“La grande livellatrice” di Walter Scheidel
- 27 Marzo 2020

“La grande livellatrice” di Walter Scheidel

Recensione a: Walter Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, il Mulino, Bologna 2019, pp. 640, 35 euro (scheda libro)

Scritto da Chiara Natalie Focacci, Francesco Maccelli

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Il 2019 ha regalato agli studiosi di scienze sociali quattro libri che a loro modo hanno coinvolto il pubblico in un dibattito stimolante. I volumi di Carl Benedikt Frey[1], di Branko Milanović[2], di Daron Acemoğlu e James Robinson[3], e di Thomas Piketty[4] sono sicuramente legati dalla proposta di una visione del mondo di lungo periodo, tale da superare recinti precostituiti. In Italia, una delle novità più significative dello scorso anno è stato il lavoro di Walter Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, uscito in lingua originale nel 2017 ma curato da Emanuele Felice in italiano per la Biblioteca storica del Mulino e in linea con le interpretazioni degli autori più eminenti nello studio delle disuguaglianze quali Piketty, Milanović e Atkinson. L’interesse per la storia umana riflesso nell’insegnamento di Scheidel alla Stanford University e nei suoi volumi sulla storia economica e sociale del mondo, tra cui The Science of Roman History (2018), hanno reso lo studioso di origine austriaca uno degli intellettuali più apprezzati e dibattuti a livello internazionale. La costanza, che caratterizza l’interesse dello storico nella comparazione tra un prima e un dopo nel lungo saggio «sconcertante e spaventoso» su violenze e disuguaglianze qui recensito, è riflessa nella ricerca di un mondo utopistico dove, come ricordato dall’eretico Pelagio nel suo De Divitiis, non esistono poveri. Il libro, però, illustra una realtà dove, dialetticamente, gli opposti si compenetrano e l’esistenza di uno è la precondizione di esistenza dell’altro. Questo è mostrato attingendo ai più drammatici esempi storici, dalle società di cacciatori-raccoglitori ai giorni nostri. La disuguaglianza, che è il punto nodale della Storia, regna sui popoli dalla Roma di Giulio Cesare, dove le fortune private più elevate superavano di 1.5 milioni di volte quelle di chi percepiva un reddito annuo pro capite medio, all’America del XXI secolo. La ricostruzione dell’autore lega insieme disuguaglianza politica ed economica, dal Giappone di Hideki Tōjō all’Atene di Pericle, dai Maya alla Somalia contemporanea. Ma se la disuguaglianza, nata dall’«accesso diseguale» promosso dai diritti di proprietà e dalla trasmissibilità della ricchezza, è proporzionale all’evoluzione storica umana dove «a chi più ha, più viene dato», ciò non significa che essa sia priva di talloni d’Achille. La violenza, secondo Scheidel, è la forza che nel corso della lunga storia umana ha più di ogni altra rappresentato il contrappasso alla disuguaglianza. E la violenza, diversamente a quanto argomentato da North, Wallis e Weingast[5], pur in una modalità drammatica, ha appiattito le disparità materiali più di ogni altro fattore. Infatti, la tesi principale di Scheidel consiste nell’intuizione della straordinaria capacità della violenza di tenere insieme la storia umana. Il livellamento profondo e duraturo del grado assoluto e relativo di disparità di reddito e di ricchezza, misurate rispettivamente dall’indice di Gini e dalle quote di ricchezza possedute, ha trovato il suo slancio principalmente in combinazione con l’operare di quelli che sono definiti i Quattro cavalieri (sanguinari) dell’Apocalisse: «la guerra con mobilitazione generale della popolazione, la rivoluzione trasformativa, il crollo dello Stato, e le pandemie letali». Essi sono stati, e forse lo sono tuttora, capaci di reinstaurare una forma, più o meno intensa, di livellamento delle risorse attaccando chi aveva più da perdere, ossia i ricchi. La visione di Scheidel secondo cui questi contrappesi hanno agito nella direzione di un mantenimento o di un aumento della remunerazione del lavoro e, contestualmente, hanno ridotto la remunerazione del capitale e della proprietà terriera, è legata alla relazione causale tra shock violenti ed effetti sulle disuguaglianze teorizzata dallo storico.

