Scritto da Alessandro De Rosa
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Hamlet Come, come, and sit down. You shall not budge.
You go not till I set you up glass
Where you may see the inmost part of you.
William Shakespeare, Hamlet, 3.4.17-19.
Non si può prescindere, in tempi considerati nel dibattito pubblico di “crisi della democrazia”, dal tornare alla riflessione della giuspubblicistica tedesca ed europea in merito a ciò che significò l’esperienza della repubblica di Weimar a cavallo tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Trenta del Novecento. Eppure essa, nel nostro discorso, non vuole e non può essere intesa – in quanto esperienza (che tiene insieme Erfahrung ed Erlebnis) decisiva del Novecento – attraverso una serie indicizzata di singole parabole teoretiche dalle quali provare ad abbozzare un malcelato rispecchiamento in un confuso esprit de l’époque. È, quest’ultimo, problema decisivo di come provare ad afferrare qualcosa che abbia a che fare con un sentimento delle cose, più che con le cose stesse. Come scrive Walter Benjamin nella sua Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, «l’induzione degrada le idee a concetti rinunciando alla loro articolazione e coordinazione, la deduzione ottiene lo stesso risultato proiettandoli in un continuum pseudologico»[1]; se è vero ciò, procedere induttivamente rende tale esperienza appiattita su una media di tipo statistico, mentre il suo metodo opposto rischia di universalizzare concetti attraverso i quali comprendere univocamente le complesse e talvolta contraddittorie trame del reale. Weimar allora deve risultare un’Idea, in senso precipuamente benjaminiano[2]: deve tenere insieme i suoi estremi opposti dialetticamente senza alcuna ossessione di risolverli in un primum algebrico, e contemporaneamente non deve ritrarsi in una speculazione volta a selezionare solo taluni concetti del reale per poi normativamente applicarli alle intelaiature storiche di tale esperienza, di fatto recidendone parti attraverso la indebita ipostatizzazione di presunti principi caratterizzanti.
La politica moderna, almeno a partire da una certa lettura[3], in questa sede condivisa, di Hobbes e del suo magnum opus è scienza. Non più l’osservazione dei fenomeni, ma l’esperimento: il bagaglio ipotetico caratterizza, parimenti, la rivoluzione scientifica nell’ambito della filosofia della natura del Seicento, la quale solo rozzamente intesa può essere compresa come un mero “ritorno all’esperienza”. Bisogna rendere una materia bruta e informe – quell’ammasso di uomini che nello stato di natura assomigliano a lupi[4] – in grado di vivere e non sbranarsi l’un l’altro, così come lo scultore deve modellare la bruta cera affinché da essa fuoriesca la sagoma umana. È questa la politica modernamente intesa: la fuoriuscita da una triviale uguaglianza che è presagio nefasto di morte per la creazione di un ordine al quale sottomettersi in cambio di protezione[5]. La razionalità formale che in tal modo si afferma crea un tale ordine da un presunto nulla, così come, per proseguire nella nostra similitudine, lo scultore può fare affidamento solo sulle idee e sulle proprie conoscenze per modellare la cera e creare qualcosa che assomigli ad una sagoma umana. In questo senso, allora, la politica moderna è tecnica ed il suo risultato è esso stesso un dispositivo tecnico: il Leviatano come Dio artificiale è il frutto di tale costruzione scientifica – ne era ben consapevole Carl Schmitt, il quale sottolineerà abbondantemente, in un importante saggio del 1938, l’importanza di tale elemento macchinico attraverso cui il Leviatano è diventato egemone in età moderna[6].
E se allora davvero la politica moderna è tecnica e la sua creazione è un dispositivo tecnico, essa potrà essere messa, quale macchinario, a confronto con altri e all’apparenza differenti dispositivi tecnici. In altri termini: se lo Stato moderno – rispetto a cui la repubblica di Weimar rappresenta, pur con le decisive e talora evidenti differenze, modello inconfondibile di una modernità – è assimilabile ad un dispositivo logico-concettuale di tipo tecnico, sarà bene provare a scrutarlo per quello che è, prenderlo sul serio fino in fondo, e associare parte del suo enigma alle straordinariamente feconde analisi in merito al problema filosofico intorno alla tecnica stessa.
