La geografia giuridica della globalizzazione
- 16 Marzo 2024

La geografia giuridica della globalizzazione

Scritto da Luca Picotti

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Come è organizzato il mondo? In Stati, confini e relative giurisdizioni. La lente del geo-diritto, categoria efficace avanzata dal grande giurista Natalino Irti in un suo fortunato libro, si occupa della relazione tra norma e luogo e trova particolare attualità in questa fase storica, ove l’ingranaggio degli scambi globali è sempre più percorso da ingerenze governative, conflittualità politiche e plurime normative. A cavallo della fine del secolo scorso, il rapporto tra norma e luoghi sembrava essere messo in discussione dall’emergere della globalizzazione, del capitalismo finanziario e digitale. Erano gli anni della letteratura sulla fine dello Stato, della lex mercatoria come nuovo paradigma e dell’emergere di istituzioni sovranazionali, arbitrati internazionali, formulari uniformi per i contratti del commercio internazionale. Uno strato giuridico apparentemente omogeneo, che portava la norma oltre i luoghi, nello spazio etereo dell’economia – che ambisce ad essere anywhere, non somewhere. Sarebbe ingenuo pensare che tutta questa narrazione fosse mera illusione. Un processo di globalizzazione giuridica c’è stato. Per chiunque operi in ambito di import-export, ossia il cuore della globalizzazione, è normale utilizzare la lingua inglese e i formulari internazionali, mentre il diritto interno (ad esempio italiano) che si studia all’università rimane residuale, se non del tutto inutile. Da questo punto di vista, lo shipping è emblematico e, se si pensa che il 90% in volume degli scambi del commercio internazionale avviene via mare, è chiaro che trattasi di una dimensione non secondaria. Quanto però è sempre mancato nell’analisi di cui sopra, e che oggi con il congelarsi dello scacchiere globale pare piuttosto evidente, è che tale sistema è andato ad aggiungersi, senza eliminarne le fondamenta, all’architettura vestfaliana del mondo, reggendosi in ultima istanza sulle sue strutture, proprio perché da questa tollerato e accettato.

Il mondo è diviso in Stati, così come emersi dal paradigma vestfaliano, ossia quali entità superiorem non recognoscens costituite dal trinomio governo-popolo-territorio. Quasi duecento realtà statuali delimitate da precisi confini, che vanno a riempire il globo, al netto di ogni fisiologica area grigia. Alla delimitazione territoriale, vale a dire la geografia del confine, corrisponde la relativa giurisdizione: ossia la sovranità non solo di fatto, ma anche di diritto, su persone fisiche e cose ricomprese in tale determinato spazio. E i tecnici del diritto sanno bene quanto possano essere intricati i conflitti di giurisdizione. In ogni caso, il punto che rileva è che vi è una geografia giuridica della globalizzazione: una società può essere costituita in un certo Paese e secondo la sua legge, essere controllata da azionisti appartenenti ad un altro Paese e sistema giuridico, detenere gli asset materiali in una giurisdizione e i conti in un’altra, rispondere a più tribunali e normative. Le stesse catene del valore non possono prescindere da tale geografia: non vi è un solo diritto che regola la supply chain.

Quali sono le conseguenze concrete di questa realtà? Innanzitutto, vi sono le tematiche più note, come la ricerca della giurisdizione più favorevole in termini fiscali, o di normative sull’ambiente e il lavoro, così da spostare alcune attività e abbattere i costi, in una logica che può vedere le diverse giurisdizioni in competizione tra loro per attrarre investimenti. Quello che però più rileva è la localizzazione degli asset, tangibili o intangibili. Sul punto, gli ultimi anni, percorsi da un deflagrare di normative protettive, sanzioni e controlli sull’export, hanno sollevato numerose problematiche di ordine giuridico proprio a partire da questo tema.

Poniamo che un’impresa italiana, costituita dunque sotto la legge italiana, decida di aprire una propria sussidiaria in Russia. Nel momento in cui effettua tale investimento, detto greenfield, costituirà una propria società controllata regolata dal diritto russo, non da quello italiano. Il controllo sarà italiano, e così dunque le linee guida in seno all’amministrazione, ma la vita di tale sussidiaria russa non può prescindere dalla giurisdizione del Paese ospitante. Questo ha e ha avuto conseguenze dopo il 24 febbraio 2022. Alcune società occidentali sono riuscite a uscire dalla Russia, chiudendo i propri asset ivi presenti o liberandosene, ma alcune sono state fermate (e lo sono ancora) dal Cremlino: difatti, un pacchetto azionario in una società di diritto russo è regolato da quest’ultimo; e Putin, anche per rallentare l’esodo delle imprese occidentali dal Paese, ha emesso un decreto tale per cui nei settori strategici ogni operazione di alienazione deve ottenere la sua autorizzazione. In questo modo, ha impedito temporaneamente alle imprese occidentali di liberarsi degli asset in Russia, nell’attesa quantomeno di trovare un buon acquirente.

Ancora, rimaniamo sempre nell’esempio russo. Se la sussidiaria è regolata dal diritto russo, vi è anche la possibilità della nazionalizzazione (con eventualmente una compensazione, anche se non è detto). Dunque, se nulla può Putin rispetto alla controllante situata in Italia o nell’Unione Europea, rispetto alla sussidiaria può provvedere a nazionalizzarla, acquisendone di fatto strutture, asset ecc. E qui la domanda: cosa succede se nella sussidiaria sono presenti asset strategici? Finiscono nazionalizzati? Questa è la ragione per cui tendenzialmente le tecnologie rimangono, formalmente, in capo all’impresa controllante nello Stato d’origine. Parallelamente, non è un caso che le normative protettive sugli investimenti esteri, si pensi al golden power italiano, prevedano la possibilità per i governi non solo di vagliare eventuali trasferimenti di sede all’estero, ma anche di imporre alcune condizioni in caso di acquisizione da parte di soggetto straniero relative proprio ai trasferimenti di determinati asset: così, se ad esempio una impresa cinese acquisisce la maggioranza di una impresa italiana, il governo può mettere come condizione all’operazione il fatto che non vengano trasferiti all’estero i siti strategici e le tecnologie. Un modo per mantenere tali asset in suolo italiano e, soprattutto, all’interno della sua giurisdizione.