La guerra con mobilitazione generale della popolazione, ad esempio, rimane una delle forze livellatrici più potenti della storia. L’efficacia della guerra totale nel ridurre le disuguaglianze è una conseguenza naturale sia della riscossione inattesa delle imposte statali sia degli interventi attivi nell’economia per il sostenimento delle spese di guerra. È utile ricordare, a tal proposito, come la «Grande Compressione» del ventesimo secolo avvenne proprio in relazione al periodo delle due Guerre mondiali, visto come «il dramma di un’altra Guerra dei Trent’anni». Furono esse a rappresentare la principale causa di livellamento delle ricchezze e dei redditi sia durante i periodi di guerra che durante quelli di pace (pp.135-36). In questo contesto, la distruzione fisica di luoghi di produzione industriale, la tassazione confiscatoria, l’intervento dello Stato nell’economia e l’interruzione di flussi globali di beni e capitali catalizzarono in maniera straordinaria i diritti politici nelle forme di estensione del diritto di voto, di sindacalizzazione e di espansione dello stato sociale conosciuto durante i Trente Glorieuses ed esemplificato dalle proposte del 1947-48 avanzate dal partito socialdemocratico in Svezia (p.163). La guerra non ha soltanto ridotto i redditi da capitale, ma ha anche provocato una ingente inflazione, appiattendo in modo duraturo la distribuzione del reddito. In seguito a tassazioni elevate e prestiti di denaro dai più abbienti, i paesi coinvolti nel conflitto registrarono un calo medio delle quote più alte di reddito pari al 31% rispetto al periodo prebellico. Non solo. Attraverso «una lettura alquanto deprimente» di quanto avvenuto nell’altra parte del mondo comprendiamo come la Seconda guerra mondiale abbia reso il Giappone «un paese simile alla Danimarca di oggi» in seguito alla distruzione fisica di edifici e industrie e alle riforme istituzionali che indebolirono le tipiche zaibatsu a gestione familiare e permisero l’esproprio forzoso dei grandi latifondi. Nel 1938 l’1% del paese incamerava quasi il 20% dei proventi derivanti dalle imposte e dai trasferimenti. Sette anni più tardi la quota di questa porzione della popolazione era scesa di circa due terzi, fino al 6,4%. Ma soprattutto, più della metà di questa perdita cadeva ora sulle spalle del decimo più ricco all’interno della fascia di reddito superiore. La mobilitazione generale aveva richiesto, dunque, un consenso sociale che si traduceva in un significativo prelievo a danno delle fasce più ricche della popolazione, ovvero in riforme solidaristiche che ebbero effetti permanenti in paesi come la Svezia, dove la sindacalizzazione e la democratizzazione formale diminuirono in maniera significativa la disuguaglianza. Ciò non succedeva, però, quando i conflitti erano di durata e intensità relativamente ridotte. La massima della Arendt secondo cui «la guerra non restaura diritti, ma ridefinisce poteri» valse per la Guerra civile americana, che regalò alle élite vittoriose dell’Unione ulteriori profitti senza alcun livellamento delle risorse. Ed ecco che si spiega perché, secondo Scheidel, le rivoluzioni trasformative, definite «il secondo Cavaliere», rappresentarono una valida forza livellatrice solo quando accompagnate da una ristrutturazione violenta volta a riconfigurare l’accesso alle risorse materiali. Così come la guerra totale, esse furono un fenomeno prettamente del XX secolo. Scheidel ci racconta come le rivoluzioni trasformative in Cina e in Russia ebbero conseguenze estreme per la popolazione locale. Le esperienze comuniste, dal 1917 fino alla fine degli anni Settanta, riuscirono a ottenere risultati nella lotta alle disuguaglianze attraverso espropriazioni, redistribuzione forzata, collettivizzazione e determinazione dei prezzi. Il progetto comunista di ristrutturazione della società, che sopprimeva la proprietà privata e le forze di mercato, livellando le differenze di classe, sembra aver funzionato sia nel caso della Russia, che in quello di Cina, Cambogia, Cuba, e Nicaragua. Scheidel si spinge ad affermare che la conservazione di un’uguaglianza ‘forzata’ poté durare fintantoché questi regimi rimasero al potere frenando, latentemente o in maniera coercitiva, le forze di mercato. Prima del XX secolo, infatti, nulla di simile era mai veramente successo, secondo lo storico. Ad esempio, la Rivoluzione francese, spinta dalle imposte della taille e gabelle troppo alte, che aveva compromesso i diritti feudali e scacciato 16.000 nobili dal paese, non risultò essere così sanguinosa da instaurare un livellamento permanente. Come è stato altrove ricordato, persino durante il periodo del Terrore, i giacobini non riuscirono a perseguire azioni di espropriazione né di egualizzazione generalizzata. Prima di Lenin, per citare il titolo scelto da Scheidel per uno dei capitoli del suo libro, le insurrezioni violente erano al di là dei mezzi delle società preindustriali, e quindi affette da un sostanziale deficit di ‘violenza’ efficace. Ma la violenza non distrugge solamente edifici e persone. Essa ha anche la capacità di radere al suolo interi stati, portando ad un fallimento degli stessi o ad un collasso sistemico. Gli esempi di crollo dell’istituzione statuale e di dissesto di interi sistemi politici, ossia il terzo tipo di forza livellatrice che entra in campo nel libro, mostrano coerentemente come in questi casi, a causa della distruzione delle strutture politiche ed economiche – siano esse autoritarie o democratiche -, i maggiori percettori di reddito e di rendita tendano a perdere la propria ricchezza in più larga misura rispetto al resto della popolazione. In questi casi le gerarchie acquisite collassano a causa del dissolvimento del complesso statuale, riducendo i redditi e le ricchezze delle élite e comprimendo la distribuzione delle risorse. Nel lungo periodo, la fine dell’Antico regno egizio e dell’Impero accadico in Mesopotamia possono essere paragonati all’esperienza somala come processo di eguagliamento capace di cambiare le sorti di intere popolazioni. Il crollo della dinastia Tang nella Cina nel X secolo d.C. non risparmiò la classe dirigente centrale, che scomparve rapidamente, e neppure le élite locali connesse ad essa.

