Recensione a: Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, (2011), trad. it. di N. Cafiero, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 434, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Rosa Fioravante
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Dani Rodrik, economista di origine turca già docente a Princeton e Harvard, si occupa da un decennio del rapporto fra crescita economica e benessere sociale. La sua produzione si è a lungo soffermata sull’analisi dell’interazione fra i processi economici connessi all’internazionalizzazione dei mercati e l’assetto istituzionale politico.
Nel 2007 il suo Has Globalization Gone Too Far? 1 cercava di fornire una contro-argomentazione convincente a quello che ormai sembrava divenuto un vero e proprio postulato del pensiero economico cosiddetto mainstream: la globalizzazione era considerata come una “cosa” buona in sé, e, in ottemperanza a tale postulato, maggiore sarebbe stato il grado di internazionalizzazione di un’economia nazionale, maggiore sarebbe stato il benessere e lo sviluppo prodotto nel paese soggetto al processo di apertura della propria economia. Benché il saggio fosse un tentativo di evidenziare l’inconsistenza delle argomentazioni in supporto all’idea che l’internazionalizzazione di un’economia e lo sviluppo di una società fossero direttamente proporzionali, egli non aveva ancora, per sua stessa successiva ammissione, piena contezza di quanto rilevanti potessero essere le conseguenze del fenomeno di globalizzazione. Rodrik aveva intuito che il sistema economico, per come era andato articolandosi, avesse al suo interno delle falle, ma non era ancora disposto a “ribaltare il tavolo”:
Il mio timore era che il boom del commercio internazionale e delle esternalizzazioni inasprisse le disuguaglianze aggravando i rischi nel mercato del lavoro e logorasse la coesione sociale all’interno degli Stati. Questi conflitti, sostenevo, devono essere gestiti con più vasti programmi sociali e con regolamenti internazionali più efficaci.2
L’obiettivo dello scritto infatti non era un’offensiva a tutto campo contro la globalizzazione sviluppatasi sul modello neoliberista, ma era assai più umile: stimolare il dibattito sulle migliorie che egli pensava fosse opportuno apportare al sistema economico globale per tutelare il mercato del lavoro e la coesione sociale dalle conseguenze della globalizzazione economica, proponendo alcuni spunti atti a limarne le ricadute politico-sociali. Il rapporto fra globalizzazione di mercato e istituzioni politiche, sistemi di governo e accountability democratica, rimarrà inseguito al centro della produzione accademica di Rodrik nell’arco degli anni che intercorrono fra Has Globalization Gone Too Far? (1997) e The Globalization Paradox (2011. Trad.it. La globalizzazione intelligente).
Durante questi quindici anni circa, egli si occupa – fra le altre cose – del rapporto fra internazionalizzazione dei mercati e implementazione dei sistemi liberaldemocratici nei paesi in via di sviluppo3, del rapporto fra liberalizzazione del mercato (e quindi del flusso di capitali) e dimensione del governo e degli apparati pubblici-statali4, della correlazione fra crescita economica e sviluppo democratico5, e, soprattutto, del rapporto fra scuole di pensiero economiche e conseguente loro influsso sulle scelte dei governi6. La globalizzazione intelligente è il risultato di questi studi, dei quali raccoglie e mette a sistema le suggestioni. Il fil rouge che li unisce è il progressivo emergere della consapevolezza dell’irriformabilità delle regole (o dell’assenza delle stesse) che correntemente normano il funzionamento delle istituzioni politico-economiche. Egli giunge così alla conclusione, che espone nel volume del 2011, che la globalizzazione non sia una questione prima economica e solo poi politica, e quindi riformabile in quanto tale. Riprendendo la metafora menzionata poco sopra, Rodrik capisce che è necessario “ribaltare il tavolo”: affrontare cioè la globalizzazione come problema di ordine politico e non solo come fenomeno economico.