Lo studio delle sanzioni e della loro effettiva implementazione aiuta a capire meglio tali dinamiche. Ad esempio, l’esclusione delle banche russe dal sistema di messaggistica SWIFT è stata possibile perché la relativa società è europea e, dunque, sottoposta al diritto europeo che ha imposto le sanzioni. Il fatto che una società così centrale nelle transazioni bancarie sia occidentale (e molto sensibile alle direttive di Washington), è un esempio di quello che i politologi Henry Farrell e Abraham Newman, nel libro Underground Empire, hanno definito come controllo dei choke-point delle infrastrutture finanziarie globali – che sono sì globali, ma appunto nella cornice delle singole giurisdizioni, come il caso SWIFT mostra. Anche il congelamento delle riserve della banca centrale russa risponde alle stesse logiche: nel momento in cui vengono depositate presso la stanza di compensazione belga Euroclear, questa, sottoposta al diritto unionale che ha adottato le sanzioni, potrà congelarle. È l’imprescindibile importanza delle giurisdizioni nella localizzazione degli asset.

Dopodiché, lungo la catena, l’implementazione delle sanzioni può al contempo scontare la complessità rispetto alle sussidiarie. Se io sono una multinazionale italiana, sottoposta dunque al diritto europeo in tema di sanzioni, e ho aperto una sussidiaria in Cina, costituita invece secondo il diritto cinese, anche questa dovrà rispettare le sanzioni? Di base si vorrebbe investire le misure restrittive di un potere extraterritoriale che ricomprenda anche le sussidiarie e, comunque, essendo il controllo in capo alla società madre italiana, le scelte aziendali della sussidiaria dovrebbero in ogni caso andare nella direzione indicata dalla prima. Eppure, il tema non è così scontato, perché se ci sono dei contratti in corso con una controparte russa non si può invocare le sanzioni di fronte a un tribunale cinese, perché il diritto cinese, sotto cui è costituita la società, non le contempla. È l’eterno dilemma sul volto di una impresa, che torna ricorrente anche in materia di investimenti esteri: conta di più la legge che regola la società o la nazionalità di chi la controlla? Esempio plastico della scissione del mondo in Stati, confini e giurisdizioni.

Anche perché, e questo è l’elemento centrale, il diritto esiste solo nel momento in cui è eseguibile. Ciò significa che debbono esserci un tribunale, delle strutture amministrative, una forza legittima (la polizia). Questi ingredienti si trovano solo nella dimensione nazionale, ragione per cui, molto spesso, dalle singole giurisdizioni statali non si può prescindere nemmeno nei casi di giustizia internazionale. Pensiamo all’arbitrato internazionale: per eseguire i singoli lodi – ossia ottenere nel concreto la soddisfazione sui beni della controparte – bisogna andare in un tribunale dello Stato in cui si trovano gli asset e non è detto che si riesca poi, nel concreto, ad ottenerli (per qualche eccezione di ordine pubblico e via dicendo). La forza di ultima istanza appartiene solo agli Stati. Questa poggia sulla giurisdizione e sulle strutture che consentono nel concreto l’esecuzione del diritto: corti, amministrazioni, monopolio legittimo della forza (polizia ecc.).

Quanto ne si ricava è, soprattutto, l’importanza della localizzazione degli asset. Ad esempio, è rischioso trasferire un sito strategico e le sue tecnologie in una sussidiaria costituita in un Paese inaffidabile, pena il rischio di una nazionalizzazione o comunque di interferenze della relativa giurisdizione. Ancora, se deposito le mie riserve all’estero corro il rischio che queste mi vengano congelate. È evidente come un tassello fondamentale della globalizzazione, specie quella degli ultimi decenni, era la fiducia. Perché operare in altre giurisdizioni, utilizzare valute straniere, dislocare i propri asset presso conti esteri, non è solo un fatto di convenienza economica, ma anche di analisi del rischio: affinché questo venga ritenuto accettabile, significa che vi è un minimo di fiducia reciproca o, meglio, di non-sfiducia. Ebbene, ora tale sistema è in parte crollato. Oggi vi è la consapevolezza, come mai vi era stata, che utilizzare il dollaro significa sottoporsi alla minaccia delle sanzioni americane; che depositare le proprie riserve presso Euroclear o utilizzare SWIFT significa anche accettare le giurisdizioni europee e le relative, latenti e potenziali sanzioni; che aprire una sussidiaria in Russia significa rischiare che questa venga nazionalizzata o che diventi un asset morto nel momento in cui il Cremlino non mi permette di liberarmene; che se anche vinco un arbitrato internazionale contro un’impresa cinese, non è detto che nel momento in cui vado a eseguirlo in loco mi venga riconosciuto nel concreto il credito.

Equilibri di forza e fiducia, potere e diritto, guerra e compromesso, deterrenza e reputazione. La grande sfida è come ricostruire un sistema di non-sfiducia in un mondo che, se da un lato è suddiviso in Stati, confini e giurisdizioni, con tutti i relativi rischi e l’intrinseca conflittualità, dall’altro non può fare a meno degli scambi reciproci. In altre parole, come disegnare un sistema adatto per un mondo globalizzato e frammentato allo stesso tempo.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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