Risibile sarebbe, da parte nostra, provare a sintetizzare in poche battute il dibattito instauratosi tra Otto e Novecento su tale epocale questione; risibile altrettanto mostrarne le differenze con quello greco, che possiede, naturalmente, sue specificità. Proprio per questo vogliamo, con consapevole selezione delle fonti, ripartire dal fondamentale capitolo tredicesimo del I libro di Das Kapital, consapevoli del valore paradigmatico che assume per noi il testo marxiano.
Il capitolo summenzionato, Macchine e grande industria, è l’ultimo della quarta sezione del testo, La produzione del plusvalore relativo; in esso, in un climax ascendente che porta dall’analisi della cooperazione semplice fin negli anfratti della grande industria, si descrive il processo storico reale attraverso cui viene aumentata la produzione di plusvalore non tramite l’allungamento della giornata lavorativa, bensì attraverso l’accorciamento del tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore della forza-lavoro, ovvero attraverso un aumento della forza produttiva del lavoro. Se quindi la questione della tecnica è presente – in modo preponderante – nell’intera sezione dell’opera, essa esplode, per così dire, nel momento in cui lo sviluppo delle forze produttive conduce al lavoro di fabbrica, ed è lì che dobbiamo tornare. Marx, nel quinto paragrafo del capitolo, espone l’esperienza storica del movimento luddista[7], il quale proponeva la distruzione in massa di macchine nei distretti manifatturieri inglesi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; egli è qui netto nel commentare tale vicenda: «Ci vuole tempo ed esperienza affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso»[8]. È interessante notare come in nuce in questi passi – non definitivi all’interno della stessa opera marxiana – vi sia la decisiva questione che avrebbe diviso due tra le più note costruzioni intellettuali del Novecento, quelle di Benjamin e Adorno: è davvero neutra, ovvero non fin da sempre orientata a produrre determinati effetti, la tecnica? Pur non negando la centralità che le forze produttive (non si dimentichi, a mo’ di esempio, quanta attenzione ha ricevuto la forma organizzativa della cooperazione nelle riflessioni operaiste e post-operaiste) rivestono all’interno del quadro della filosofia della storia marxiana, è davvero possibile ritenere che «lo svolgimento delle contraddizioni di una forma storica della produzione [sia] l’unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione»[9]? È senz’altro vero che un modo di produzione che voglia abolire la vecchia divisione del lavoro e socializzare i mezzi e i frutti di quel lavoro, debba necessariamente aver liberato, anzitutto materialmente, l’uomo dalla condizione di un lavoro poco produttivo, e tuttavia, senza alcuna intenzione apologetica nei confronti della conservazione (la quale spesso si nasconde dietro le più differenti e note visioni sul problema filosofico della tecnica) codesta liberazione sprigiona una forza neutra o fin da sempre orientata al proprio orizzonte specifico? A tale domanda non può, per ovvi motivi, rispondere in modo esaustivo un’introduzione, né essa può provare – come testé accennato – in modo rigoroso la bontà delle più svariate ipotesi al problema: non è questo il fine che ci siamo prefissati. Proprio per questo motivo crediamo che, in questa sede, torni utile far riferimento ad un contesto apparentemente distante dai luoghi della fabbrica capitalistica, un contesto nel quale la riflessione sulla tecnica esplose agli inizi del Novecento.
Non esiste testo nella storia dell’architettura novecentesca tanto sfingeo e controverso quanto Glasarchitektur[10]di Paul Scheerbart. Pubblicato nel 1914, né saggio né opera narrativa, ma commistione di entrambi, esso divenne in breve tempo uno dei principali punti di riferimento teorici dell’Espressionismo architettonico tedesco[11] in quanto manifesto di una volontà palingenetica nata a partire da un materiale, il vetro, assurto a elemento tecnico decisivo della nuova architettura di inizio secolo, e, nelle intenzioni di Scheerbart, dell’intera vita umana sulla Terra.
«Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con l’introduzione dell’architettura di vetro […]. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci una nuova civiltà»[12].
