliante oppressione che di una liberazione. D’altro canto, nemmeno da parte americana vi era empatia verso il popolo tedesco: il marchio del nazismo era difficile da eliminare, al punto che, ricorda Trapassi, il generale Dwight D. Eisenhower, dopo avere visitato il campo di concentramento di Ohrdruf (parte del complesso di Buchenwald), dichiarò che in vita sua non avrebbe più stretto la mano a un tedesco. Nel 1944 fu addirittura presentato a Roosevelt e a Churchill, dal Segretario di Stato al Tesoro degli Stati Uniti Henry Morgenthau Jr., un piano finalizzato a rendere la futura Germania un Paese a vocazione agricola, privandola dei propri asset industriali. L’antagonismo, in altre parole, era non solo reciproco, ma anche piuttosto radicato.
Successivamente, il pragmatismo, sia degli Stati Uniti, che rigettarono soluzioni così drastiche, che della Germania Ovest, la quale accettò la circostanza per cui il proprio benessere economico e la propria sicurezza rispetto a Mosca sarebbero dovute per forza di cose passare per Washington, consentì un miglioramento delle relazioni tra i due Paesi. «A segnare una svolta nei sentimenti dei tedeschi occidentali nei confronti degli Stati Uniti furono tre avvenimenti che ebbero luogo a cavallo fra il 1947 e il 1948, destinati non soltanto a mutare per sempre le relazioni fra gli Stati Uniti e la Germania, ma soprattutto a modificare la percezione degli abitanti della Germania Ovest nei confronti degli americani, nonché le loro aspettative verso il ruolo degli Stati Uniti rispetto alla rinascita dello Stato tedesco: la creazione della cosiddetta “bizona” di occupazione anglo-americana, il lancio del Piano Marshall e il ponte aereo su Berlino» (pp. 40-41).
Il primo fu un passaggio prodromico alla restaurazione di una sovranità tedesca sui territori occupati dagli alleati, che avrebbe poi portato alla costituzione della Repubblica Federale di Germania il 23 maggio 1949; il secondo permise il rilancio economico della Germania Ovest, segnando allo stesso tempo una cesura con la parte Est, esclusa dal piano Marshall e destinata a rimanere nell’orbita del modello alternativo sovietico; il terzo accrebbe la fiducia della popolazione di Berlino Ovest (ma in generale dell’intera Repubblica Federale) verso gli americani, che risposero alla decisione sovietica del 24 giugno 1948 di bloccare le vie di accesso alla città con un efficace ponte aereo in grado di rifornire la parte occidentale di tutti i beni necessari. Una vittoria che costrinse i sovietici a ritirare il blocco l’11 maggio 1949 e convinse, ma anche illuse da un certo punto di vista, i tedeschi della parte occidentale che gli americani avrebbero garantito la loro sicurezza contro Mosca in ogni frangente.
Il pendolo altalenante dei rapporti tra Stati Uniti e Germania nel successivo cancellierato di Adenauer sarà determinato proprio da queste eccessive aspettative, in un continuo susseguirsi di speranze e disillusioni, passi avanti e passi indietro, armonia e disarmonia. Adenauer scelse come punto cardine della propria politica estera l’alleanza organica con gli Stati Uniti, al punto da subire l’accusa, specie dal fronte socialdemocratico guidato da Kurt Schumacher, fautore di una alternativa neutralista, di essere il “Cancelliere degli Alleati”. Di conseguenza, la vittoria alle urne dei partiti di centro e la nomina di Adenauer a cancelliere federale segnarono il primo passo verso il definitivo inserimento della Germania nel mondo occidentale guidato da Washington. Una adesione culturale e istituzionale, compensata dal benessere economico e dalle garanzie di sicurezza derivanti dall’alleanza con il partner oltreoceano, all’epoca prima potenza economica e militare indiscussa.
Questo non bastò però a superare la discrasia tra i diversi obiettivi dei due Paesi. Adenauer riteneva la riunificazione delle due Germanie una priorità, così come le garanzie di sicurezza rispetto all’ingombrante presenza di Mosca ad Est; inoltre, sul piano dei rapporti con gli Stati Uniti, insisteva sull’importanza di un ruolo di parità e del rispetto dei principi del diritto internazionale, aspetti troppo spesso disattesi dall’unilateralismo di Washington nelle decisioni più pregnanti. Gli Stati Uniti, invece, perseguivano i propri interessi senza dare garanzie di affidabilità ad un partner ritenuto, per forza di cose, minore. Un rapporto profondamente impari, che suscitava nel cancelliere tedesco una certa inquietudine. «In un colloquio con il presidente federale Heuss, ad esempio, il cancelliere Adenauer confessò di non sentirsi tranquillo per il fatto che la sicurezza della Germania e dell’Europa occidentale dipendesse di fatto da scelte di politica interna degli Stati Uniti, un Paese che ogni quattro anni viveva una lunga campagna elettorale per la Casa Bianca, poteva cambiare leadership e avrebbe quindi potuto rivedere le proprie strategie sulla scena internazionale, con conseguenti vantaggi o pregiudizi per gli alleati. Una percezione di impotenza fastidiosa per la dirigenza di un Paese che, anno dopo anno, vedeva rapidamente accrescere il proprio peso politico, economico e militare in Europa e nello scacchiere dell’alleanza atlantica, una sensazione tanto più insopportabile perché aggravata da quella generale valutazione di inaffidabilità che i politici tedeschi attribuivano ai partner americani, a confronto con la generale stabilità e prevedibilità delle dinamiche politiche di Bonn» (p. 58).
