Recensione a: Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La Guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 282, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Lucio Gobbi
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È da poco uscito il libro La Guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis), scritto da Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli. Il libro mostra che, nonostante quarant’anni di deregolamentazione finanziaria e globalizzazione dei mercati reali, sia in atto un processo di centralizzazione e concentrazione dei capitali in sempre meno entità e come tale processo generi costantemente squilibri commerciali e finanziari, tali da innescare crisi economiche e guerre.
Nel 2003 due importanti economisti mainstream, Raghuram Rajan e Luigi Zingales, scrissero un libro che ha fatto epoca: Salvare il capitalismo dai capitalisti (University of Chicago Booth School of Business, edito in Italia da Einaudi). La tesi del libro consisteva nel fatto che, una volta finita la Guerra fredda e stabilito quale fosse il modello economico più efficiente, il processo di globalizzazione avrebbe dovuto essere guidato dai mercati finanziari. Infatti, solo i mercati finanziari sarebbero stati in grado di garantire una competizione leale e avrebbero rinvigorito i sistemi produttivi meno efficienti. Salvare il capitalismo dai capitalisti è uno slogan maoista. Quando i mandarini della rivoluzione falliscono: fuoco sul quartier generale! In questo senso gli autori enfatizzavano la (presunta) capacità dei mercati finanziari di innestare processi di distruzione creatrice.
Oggi, in seguito alla grande crisi finanziaria del 2007-2009, e dopo le crisi economiche regionali (si pensi alla crisi dei debiti europei e delle “tigri asiatiche”) e all’accumulo di squilibri commerciali strutturali e crescenti (Stati Uniti-Cina), siamo perfettamente consapevoli che il processo di globalizzazione sia stato caratterizzato da poche luci e da tante ombre, oltre al fatto che il processo di distruzione creatrice preconizzato non si sia verificato. Indice del fatto che il mainstream economico e culturale che ha guidato questo processo fosse vittima di un grande abbaglio.
Per quanto riguarda il processo di concentrazione della ricchezza in poche mani, tale tesi è stata sostenuta anche da eminenti economisti, tra i quali Thomas Piketty nel noto libro Il Capitale nel XXI secolo. L’analisi presentata da Brancaccio, Giammetti e Lucarelli è però molto più specifica e radicale. L’obiettivo degli autori non è infatti semplicemente quello di mappare i livelli di disuguaglianza nella ricchezza degli individui ma, piuttosto, quello di verificare la tenuta della tesi marxiana che vede la concentrazione dei capitali come esito necessario dello sviluppo capitalistico. In primo luogo, gli autori segnalano la differenza teorica tra centralizzazione e concentrazione dei capitali. Nel primo caso ci troviamo dinnanzi al processo di espropriazione del capitalista da parte del capitalista come esito ineluttabile della concorrenza tra imprese. Nel secondo caso, alla tendenza alla concentrazione intesa nel senso di accumulazione del capitale per unità di lavoro. Ciononostante, visto che spesso la concentrazione è l’esito della centralizzazione utilizzeremo in questa sede i due termini come sinonimi.
Dal punto di vista epistemologico, attraverso l’utilizzo della analisi dei network, gli autori propongono un metodo al fine di quantificare il grado concentrazione dei capitali nei sistemi finanziari nazionali e internazionali. Un problema che, per decenni, ha impedito lo studio del fenomeno indicato da Marx è stato proprio quello di darne una determinazione empirica. Perno dell’analisi è la variabile che indica il “net control”. Gli autori definiscono il net control come «“il valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie”. Analizzando il periodo che va dal 2001 al 2016, […] sia pure in un arco di tempo relativamente limitato, l’analisi del net control offre una prima conferma della “legge” generale preconizzata da Marx, che possiamo riassumere in due proposizioni: in primo luogo, tra il 2001 e il 2016 il controllo del capitale globale risulta altamente concentrato nelle mani di un ristretto manipolo di azionisti, sempre inferiore al 2 per cento del totale; in secondo luogo, prosegue la tendenza verso una ulteriore centralizzazione del capitale, che aumenta di circa 25 punti percentuali negli anni considerati e si intensifica soprattutto a ridosso della grande crisi mondiale del 2007 » (p. 116).
Se si considera il net control per Paese, emerge chiaramente come le prime due grandi economie al mondo, Stati Uniti e Cina, abbiano aumentato il loro livello di concentrazione di capitale. Tra le altre economie avanzate emergono risultati eterogenei. Da un lato abbiamo Paesi come il Regno Unito in cui la concentrazione è aumentata laddove è fortemente diminuita in Giappone. In Europa la dinamica è stata prevalentemente stazionaria, più specificamente in calo in Italia e in Germania e in crescita in Francia e in Spagna. I risultati presentati passano i test di robustezza statistica e sono stati verificati in altri studi degli autori che considerano serie storiche più lunghe.
Come gli autori spiegano dettagliatamente nel testo, la centralizzazione nelle economie capitaliste procede a diverse velocità. Tale velocità dipende da una moltitudine di variabili. In questa sede è bene enfatizzare che il tasso di interesse fissato dalle banche centrali e, a cascata, dalle banche commerciali, è quella variabile che più di altre permette di garantire la solvibilità del sistema. Per afferrare il concetto è bene ricordate che il processo di riproduzione in un’economia capitalista è del tipo D-M-D’, dove D rappresenta il denaro, M i beni e servizi prodotti dalle imprese e D’ una quantità di denaro maggiore di D. Ad esempio, si immagini un’impresa che prenda a prestito un ammontare D al fine di produrre un bene M. La vendita del bene M deve garantire all’impresa un ammontare monetario D’ che le permetta di ripagare i propri debiti verso il settore bancario oltre a garantirgli un profitto almeno positivo. In tal modo non è difficile capire come il costo del denaro sia determinante al fine solvibilità di imprese, settori industriali e paesi. Se si guarda il sistema economico attraverso questo paio di occhiali, il mondo ci appare come un enorme network di relazioni finanziarie e di condizioni di solvibilità.
Oltre a ciò, gli autori mostrano come gli squilibri generati dal processo di centralizzazione del capitale ci consegnino un mondo diviso in due blocchi, quello dei creditori e quello dei debitori. Al blocco dei creditori appartengono Paesi come Cina e Russia mentre al blocco opposto Paesi come Stati Uniti e Regno Unito. Tale divisione sta rivoluzionando la geografia economica e politica costituita dopo la caduta del muro di Berlino. Fenomeni come il decoupling tra economia americana e cinese iniziato da Donald Trump e proseguito dall’amministrazione Biden, i processi di friendshoring, l’incremento dei dazi doganali oltre che l’introduzione di sanzioni finanziarie e commerciali tra Paesi appartenenti a diversi blocchi non sono che la manifestazione di questa contrapposizione crescente. In tale contesto il conflitto russo-ucraino non è che l’epifenomeno di una contesa planetaria tra blocchi.
Il libro offre molti spunti di riflessione originali e lontani dal dibattito corrente. Per chi scrive, il principale pregio dell’analisi proposta sta nel fatto che gli autori obbligano il lettore a adottare una prospettiva sistemica, veramente rara al giorno d’oggi. Se si dovesse indicare un limite del testo, lo si potrebbe individuare nel poco spazio dedicato alle “cause antagonistiche”: tale approfondimento avrebbe ulteriormente rafforzato la tesi proposta.