Ai fattori di compressione delle disuguaglianze attraverso le violenze prodotte dalle società, si aggiunge secondo Scheidel l’ultima forza, quella delle pandemie, tra cui il vaiolo, il morbillo, o la peste europea della metà del 1300. Nel libro si mostra come questi fenomeni abbiano agito sulle strutture demografiche alla base del reddito e della distribuzione della ricchezza con importanti conseguenze in termini di quantità e qualità della forza lavoro. In linea con altri studi[6], Scheidel spiega che la peste del 1351 riuscì a migliorare i livelli di reddito dei lavoratori, abbassando il valore della terra e aumentando quello del lavoro. L’effetto dei «microbi, di Malthus e dei mercati» rendeva scarsa la manodopera e ne aumentava il prezzo, con l’effetto di una comprovata ascesa dei salari reali e di una riduzione delle rendite. Le epidemie, che Scheidel definisce come il Quarto Cavaliere dell’Apocalisse, agirono creando «freni positivi» alla disuguaglianza. Questo avvenne attraverso processi di lungo periodo, come le ondate di peste che durarono in Europa e in Medio Oriente, rispettivamente fino al XVII e XIX secolo, o la pletora di infezioni letali che gli europei trasmisero ai nativi americani in quello che Alfred Crosby chiamò lo «scambio colombiano», il quale provocò tassi di mortalità elevatissimi tra gli Aztechi e i Maya della Mesoamerica. Il quadro a tinte fosche dipinto da Scheidel sembra non lasciare scampo. In assenza di shock come quelli richiamati, gli effetti di processi come le riforme agrarie della Taika nel Giappone del 645 d.C. o quella sollecitata nel Vietnam del Sud nel 1970 a favore di un’omogeneizzazione permanente furono «del tutto inesistenti». Ad esse l’autore accosta misure inefficaci come la riduzione del debito, avvenuta negli imperi sumero, babilonese e assiro; l’abolizione della schiavitù nel XIX secolo; il propagarsi di crisi economiche; o lo sviluppo della democrazia. Il livellamento con mezzi pacifici, ad esempio, ha portato solo a temporanee diminuzioni della disuguaglianza di reddito, come mostrato nei casi di Portogallo e Svizzera, oltreché dei paesi dell’ex blocco sovietico. Per lo meno su larga scala, i meccanismi pacifici volti a ridurre le disuguaglianze sembrano non aver effetti per l’autore che, polemicamente, non riconosce l’emergere nel corso del tempo di percorsi alternativi di eguagliamento altrettanto potenti come quelli precedentemente trattati.

