La globalizzazione non è un pranzo di gala
- 15 Febbraio 2021

La globalizzazione non è un pranzo di gala

Scritto da Ivan Giovi

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I processi di globalizzazione[1] quest’anno compiono 26 anni. Era il 1994 e il muro di Berlino era caduto da appena 5 anni, quando a Marrakech venivano firmati gli accordi di istituzione del WTO (Word Trade Organization), dopo 8 lunghi anni di negoziati a cui parteciparono tutti i paesi aderenti al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), che si prefiggeva l’obiettivo di abolire barriere tariffarie e doganali non solo nell’ambito del commercio dei beni ma anche nell’ambito dei servizi e delle proprietà intellettuali. In effetti gli ultimi trent’anni hanno visto la più grande espansione dei commerci della storia (sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista quantitativo), con l’ingresso nel WTO di nuovi attori economici mondiali di grande rilevanza come Cina, India, Brasile e tutti i nuovi paesi emergenti.

Stiamo tutt’ora vivendo quella che viene definita globalizzazione, anche se pur fiaccata dalla crisi del 2007-2008, poi dalla crisi dei debiti sovrani del 2011-2012, e infine dalla crisi pandemica attuale. Notiamo però inevitabilmente che da almeno un quinquennio sono iniziati, specularmente a processi di liberalizzazione dei commerci, nuovi fenomeni di restrizioni ai commerci, reshoring e manovre protezionistiche. Causati principalmente da due motivazioni ben differenti: la prima, il desiderio politico di protezione sociale delle fasce più povere della popolazione dei paesi occidentali che soffrono la concorrenza delle loro controparti asiatiche, mediorientali e sudamericane, nelle produzioni in quei settori ad alta intensità di manodopera e a basso valore aggiunto; la seconda, molto più attuale, la sostanziale necessità di produzioni interne strategiche per far fronte alle emergenze, sia ad alta tecnologia che non, ed è sufficiente fare due esempi per intenderci: le mascherine e i respiratori.

Dal punto di vista economico, ci sono state determinate leggi economiche che hanno fatto da guida per l’applicazione di tutte quelle azioni volte a favorire quella che noi oggi chiamiamo liberalizzazione del commercio internazionale. Hanno fatto da guida nel mostrare come l’adozione di queste misure potesse portare mutui benefici a tutti gli attori coinvolti, provocando progresso nel benessere degli individui, diffusione di nuove tecnologie e soprattutto sviluppo dei paesi arretrati che si aprivano al commercio. Stiamo parlando infatti dalle prescrizioni derivanti delle teorie del commercio internazionale che, indicativamente, dagli albori dell’economia, con Adam Smith e David Ricardo, sono rimaste sulle scrivanie degli economisti fino ai giorni nostri.

Non sempre però la maggiore apertura delle relazioni internazionali ha portato un maggiore benessere a tutti i paesi che sono stati coinvolti. Molto spesso, infatti, è stato il campo di scontro di grandi potenze, tema ancora oggi attuale viste le frizioni commerciali tra Stati Uniti, UE e Cina, che derivano anche, come scritto sopra, da desideri di protezione dalla concorrenza internazionale. Obiettivo di queste righe sarà proprio indagare come la teoria economica dominante in realtà ha fallito nell’interpretare la realtà, evidenziando unicamente i vantaggi dal commercio senza soffermarsi sugli svantaggi derivanti dall’apertura dei commerci internazionali, che hanno creato anche forti squilibri a livello internazionale.

L’idea del libero commercio e dei vantaggi derivanti da esso è presente già nell’analisi di Smith, l’economista scozzese individua nell’apertura dei mercati e nella conseguente espansione dei potenziali consumatori la base della divisione del lavoro e pertanto dello sviluppo tecnologico, individuato nella produttività del lavoro: “Poiché è la capacità di scambiare che determina la divisione del lavoro, la misura di questa divisione è sempre necessariamente limitata dall’entità di questa capacità o, in altre parole, dall’estensione del mercato. Quando il mercato è assai ristretto, nessuno può essere invogliato a dedicarsi interamente a una occupazione stante l’impossibilità di scambiare tutta l’eccedenza del prodotto del proprio lavoro rispetto al proprio consumo contro parti del prodotto del lavoro altrui di cui abbisogna”[2]. Definendo poi il concetto di vantaggi assoluti: “Se un paese straniero ci può fornire una merce a minor prezzo di quanto ci costerebbe il fabbricarla, è meglio acquistarvela con un parte del prodotto della nostra industria, impiegata in un modo che ci dia qualche vantaggio”[3], che quindi porta alla concezione di specializzazione produttiva sulla base dei costi assoluti minori. Il vantaggio derivante, come ben analizza Smith è quello di avere la merce ad un costo minore, per poter impiegare il capitale risparmiato per produrre, invece che merci difficili da produrre, merci in cui il paese ha dei vantaggi assoluti.