Il primo obiettivo esplicitato di La globalizzazione intelligente è quello di “riscrivere la narrazione della globalizzazione”. Per riuscire in questo ambizioso compito, Rodrik presenta una sua periodizzazione della globalizzazione, articolata in tre grandi epoche, e ne esplicita per ciascuna le principali caratteristiche. In particolare si sofferma sugli impianti istituzionali dei sistemi politico-economici succedutisi nelle tre epoche. Queste corrispondono secondo Rodrik a tre veri e propri stadi del capitalismo: due dei quali passati e uno, il terzo, che si fa prospiciente sul futuro. Il primo modello di capitalismo-globalizzazione identificato da Rodrik è il “Capitalismo 1.0”, del quale l’autore ascrive la paternità al pensiero di Adam Smith. Rodrik lo descrive come un neonato capitalismo che vede nel mercato il vettore di sviluppo e arricchimento principale. Lo stesso mercato cerca di emanciparsi da un controllo statale che, a causa della mentalità mercantilista e dell’importante ruolo dello Stato nel sistema di commercio imperniato sulle Compagnie delle Indie, era ancora importante ed esteso. Nella fase del capitalismo 1.0 si giudicava che la presenza dello stato in economica soffocasse lo spontaneismo e l’intrinseco equilibrio del mercato e degli attori che si interfacciavano per suo mezzo. Il ruolo che Adam Smith, (e poi i suoi epigoni) voleva assegnare allo Stato era il ruolo di una “sentinella” che vigilasse sul rispetto delle regole e sulla difesa del territorio, senza interferire con il mondo degli affari. Seguendo Rodrik, il periodo che intercorre fra il “capitalismo 1.0” e quello “2.0” 7, cioè il sistema economico emerso dagli accordi di Bretton-Woods del 1944, comprende quasi tutti gli eventi storici che han portato il sistema liberaldemocratico a libero mercato ad assumere la configurazione alla quale generalmente ci si riferisce quando lo si evoca. Adam Smith dava alle stampe il suo La ricchezza delle nazioni nel 1776, mentre John Maynard Keynes, l’economista britannico che ha ideato il sistema di Bretton-Woods, la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta nel 1936. Il sistema keynesiano, al quale si ispira la seconda fase di globalizzazione, viene definito come sistema ad economia mista; sistema che si articola nell’equilibrio di mercato libero e controllo pubblico sull’economia. Nel 1944, nella località dalla quale prendono il nome gli accordi, i rappresentanti di 44 paesi industrializzati si impegnarono a ridisegnare l’architettura istituzionale che avrebbe costituito l’infrastruttura economica (e indirettamente politica, data la natura delle istituzioni create, a forte protagonismo governativo) delle relazioni internazionali. Gli accordi si chiusero con la formazione del Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale (originariamente “Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo”) e la decisione di utilizzare il Dollaro come moneta di riferimento degli scambi internazionali. L’obiettivo degli accordi era incardinare lo sviluppo dell’economia mondiale in un contesto di controllo pubblico-politico, che contemporaneamente traghettasse i paesi del cosiddetto “terzo mondo” verso lo sviluppo economico, e consolidasse il sistema politico-economico occidentale. La tesi di Rodrik è che a questo sistema di Bretton-Woods sia stato sostituito quello che è ormai conosciuto come Washington Consensus8. Quest’ultimo, più che un vero e proprio “sistema”, sarebbe un insieme di indicazioni, un “mantra” per tutti i governi che decidano di seguirlo: “stabilizzare, privatizzare, e liberalizzare” sono i tre imperativi sui quali si basava la nuova ossessione degli economisti9. Da questo insieme di pratiche deriva l’assetto politico-economico (e quindi sociale) che Rodrik chiama “iperglobalizzazione”.
I primi destinatari di questi imperativi sponsorizzati dalle stesse istituzioni designate con gli accordi di Bretton-Woods, sono stati proprio i paesi in via di sviluppo, nella convinzione che l’apertura alle leggi dell’economia internazionale avrebbe loro giovato anche in termini di sviluppo sociale e democratizzazione politica. I secondi fruitori furono quei paesi prima soggetti a controllo o influenza sovietica: il Washington Consensus conosce il suo momento di maggiore fortuna proprio negli anni a cavallo della caduta del muro di Berlino.
L’ottica adottata da Rodrik differisce in maniera essenziale da quella adottata dagli ideatori del Washington Consensus: mentre gli ultimi miravano alla crescita economica, obiettivo in base al quale si sarebbero dovute configurare le istituzioni e le decisioni politiche, l’economista turco antepone il raggiungimento dello sviluppo sociale a quello della crescita economica quantitativa. È in quest’ottica che egli propone la sua chiave di lettura della crisi, che egli interpreta come crisi economica, sociale e politica. La crisi, seguendo il ragionamento proposto da Rodrik, si istanzierebbe nello stallo determinato dal permanere del sistema politico-economico mondiale in quello che lui chiama trilemma della globalizzazione.