L’intera opera scheerbartiana mostra, con chiarezza espressiva, lontana da sterili formalismi, l’utopia della tecnica a servizio dell’umanità. Lo spazio aperto e liscio che il vetro rappresenta – uno spazio senza tagli né cesure – vuole obliterare la differenza tra un dentro e un fuori, tra pubblico e privato, tra notte e giorno. Il vetro è allora, in quanto tale, capace di farci apparire l’intera natura «in andrem Licht»[13]: una forza tale da plasmare interamente la nuova esistenza umana. Benjamin era ben consapevole dell’espressività immaginifica della scrittura scheerbartiana – e della sua intrinseca, indissolubile, utopia della tecnica, al quale egli si mostrava sensibilmente vicino. L’opera di Scheerbart è, per Benjamin, impregnata di un’idea fondamentale, quella di una «umanità redenta che si sarebbe armonizzata con la sua tecnica, che se ne sarebbe servita umanamente»[14]. Egli entusiasticamente, nel corso della sua intera produzione intellettuale, cita le opere di Scheerbart, ed in particolare Glasarchitektur diviene punto di riferimento esplicito in uno straordinario scritto degli anni Trenta, Erfahrung und Armut. Scheerbart, prototipo benjaminiano del “carattere distruttivo”, dell’uomo che nichilisticamente assume su di sé un nuovo e positivo concetto di barbarie, «tiene quanto mai a situare la sua gente […] in quartieri adeguati al proprio rango: in case di vetro mobili e dislocabili, quali nel frattempo erano state ideate da Loos e Le Corbusier. Non a caso il vetro è un materiale così duro e liscio, cui nulla si fissa. È anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno “aura”. Il vetro è in genere il nemico del segreto. È anche il nemico del possesso»[15]. Il vetro come distruttore dell’intérieur borghese e materiale con il quale pre-vedere l’al di là dell’umano, un nuovo mondo. L’architettura di vetro come avamposto immaginifico del messianico.
E tuttavia è proprio attraverso un giovanile frammento, probabilmente scritto nello stesso torno di tempo di Schicksal und Charakter, che il filosofo berlinese, attraverso la riflessione sull’opera di Scheerbart – con la quale avvia larga parte del progetto della Politik, rimasto incompiuto – può permetterci di sottolineare un aspetto che ci conduca finalmente oltre l’ipotesi scheerbartiana. In tale frammento, denominato Paul Scheerbart: Lésabéndio[16], Benjamin, attraverso una personalissima recensione del romanzo summenzionato – romanzo al quale restò attaccato un’intera vita – pare arrestare la propria argomentazione su un punto per noi decisivo: l’opera scheerbartiana, in quanto utopia, non può andare oltre se stessa, non può cioè provare a descrivere, o ancor meno dimostrare, come attuare quel mondo che pure prova a tratteggiare. Il Messia irrompe nel mondo profano e pone fine alla Storia, ma nessuno sa come. La dissoluzione nichilistico- messianica può bramare la fine, può in qualche modo favorirla, ma mai determinarla. Con una formulazione che possiede lo stesso colore della nota ultima proposizione del Tractatus wittgensteiniano, egli scrive, in conclusione al frammento: «Von dem Größeren – der Erfüllung der Utopie – kann man nicht sprechen – nur zeugen»[17]. Ciò che è al di là in quanto compimento è al di là stesso dell’utopia.
Siamo così giunti quasi alla conclusione del nostro ragionamento, momento dell’argomentazione nel quale tornare all’origine. Il compimento dell’utopia di Scheerbart, se ha come suo unico banco di prova l’avvicendarsi delle vicende umane, testimonia la completa sconfitta di ciò che il vetro sarebbe dovuto diventare ai suoi – e non solo ai suoi – occhi, i quali non videro luce, o forse non vollero vedere ancora luce, oltre il primo anno della cruenta “Grande guerra”. Come riporta Giulio Schiavoni[18], a partire dall’inizio degli anni Venti lo stesso entusiasmo degli architetti tedeschi venne progressivamente scemando, così come l’utopia di una trasformazione sociale che avesse come motore propulsivo l’opera scheerbartiana. Oggidì il vetro rappresenta, in un vortice demonico, il contrario di ciò che Scheerbart aveva immaginato: la funzionalità aziendale, il controllo assoluto sulle vite, le città, o i suoi quartieri più ricchi, in cui il modo di produzione capitalistico corre sfrenato. La superficie liscia in cui non si intravede più un fuori.