I segnali di disincanto non tardarono ad arrivare. Una prima delusione fu rappresentata dallo scemare dell’obiettivo della riunificazione. La dottrina Truman perseguiva la strategia del contenimento e il presidente americano non si spese per una Germania unita; la fondazione delle due repubbliche, federale e democratica, a distanza di pochi mesi, fu un chiaro passo in tale senso. Una seconda delusione consistette poi nel riarmo tedesco, permesso dagli Stati Uniti nel 1955, così da avere una eventuale prima linea di difesa ad Est, ma privo di copertura nucleare e, nel complesso, decisamente limitato. Infine, a segnare le disillusioni del cancellierato di Adenauer negli anni Cinquanta vi fu, in generale, la sempre maggiore consapevolezza della volontà di Washington di mantenere lo status quo.
Il momento di maggiore disincanto sarà però rappresentato dalla costruzione del Muro di Berlino, verso il finire del cancellierato di Adenauer. La controparte americana in quella fase sarà John Fitzgerald Kennedy, insediatosi come presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1961 e fautore, sottolinea Trapassi, della “dottrina della risposta flessibile”, che escludeva l’arsenale atomico in reazione a eventuali attacchi sovietici verso Ovest. In generale, Kennedy si dimostrò fin da subito poco sensibile alla questione tedesca. La svolta, anche per quanto riguarda la percezione degli Stati Uniti nell’opinione pubblica tedesca, arrivò proprio con la costruzione del Muro. Una sfida che mise in difficoltà il cancelliere Adenauer e il sindaco di Berlino Ovest Willy Brandt. Nel complesso, la fine di molte illusioni.
«Come rilevato nelle memorie e nelle affermazioni di politici di primo piano come Adenauer, Brandt, Strauss e Krone, la costruzione del Muro provò una volta per tutte l’inaffidabilità americana per il conseguimento della riunificazione, determinando così la fine delle illusioni attorno a un’alleanza inizialmente nata sotto i migliori auspici. È chiaro che nessun esponente della dirigenza tedesca mise mai in discussione l’alleanza con gli Stati Uniti, neppure nei giorni più caldi della costruzione del Muro; tuttavia finirono le illusioni suscitate nella leadership della RFT dal fondamentale supporto di Washington nel consentire alla Germania di rinascere come Paese e come potenza economica. Un supporto che a Bonn diede l’illusione di poter durare fino al conseguimento della riunificazione, ma che invece venne meno proprio nel momento in cui la divisione della Germania apparve ancor più evidente e inevitabile, ossia in occasione della costruzione del Muro. Il fatto che Washington, al contrario, abbia accettato il Muro come qualcosa di ineluttabile significava che la riunificazione tedesca non costituiva affatto un obiettivo della politica estera dell’impero americano, bensì che potesse essere sacrificata perché in contrasto con la volontà di Washington di evitare un conflitto con Mosca» (pp. 109-110).
Alla crisi di Berlino seguirà un anno dopo quella missilistica di Cuba. In ambedue i casi, si trattò di passaggi delicati, indicativi del modus operandi degli Stati Uniti. In generale, il periodo che va dal 1961 al 1962 fu segnato, sostiene Trapassi, da una profonda crisi di fiducia tra Washington e Bonn. Sintomo di un’intesa, come dal titolo, intrinsecamente fragile.
Nella prospettiva di Adenauer il partner di oltreoceano fu un alleato inaffidabile. Da un lato vi era sicuramente la gratitudine verso gli Stati Uniti per avere favorito la ricostruzione della Germania Ovest; dall’altro, non è mai venuta a mancare quella sensazione di impotenza dettata dal fatto che, in un modo o nell’altro, la sovranità ripresa fosse limitata, eccessivamente legata alla volontà di Washington – come in misura diversa accadde per l’Italia, cui Trapassi dedica l’ultimo capitolo, focalizzandosi in particolare sulla figura di Alcide De Gasperi. Un prezzo, forse, da pagare per il benessere e, soprattutto, la sicurezza, affidata all’ombrello militare statunitense. Ma anche un rischio, che relegava il Paese in posizione subordinata, sulla prima linea di fuoco, per dirla con il lessico militare. Quanto è apparso chiaro a Bonn fu l’indisponibilità degli Stati Uniti a rischiare un conflitto con Mosca per la questione tedesca, che fosse la riunificazione o il Muro. Gli interessi americani prediligevano uno status quo orientato alla stabilità. Solo in secondo luogo veniva la sicurezza di Berlino Ovest e della Repubblica Federale, così come le loro istanze. Questa realtà influenzò notevolmente il rapporto tra i due Paesi, impedendone un completo allineamento. Questione, tra l’altro, di estrema attualità, se pensiamo alle grandi turbolenze geopolitiche dell’oggi: dopo sessant’anni, riemergono antiche incomprensioni, diffidenze, convergenze e divergenze. Da questo punto di vista, la lettura del volume di Lorenzo Trapassi appare quanto mai utile. Un valido punto di partenza per meglio comprendere la natura dei rapporti tra Stati Uniti e Germania. Della loro, storicamente, fragile intesa.