Tuttavia, va sottolineato come lo studio della disuguaglianza dalla Preistoria a Oggi non possa essere portato a termine in maniera uniforme, a differenza di quello che si vorrebbe far emergere da questo saggio. Eppure, Scheidel combinando in maniera eclettica periodi storici così distanti e differenti, dai tempi dell’Homo erectus, a quelli del self-made man, riesce a combinare un approccio scientifico con una narrativa fuori dagli schemi, mantenendo un tono di fondo pessimistico circa il nostro futuro. La pretesa di costruire una teoria che abbraccia spazi e tempi molto diversi rischia di portare a trascurare la mutevolezza di concetti come la disuguaglianza e la ricchezza. Allo stesso modo si rischia di trascurare la differenza tra la ricchezza legata alla rendita e quella legata, ad esempio, alla capacità imprenditoriale. Basti pensare alla teoria di Amartya Sen sulla capability. D’altronde, Scheidel non pare tenere sufficientemente in considerazione secondo quali modalità effettivamente avvenga la redistribuzione delle risorse in corrispondenza dei livellamenti originatisi dalle catastrofi. Come riportato da Parisi (2013), l’allocazione delle risorse non è mai esclusiva nel suo scopo. Se per Pareto la redistribuzione delle risorse si può ritenere giusta quando essa migliora la situazione di qualcuno senza peggiorare quella degli altri, per Bentham e gli utilitaristi essa lo è soltanto quando fa progredire il benessere del più grande numero di persone, non quello di pochi. In senso più realistico, la redistribuzione di Kaldor-Hicks si definisce riuscita quando ciò che guadagna un gruppo supera, in ricchezza, ciò che ha perso l’altro. Sebbene l’intento di Scheidel pare quello di mettere in relazione il grado complessivo di disuguaglianza e la sua variazione con la massimizzazione dell’utilità che riguarda coloro che si trovano ai margini della società, il ricorso al coefficiente di Gini e alle quote di ricchezza non ce ne garantiscono la certezza. Gli obiettivi di redistribuzione oggi, nel momento in cui si riconosce una polarizzazione di reddito che ha raggiunto il proprio climax dopo la Grande Recessione, difficilmente possono essere comparati a quelli di centinaia di migliaia di anni fa. Ma, prima di tutto, è difficile accettare una tesi che vede nella violenza l’unica forza efficace, in grado di generare sviluppo e sostenere la parte meno abbiente della popolazione.