Se per Smith però la produzione internazionale e la relativa specializzazione si distribuiscono secondo il criterio dei vantaggi assoluti, Ricardo con il famoso esempio dell’Inghilterra e del Portogallo parlerà di vantaggi comparati, basati non più sui costi assoluti di produzione delle merci, bensì sui costi relativi, e cioè sui costi di produzione relativi di una merce rispetto ad un’altra merce. L’analisi di Ricardo è più raffinata ma non meno incline al libero commercio, anzi, ogni paese ha necessariamente un vantaggio comparato dato dalla produttività relativa nel metodo di produzione della merce che produce in maniera più efficiente (che determina la specializzazione produttiva) e quindi guadagnerebbe dall’adesione al commercio internazionale.

Per entrambi gli economisti, come vediamo, il fattore fondamentale rimane la tecnologia: il metodo di produzione delle merci, anche se con determinate differenze. Smith considerava la produttività assoluta, mentre Ricardo quella relativa, ma non da meno entrambi consideravano vantaggiosa l’adesione al commercio internazionale: “In tutto questo mio lavoro ho cercato di mostrare che il saggio di profitto non può aumentare se non a seguito di una riduzione dei salari e che non può esserci una riduzione permanente dei salari se non in seguito a una riduzione del prezzo dei beni in cui vengono spesi i salari. Se dunque grazie all’ampliamento del commercio estero o al perfezionamento delle machine, alimenti e altri generi necessari al lavoratore possono venir portati sul mercato a un Prezzo ridotto, i profitti aumentano. Se, invece di coltivare il gran oche consumiamo o produrre indumenti e altri generi del lavoratore, scopriamo un nuovo mercato che ci può fornire queste merci a un Prezzo più basso, i salari diminuiranno e aumenteranno i profitti”[4]. Anche per Ricardo quindi l’adesione al commercio internazionale permette di liberare il capitale da impieghi meno produttivi per essere impiegato in produzioni che permettono di avere un costo comparato minore.

Alla stessa maniera le successive teorie che partono dall’idea dei costi comparati ricardiani e sviluppano l’idea dei vantaggi comparati (a partire dal modello Heckscher-Ohlin), facendo riferimento non più al dato tecnologico ma bensì alla dotazione iniziale dei fattori, l’abbondanza relativa di capitale (o terra come nel modello iniziale di Heckscher-Ohlin) o lavoro. Garantendo che, come abbiamo precedentemente visto: “un paese deve sempre possedere un vantaggio comparato in qualcosa”[5]. In tal modo replicando l’analisi di Ricardo, per cui ogni paese deve avere un vantaggio comparato in qualcosa e si specializzerà nella produzione di quei beni che richiedono i fattori di cui il paese è relativamente più abbondante. Tipicamente questo ha rappresentato che i paesi in via di sviluppo si specializzassero nelle produzioni che erano particolarmente intensive in lavoro, basta fare l’esempio attualissimo degli ultimi venti anni cinesi per capirsi.

Certo è che già nell’analisi di Ricardo, possiamo ben vedere come alcune classi sociali beneficino maggiormente del libero commercio rispetto ad altre, i.e. i capitalisti, che vedono aumentare il saggio di profitto. È questo esattamente quello che si cerca di confutare nelle spiegazioni contemporanee dei vantaggi del commercio; in particolare Samuelson cerca di mettere in luce come in ogni caso tutte le classi beneficiano del commercio, non è soltanto, a suo modo di vedere, un gioco a somma positiva, ma un sistema da cui tutti, in qualche modo, hanno da guadagnare: “Gli uomini pratici e gli economisti hanno sempre saputo che il libero commercio può beneficiare alcuni e sfavorire altri. Il nostro problema è mostrare che i sostenitori del libero commercio sono tecnicamente in grado di compensare i contrari al libero commercio per il danno fatto loro, facendo si che tutti stiano meglio”[6].