Il “trilemma della globalizzazione” consta nell’inconciliabilità di tre poli istituzionali, i quali esistendo contemporaneamente impediscono il reciproco buon funzionamento: l’iperglobalizzazione (come Rodrik chiama la globalizzazione derivata dal Washington Consensus), la politica democratica e lo Stato nazionale. Secondo il teorico, si possono tenere insieme solo due dei tre poli. Il compromesso di Bretton Woods permetteva di conciliare la politica democratica e lo stato nazionale pur in un regime di internazionalizzazione dei mercati, poiché essi erano soggetti a regolamentazione e la loro apertura non inficiava in modo determinate le leve del potere sovrano e democraticamente eletto dei governi nazionali. Scegliere di tenere insieme lo Stato nazionale e l’iperglobalizzazione comporta l’andare incontro al fenomeno della “camicia di forza dorata”, ossia ad una situazione di sostanziale sudditanza degli esecutivi nazionali democraticamente eletti agli “umori” del sistema economico-finanziario che si muove su un livello sovranazionale. In ultima istanza, scegliere di tenere insieme la globalizzazione di mercato e la politica democratica comporta necessariamente l’esigenza di avanzare verso un sistema politico che si articoli in una forma di governance globale.10 Per risolvere il trilemma è necessario, dunque, ridisegnare innanzitutto l’ordine politico.
Se si condivide la problematizzazione proposta da Rodrik e ci si interroga su come superare l’impasse da egli delineata, si coglie bene come questa non rappresenti solo un vero e proprio grattacapo per economisti ed esperti di architettura istituzionale, ma il trilemma interroga contemporaneamente su nodi concettuali, quali quello della sovranità nazionale, della salvaguardia della libertà economica ma anche del processo decisionale democratico, la cui rideclinazione alla luce del processo di globalizzazione non è più rinviabile.
A seconda di quale si auspichi sia l’uscita dal trilemma, si privilegeranno infatti alcuni valori e si ammetterà sia possibile rinunciare ad altri. Cercare di risolvere il trilemma significa pertanto interrogarsi anche e soprattutto su quale sia l’ordine politico migliore per raggiungere l’obiettivo dello sviluppo. Per farlo potrebbe essere necessario, anche solo implicitamente, elaborare una valutazione assiologica intorno a che tipo di sviluppo sia desiderabile per l’individuo e per la società tutta. Per questo motivo, il trilemma di Rodrik ci consegna un interrogativo che è, se possibile, persino più urgente e di ampio respiro di quanto preventivato dal suo stesso ideatore.
1# D. Rodrik, Has Globalization Gone Too Far?, Institute for International Economics, Washington DC, 1997
2# D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, (2011), trad. it. M. Sampaolo, Laterza, Bari 2014, p.4
3# D. Rodrik, “Globalisation, Social Conflict and Economic Growth”, The World Economy, Vol 21 No 2, March 1998.
4# Rodrik D., “Why Do More Open Economies Have Bigger Governments?”, Journal of Political Economy, Vol. 106, no. 5, 1998
5# Rodrik 2000, D. Rodrik, R. Wacziarg, “Do Democratic Transitions Produce Bad Economic Outcomes?”, The American Economic Review, Vol. 95 No. 2, 2005.
6# D. Rodrik, One economics, many recipes, Princeton University Press, Princeton 2007, D. Rodrik, “When Ideas Trump Interests: Preferences, Worldviews, and Policy Innovations”, Journal of Economic Perspectives, Vol. 28, No 1, Inverno 2014
7# Cfr. Rodrik D., La globalizzazione intelligente, cit., p.108
8# La definizione deriva dalla fortunata espressione utilizzata nel 1990 per designare questo insieme di politiche da John Williamson. Rodrik D., La globalizzazione intelligente, cit., p.235
9# Cfr. D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, (2011), cit., p.14
10# Vedi schema fig. 1 D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, (2011), cit., p. 285