La disamina di Scheidel non lascia spazio agli esempi positivi di livellamento autonomo e pacifico basato sul processo democratico che la storia mostra. Finlandia e Norvegia, ad esempio, hanno beneficiato in prospettiva storica di una crescita inclusiva tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Endogenamente, l’unione sindacale ha apportato benefici notevoli in paesi come la Gran Bretagna e in altri paesi dell’Occidente. Questo rende difficile sottoscrivere pienamente una tesi per la quale soltanto il livellamento violento nella storia è realmente in grado di ridurre le disuguaglianze. Anche in tempi più recenti possiamo riscontrare diversi fenomeni che mostrano l’efficacia di mobilitazioni collettive. Basti pensare alle proteste avvenuta ad Hong Kong, che per le dimensioni raggiunte non possono certamente essere trascurate, così come il movimento precedente chiamato Umbrella Movement. Si considerino anche i movimenti femministi o l’azione di Greta Thunberg, che ha saputo suscitare una grande attenzione da parte dell’opinione pubblica nei confronti dei temi ambientali. La verità di Chesterton, secondo cui «it is easy to be heavy, hard to be light», può suggerire di rispondere alla teoria di Scheidel con un’alternativa sicuramente più articolata, ma che trova il suo centro nell’innovazione tecnologica e culturale e non nella violenza. Nel complesso, il libro di Scheidel può essere, senza dubbio, considerato un contributo innovativo nel campo degli studi interdisciplinari sulla disuguaglianza tipici delle scienze economiche e sociali, perché proietta i nostri sforzi intellettuali alla ricerca di un futuro migliore. Attendersi che la molla del cambiamento possa venire soltanto da rivolgimenti catastrofici rischia di indurre ad una passività e ad un pessimismo che sono assai distanti dalla consapevolezza che è propria delle nuove generazioni. Come mostra peraltro il diffuso interesse per esperienze di grande valore, come quella del Forum Disuguaglianze Diversità. Rivendicare non soltanto riforme fiscali maggiormente incisive, ma anche un nuovo accordo globale verde che attraverso il cambiamento degli stili di vita collettivi inneschi un gioco a somma positiva che non ci costringa ad attendere l’arrivo dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse come uniche forze capaci di riequilibrare le disuguaglianze è certamente utile. Citando Piketty potremmo chiederci: «tutto ciò è utopico?».


[1] C.B. Frey, The Technology Trap: Capital, Labor, and Power in the Age of Automation, Princeton University Press, Princeton 2019.

[2] B. Milanovic, Capitalism, Alone: The Future of the System That Rules the World, Harvard University Press, Harvard, 2019.

[3] D. Acemoglu e J.A. Robinson, The Narrow Corridor. States, Societies, and the Fate of Liberty, Penguin Press, Londra 2019.

[4] T. Piketty, Capital et idéologie, Edition du Seuil, Parigi 2019.

[5] D.C. North, J.J. Wallis e B.R. Weingast, Violenza e ordini sociali. Un’interpretazione della storia, il Mulino, Bologna 2012.

[6] G. Alfani e M. Di Tullio, The Lion’s Share: Inequality and the Rise of the Fiscal State in Preindustrial Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2019.

Scritto da
Chiara Natalie Focacci

Laureata in Scienze economiche presso l’Università di Bologna e in Storia economica all’Università di Oxford. Durante il suo dottorato europeo in Economia e Diritto, focalizzato sulle politiche attive del lavoro, ha svolto periodi di ricerca agli Institutes of Law and Economics della Erasmus University Rotterdam e Universität Hamburg e al Centre for Law and Economics della ETH Zurich. Ha inoltre lavorato come membro del team “Beyond the Technological Revolution” guidato da Carlota Perez (UCL) sulle implicazioni delle rivoluzioni industriali dal 1700 a oggi. S’interessa di storia economica, politica sociale, economia e diritto.

Scritto da
Francesco Maccelli

Dottorando in Studi storici all’Università di Firenze e Siena, con periodi di ricerca in Olanda, presso l’Università di Utrecht. Attualmente si occupa del ruolo della tecnologia nella crescita economica moderna e l’andamento demografico di lungo periodo, con riferimento al XIX e XX secolo. Nello specifico sta studiando il rapporto tra tecnologia e lavoro, con un focus sul caso italiano (1861-2011). Ha inoltre contribuito come membro italiano al progetto europeo HISCO e HISCLASS promosso da Marco H.D. van Leeuwen (UU), Ineke Maas (UU) e Andrew Miles (UManchester). Dal 2019 fa parte della redazione di «Passato e Presente».

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