Le argomentazioni presentate da questo filone di pensiero tradizionale, mettono in luce come, già nell’analisi di Smith e di Ricardo, in una situazione autarchica il capitale deve necessariamente essere utilizzato per produrre tutti i beni di cui l’economia necessita, cosa che non accade in una situazione di libero commercio in cui i beni che sono difficili da produrre (per tecnologia arretrata o ridotta disponibilità di risorse naturali) verranno importati. Così facendo il capitale potrà essere impiegato per scopi più profittevoli. Nella visione neoclassica questo concetto è espresso identificando un necessario punto sulla frontiera delle possibilità produttive che soddisfi il consumo interno. Così non è se il commercio internazionale è possibile, perché in quel caso l’economia può scegliere il proprio consumo in un qualsiasi punto sul vincolo di bilancio. Tale concetto è poi inevitabilmente collegato ad un altro classico vantaggio del consumo, anche questo già identificato da Ricardo e che abbiamo già citato, la possibilità di consumare una quantità maggiore di beni in presenza di commercio rispetto che in autarchia, data dai prezzi minori a livello internazionale dei beni. Se pertanto un’economia consuma più beni quando aderisce al commercio internazionale, allora è possibile in linea di massima distribuire ad ogni individuo della nazione una quantità maggiore di beni, facendo sì che il benessere e l’utilità di tutti aumenti. In definitiva i vantaggi dal commercio non sono solamente riferiti ad una maggiore quantità di beni consumati ma “la ragione principale del perché un paese tragga potenzialmente benefici dal commercio internazionale risiede nel fatto che quest’ultimo espande le possibilità di scelta dell’economia”[7] questa aumentata possibilità di scelta è determinante poi per “ridistribuire le risorse in modo tale che tutti traggano vantaggio dallo scambio”[8].

Contrariamente alle tradizionali teorie appena presentate è possibile discutere dei vantaggi derivanti dal commercio in maniera più critica se ci si riferisce alle teorie alternative dei vantaggi assoluti, che derivano dall’approfondimento dell’analisi smithiana (Steedman e Metcalfe 1979; Parrinello 1970, 2010; Bellino, Fratini 2019; Crespo et al. 2019). Contrariamente a quanto visto in precedenza qui non sono le produttività relative o le dotazioni fattoriali a imporre le specializzazioni internazionali, ma la “competitività[9] data dalla presenza di costi assoluti minori nella produzione delle merci – da cui il nome vantaggi assoluti – che ha il focus principalmente sui livelli tecnologici (i.e. le tecniche di produzione delle merci) e salariali. Ponendoci in tale contesto teorico di tipo classico-keynesiano, ciò ci permette di verificare la non veridicità del modello ricardiano (che considera unicamente il fattore lavoro nella produzione delle merci, tralasciando l’utilizzo dei mezzi di produzione) e di quello di Heckscher-Ohlin (contraddistinto nelle successive trattazioni, si veda Krugman Obstfeld 2007, dall’utilizzo del fattore capitale come bene omogeneo in senso neoclassico) così è possibile affermare che i vantaggi derivanti dal commercio sono sempre affiancati da possibili svantaggi. Differenziandosi molto tra paesi “periferia” e paesi “centro”, in cui l’impatto dei prezzi internazionali e della concorrenza internazionale giocano un ruolo ben diversificato. In questo senso le differenze tecnologiche e i livelli salariali sono un fattore determinante per i paesi che aderiscono al commercio internazionale. I paesi “grandi”, aderendo al commercio internazionale sono in grado di influenzare in maniera decisiva il saggio del profitto[10], che è generalmente più elevato grazie alla migliore produttività data dalla tecnologia, in conseguenza di un mercato interno più esteso, che come osservava Smith – si veda sopra – è il motore della produttività e del progresso tecnico e in conseguenza di questo influenzando anche il corrispondente livello dei prezzi internazionali. Quindi in generale, un paese “periferico” con un livello tecnologico basso, potrebbe non guadagnare dall’adesione al commercio internazionale, anzi arrivando all’estremo della “desertificazione produttiva”[11], vedendosi fluire i capitali al di fuori del paese e specializzandosi in produzioni che non hanno un orizzonte internazionale ma prevalentemente interno e in cui è basso l’utilizzo di mezzi di produzione (che in conseguenza del basso livello tecnologico saranno importati) ed alto l’impiego di lavoro. L’evidenza empirica la abbiamo se consideriamo il contesto europeo: le 4 libertà di circolazione hanno permesso di costituire un’area economica dove i dazi intraeuropei sono scomparsi, istituendo così la libera circolazione delle merci ma anche dei capitali, dei lavoratori e delle persone. Ciò che abbiamo potuto osservare dal 1992 in poi, cioè da quando è diventata realmente sostanziale la libera circolazione dei capitali, è che i paesi “centro” del nord Europa, forti di tecnologie più performanti e con ulteriori stimoli alla competitività[12], hanno guadagnano dal commercio con persistenti surplus commerciali in favore dei paesi della “periferia” europea – Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda in particolare (e in un certo senso anche Italia) – che invece registravano persistenti deficit commerciali con relativi deflussi di capitali verso i paesi del centro[13]. Ed anche se questo può apparire in contraddizione è dimostrabile la contro intuitività delle teorie qui presentate, difatti, la competitività è, come spiegato in precedenza, formata da fattori salariali e da fattori tecnologici: i paesi “centro” del nord Europa hanno potuto mantenere interne le loro produzioni e solo in parte esportarle ai paesi dell’est europeo (esportando anche le loro tecnologie di produzione) – tipicamente però produzioni a basso contenuto tecnologico e ad alti coefficienti di lavoro. Costituendo un gap di produttività che ha costretto i paesi del sud Europa ad un vincolo esterno sulla bilancia dei pagamenti[14] creando così le condizioni del vantaggio assoluto del “centro”, in altre parole: “gli hubs dell’innovazione presenti nel nucleo tendono a esercitare una forza di attrazione “gravitazionale” nei confronti dei capitali d’investimento e dei lavoratori più qualificati, consentendo di “spostare” più avanti la frontiera tecnologica dei settori knowledge intensive e di accumulare un vantaggio competitivo sempre maggiore nei confronti delle aree meno avanzate”[15], dimostrando così anche la veridicità del focus tecnologico dei vantaggi assoluti.