È necessario allora chiedersi, evitando sterili quanto rischiosi interrogatori post eventum al decorso storico, se davvero quell’elemento tecnico, se la tecnica allora, fosse e sia davvero “neutra”, ovvero che muti se stessa a seconda del fine verso cui è eterodiretta. Così come il vetro, allora, anche lo Stato moderno – quell’homo artificialis a cui abbiamo sopra accennato, il macchinario che tiene insieme ancora nell’immaginario collettivo le nostre vite – non è neutro, e parte del nostro epocale ottundimento è propriamente continuare ad immaginarlo come “neutrale”, come orizzonte intrascendibile della politica, come mero e puro strumento, oltre e prima del quale nulla è, propriamente. Il Leviatano è un dio mortale, fin da sempre orientato e non neutro, storico e non eterno; esso è mortale, sebbene proprio la sua apparenza ci dica di lui il contrario. Esso è, allora, il risultato dell’architettura concettuale della modernità. Weimar e il vetro, entrambi dispositivi tecnici che trovano ulteriore vigore nel Novecento, non sono neutri.
Nel celeberrimo dramma di Shakespeare, Hamlet, il principe di Danimarca, dopo aver assistito alla messinscena rappresentata a corte alla presenza del re Claudio e della regina-madre Gertrude, viene costretto a recarsi proprio da quest’ultima nel suo closet. Gertrude non comprende ancora appieno le offese rivolte da Amleto al re Claudio durante la rappresentazione del dramma, e per questo chiede al figlio di scusarsi con lui. Amleto – che ripugna per tutto il dramma l’atteggiamento della madre, ma che sa, per volere dello spettro paterno, di non dover né poter nulla contro ella[19] – al muoversi di Gertrude, che pare voler far parlare il figlio con persone che possano meglio di lei far emergere le cause del suo dolore e della sua follia, quasi ordina ad ella: «Come, come and sit you down. You shall not budge. / You go not till I set you up a glass / Where you may see the inmost part of you»[20]. Glass è, nella lingua inglese a partire dal Trecento, sia vetro che specchio. Non vi è dubbio che qui il riferimento sia, esplicitamente, lo specchio attraverso cui Gertrude potrà scorgere la sua parte più profonda, più intima, più segreta. Ecco allora il punto decisivo: il glass in quanto vetro può trasformarsi nello specchio – ancora glass, della modernità politica. Weimar allora, in quanto Idea dell’utopia e della catastrofe della modernità politica, è questo specchio: in esso possiamo scorgere i più intimi segreti del nostro modo di pensare e pensarci in relazioni di potere. Weimar è l’architettura di vetro del moderno. È allora necessario, ancora e ancora, finché avrà un senso per noi, continuare ad interrogare il suo specchio.
[1] Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, introduzione di Giulio Schiavoni, traduzione di Flavio Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, p. 18.
[2] Qui il celeberrimo passo: «le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle. […] Le idee sono costellazioni eterne, e se gli elementi vengono concepiti come punti di tali costellazioni, i fenomeni si troveranno ad essere, nello stesso tempo, analizzati e salvati». Cfr. Ivi, pag. 10. Come scrive Giovanni Gurisatti, «la salvezza dei fenomeni dal continuum della mera empiria priva di verità dipende dall’idea, ma al tempo stesso, e reciprocamente, la salvezza dell’idea dall’oscuro della irrappresentabilità priva di rivelazione dipende dai fenomeni», a sottolineare lo stretto nesso tra la visibilizzazione dell’idea nel concreto darsi storico e l’emersione dei fenomeni, prima raccolti dai concetti, dalla bruta materia non ancora in-formata. Cfr: Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, p. 21.
[3] Cfr: Sandro Chignola e Giuseppe Duso: Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008.
[4] «Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo». Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano, saggio introduttivo di Carlo Galli, trad. it. di Gianni Micheli, Rizzoli, Milano 2011, p. 130.