Dobbiamo considerare poi come i vantaggi del commercio, quando ci sono, non sono distribuiti equamente nel contesto nazionale, per un paese “periferico”, che vede il suo saggio del profitto aumentare in conseguenza dell’adesione al commercio internazionale per non sopperire al deflusso di capitali, vedrà favorita la classe dei capitalisti. Inoltre, se per mantenere la competitività con gli altri paesi aderenti al commercio il livello dei salari in conseguenza di un basso livello tecnologico (e pertanto della produttività) e in seguito a manovre governative, calasse, sarebbe la classe lavoratrice a subirne gli svantaggi. In tal modo i vantaggi derivanti dal commercio saranno distribuiti a talune classi sociali rispetto che ad altre. Vero è, come viene mostrato nell’analisi tradizionale, che l’importazione di beni internazionali ad un prezzo minore porta al rialzo il salario reale. Ciò però potrebbe non bastare a compensare la diminuzione dei salari necessaria al mantenimento della competitività. Cosa che non è per niente scontata, infatti, come hanno mostrato Crespo, Dvoskin e Ianni (2019), se le differenze tecnologiche sono eccessivamente elevate, la flessibilità dei salari può non essere sufficiente a compensare l’esistenza di svantaggi assoluti.

Secondariamente poi, come osserva Shaikh: “Il libero commercio non sempre funziona come ‘dovrebbe’ per colpa degli effetti dell’imperfetta competizione, delle economie di scala e l’ineguale distribuzione di abilità, conoscenze e istituzioni fra i paesi”[16]. L’importanza va anche posta nella diversa distribuzione nei paesi del mondo delle competenze tecniche, delle istituzioni e soprattutto del ruolo dei monopoli e della concorrenza imperfetta, che molto spesso si intrecciano tra di loro. Ma anche la presenza di istituzioni bancarie non ugualmente distribuite ed ugualmente efficienti nello sviluppo delle imprese. Il punto più pregnante però rimane sempre il settore tecnologico, ovvero la tecnica di produzione delle merci. Il caso di scuola è quello giapponese: tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Settanta si viene a sviluppare quella che viene chiamata in diversi modi: “produzione snella”, “Toyota Production System”, “Toyotismo” o anche produzione “Just-in-time”, riuscendo a combinare elevata qualità dei prodotti con ridotti costi di produzione dati dai continui incrementi nelle tecnologie di produzione e nella produttività del lavoro. Anche attraverso una diversa “concezione” della tradizionale fabbrica. Combinando così non più la produzione seriale di massa con l’obiettivo di trovare i clienti in un secondo momento, ma sfruttando la produzione snella e rapida (“Just-in-time”) con la domanda proveniente dal mercato. Ciò garantì al Giappone dei vantaggi assoluti nel contesto internazionale che gli permisero di insediare il primato tecnologico americano in un contesto di piena guerra fredda, dove il contrasto tecnologico tra USA e URSS era elevatissimo. Ciò permise al Giappone negli anni Ottanta di insidiare non solo il primato tecnologico USA, ma anche quello di prima economia del mondo.