[5] Si citano qui le parole decisive di Carlo Galli, nel suo All’insegna del Leviatano. Potenza e destino del progetto politico moderno, in: Thomas Hobbes, Leviatano, op. cit., p. VII: «Il problema politico, per Hobbes, non sta nell’esistenza di un ordine giusto, destabilizzato dall’agire perverso di questa o di quella fazione […] ma nell’assunto che non esiste, né di fatto né di diritto, alcun ordine dato […] e che l’ordine va di conseguenza creato, come un prodotto artificiale della scienza».
[6] «La logica interna dello “Stato”, come prodotto artificiale istituito dagli uomini, non porta alla persona, ma alla macchina. […] Nella sua interezza di corpo e di anima, lo Stato è un “homo artificialis” e in quanto tale è una macchina. È un’opera compiuta da uomini, e in esso materia ed artefice (“materia” ed “artifex”), macchina e costruttore, sono la stessa cosa, cioè uomini». Cfr. Carl Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico, in: Carl Schmitt, Sul Leviatano, traduzione e edizione italiana a cura di Carlo Galli, il Mulino, Bologna 2011, pp. 69-70.
[7] Interessante notare come Benjamin, descrivendo esplicitamente il suo primo, infantile, interesse politico, faccia riferimento allo stesso fenomeno del sabotaggio, giungendo a conclusioni simili a quelle riportate nel passo marxiano in esame: “I poveri, per i bambini ricchi della mia età esistevano solo come mendicanti. E fu un notevole progresso quando per la prima volta intravvidi la povertà nell’infamia del lavoro mal retribuito. Fu in un breve scritto, forse il primo che redassi completamente per mio conto. Riguardava un uomo che distribuisce volantini e le umiliazioni che subisce da parte di un pubblico che per quelle cose non ha alcun interesse. Così succede che il poveraccio – così concludevo, si libera di nascosto di quella roba. Certamente la più improduttiva delle soluzioni. Ma allora non riuscivo a concepire altra forma di rivolta all’infuori del sabotaggio.” Cfr: Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, trad.it. di Enrico Ganni, Einaudi, Milano, 2007, pp. 94-95.
[8] Karl Marx, Il capitale, Libro primo (2), trad. it. di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970⁷, p. 136.
[9] Ivi, p. 201.
[10] Paul Scheerbart, Architettura di vetro, trad. it. di Mario Fabbri e Giulio Schiavoni, Adelphi, Milano 2004³.
[11] Riprova ne è l’interesse per Scheerbart degli architetti della generazione espressionista (Peter Behrens, Otto Bartning, Walter Gropius, Eric Mendelsohn) e di Bruno Taut, a cui fu anche dedicata l’opera summenzionata. Quest’ultimo, nel medesimo anno di uscita del testo, riuscì a far costruire la Glashaus, un piccolo padiglione immaginato a partire dalla visione architettonica scheerbartiana. Devo queste ultime informazioni al testo di Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea I. 1750-1945, Einaudi, Torino 2008, meritorio anche per la esplicita – e non sempre di così chiara visione – argomentazione in merito alla differenza tra Espressionismo architettonico e pittorico.
[12] Paul Scheerbart, Architettura di vetro, op. cit., p. 15.
[13] Paul Scheerbart, Glasarchitektur, Verlag der Sturm, Berlino 1914, p. 69.
[14] Su Scheerbart (1939 ca.), in: Walter Benjamin, Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), op. cit. p. 235.
[15] Walter Benjamin, Esperienza e povertà (1933), in: Walter Benjamin, Senza scopo finale. Scritti politici (1919- 1940), op. cit., p. 191.
[16] Paul Scheerbart, Lesabéndio (1919) in: Walter Benjamin, Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), op. cit., pp. 20-22.
[17] Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (a cura di), Suhrkamp, Francoforte sul Meno 1977, vol. II, pag. 620.
[18] Giulio Schiavoni, La natura sotto altra luce, in: Paul Scheerbart, Architettura di vetro, op.cit., pp.210-211.
[19] 1.5.84-86: “But howsomever thou pursues this act / Taint not thy mind nor let thy soul contrive / Against thy mother aught”. Cfr: William Shakespeare, Hamlet, a cura di Ann Thomson e Neil Taylor, The Arden Shakespeare, Bloomsbury, Londra 2006; Id, Amleto, trad. it. di Rocco Coronato, Rizzoli, Milano 2022.
[20] Ivi, 3.4. 17-19.