Concludendo, sembra essere appropriata la risoluzione che Shaikh dà dell’apertura di un paese al commercio internazionale: “Sia la storia che la teoria dei vantaggi competitivi ci suggeriscono che la procedura più appropriata sarebbe considerare liberalizzazione dei commerci in maniera selettiva: cioè quando le singole industrie diventano sufficientemente competitive per affrontare il mercato mondiale”[17], questo richiede interventi mirati di politiche governative a favore dei settori non ancora “pronti” al commercio internazionale e quindi politiche commerciali di dazi, come d’altronde ha fatto anche l’Unione Europea nei confronti delle politiche agricole interne, sempre tenute sotto tutela dal mercato internazionale, temendo soprattutto la concorrenza statunitense e asiatica. Non esiste perciò un insieme rigido e prestabilito di vantaggi assicurati che l’apertura al commercio nel mondo globalizzato può dare ad un determinato paese, ci sono invece possibili insidie e possibili guadagni, questi si determinati da una serie di fattori quali: le condizioni di partenza del paese che aderisce al commercio – che comprendono i livelli tecnologici, i livelli salariali e i livelli dei prezzi – ma anche le condizioni del contesto internazionale del commercio come i prezzi internazionali, il posizionamento geografico, la disponibilità di materie prime e le diverse produttività del lavoro nel contesto internazionale. Sono perciò le istituzioni governative a dover essere in grado di valutare le condizioni di partenza del paese, soprattutto quelle tecnologiche e saper agire di conseguenza dimostrando la capacità di gestire il progressivo processo di ingresso al libero commercio internazionale, e poter sopravvivere alla competizione mondiale.


*Le opinioni qui espresse sono unicamente personali e non impegnano in alcun modo enti di appartenenza.

[1] Facciamo riferimento qui al concetto di globalizzazione di Bauman (1999), (2002), Giovagnoli (2003), Beck (1999) che caratterizzano il concetto di globalizzazione in base alla velocità, differentemente dalla sola idea di mondializzazione e liberalizzazione dei commerci a cui fanno riferimento altri autori.

[2] Smith A. (1975), La Ricchezza delle Nazioni, Torino, UTET, pag. 96.

[3] Smith A. (1975), La Ricchezza delle Nazioni, Torino, UTET, pag. 585.

[4] Ricardo D. (1986), Principi di Economia Politica e dell’Imposta, Torino, UTET, pag. 282-283.

[5] “A country must always possess a comparative advantage in something”, Clarida, Findlay (1991).

[6] “Practical men and economic theorists have always known that trade may help some people and hurt others. Our problem is to show that trade lovers are theoretically able to compensate trade haters for the harm done them, thereby making everyone better of”, Samuelson (1962).

[7] Krugman P.R., Obstfeld M. (2007), Economia Internazionale Vol. 1, a cura di R. Helg, London, Pearson, pag. 94.

[8] Krugman P.R., Obstfeld M. (2007), Economia Internazionale Vol. 1, a cura di R. Helg, London, Pearson, pag. 94.

[9] Parrinello (2010).

[10] Parrinello (2010).

[11] Crespo et al. (2019)

[12] La Germania come il “malato d’Europa” e le riforme del mercato del lavoro tedesco del 2004-2005, che hanno fatto scendere i salari tedeschi del 6% in termini reali, fonte: https://stats.oecd.org/index.aspx.

[13] Cesaratto, Stirati (2010) e Cesaratto (2015).

[14] Lucarelli, Perone (2020).

[15] Moretti (2012).

[16] “Free trade does not always work as it ‘should’ because of the effects of imperfect competition, economies of scale, and an uneven distribution of skills, knowledge, and institutions across countries”, Shaikh (2003).

[17] “Both the history and competitive advantage theory suggest that the most appropriate procedure would be to consider trade liberalization in a selective manner, as individual industries become sufficiently competitive in the world market”, Shaikh (2003).

 

Riferimenti Bibliografici

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Smith A. (1975), La Ricchezza delle Nazioni, Torino, UTET, pag. 96 – pag. 58.

Steedman I., Metcalfe J.S. (1979), Reswitching, Primary Inputs and the Heckscher-0hlin-Samuelson Theory of Trade, in Fundamental Issues in Trade Theory, edito da I. Steedman, Londra, The Macmillan Press.

Scritto da
Ivan Giovi

Piacentino classe 1994. È dottorando di ricerca in economia presso l’Università di Roma Tre, Co-fondatore e coordinatore di redazione del centro studi Osservatorio Globalizzazione e Gestore cedenti presso SACE Fct.

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