Recensione a: Vincenzo Visco con Giovanna Faggionato, La guerra delle tasse, Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 136, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Cerrini
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Spesso la questione fiscale è affrontata nel dibattito pubblico come prettamente tecnica, relativa ad aliquote o calcoli che interessano i cittadini solo per il risultato finale. E il risultato richiesto dall’intero tessuto sociale sembra essere, sempre ed esclusivamente, quello di abbattere la pressione fiscale. Ma l’argomento delle tasse non è sempre stato trattato come un mero fastidio che gli italiani devono sopportare. Quella della “guerra delle tasse” è infatti una visione abbastanza recente, risultato di scelte politiche ben precise, per le quali Vincenzo Visco non esita a impiegare i riferimenti bellici che si ritrovano già nel titolo del volume. In La guerra delle tasse, il professore di Scienza delle finanze (già Ministro del tesoro e Ministro delle finanze) collabora con la giornalista economica Giovanna Faggionato per comprendere le battaglie chiaramente vinte dalla classe privilegiata.
Dopo aver spiegato cosa si intende per “guerra delle tasse”, nel primo capitolo Vincenzo Visco ripercorre la storia della tassazione in Italia, dal primo Dopoguerra fino alla tentata riforma del governo Draghi. Il volume è strutturato in sette capitoli, di cui l’ultimo offre una serie di possibili ricette per invertire la rotta.
Per chiarire il risultato della “guerra delle tasse”, il volume illustra un pericoloso paradosso a cui andranno incontro le nuove generazioni. Vincenzo Visco porta ad esempio la sua nipotina, figlia unica destinata ad ereditare beni e immobili sia dai genitori che dagli zii. Visto che le imposte sul patrimonio e quelle sul reddito da capitale sono basse, dal punto di vista fiscale la nipotina troverà conveniente investire tale ingente patrimonio in titoli e immobili, anziché lavorare: il lavoro continua a essere infatti la fonte di reddito maggiormente tassata. Questo risultato appare ancor più paradossale se pensiamo che, nel passato, i governi e l’opinione pubblica erano consapevoli dell’importanza di ridistribuire la ricchezza e di finanziare i servizi pubblici. All’epoca, le imposte sul reddito delle persone fisiche erano costituite da numerose aliquote progressive che svantaggiavano chi deteneva più ricchezza. In seguito, i governi di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher nel Regno Unito hanno convinto i cittadini – e poi progressivamente l’intero mondo occidentale – che lo Stato debba intervenire il meno possibile nell’economia e che le tasse debbano essere abbassate per tutti. Ciò ha significato riformare il fisco per avvantaggiare i più ricchi.
In Italia, la svolta a destra impressa dai Paesi anglosassoni è stata aggravata dalla tolleranza verso l’evasione e da un sistema fiscale disarticolato, composto da bonus e regalie che aiutano questa o quella categoria. Tale svolta verso le disuguaglianze ha come principio teorico una “fake news”, la cosiddetta curva di Laffer, che dimostrerebbe come l’abbassamento della pressione fiscale possa generare maggiori entrate per lo Stato. Negli anni Settanta, l’economista dell’Università di Chicago Arthur Laffer disegnò questa curva su un tovagliolo al ristorante, durante un evento con numerosi esponenti dell’amministrazione di Gerald Ford, poi confermati con Ronald Reagan, Bush padre e Bush figlio. Secondo Laffer, una pressione fiscale del 100% non produce entrate per lo Stato perché, se tutto il reddito viene tassato, nessuno è incentivato a lavorare. Di conseguenza, esiste un livello di tassazione ottimale che garantisce il massimo gettito fiscale, superato il quale le entrate diminuiscono. Visco afferma che questa teoria avrebbe senso solo se la pressione fiscale fosse almeno pari al 70%; malgrado non esista una pressione fiscale così elevata, numerosi politici hanno tuttavia ritenuto di poter applicare questa teoria, tanto che in tempi recenti Donald Trump ha scelto Arthur Laffer come consulente.
La tassazione sul reddito delle persone fisiche
La storia della tassazione in Italia inizia con l’Art. 53 della Costituzione, che stabilisce la progressività delle imposte, affermando quindi il principio di equità verticale tra i cittadini che hanno un diverso grado di ricchezza. Al contrario, i Padri costituenti non riuscirono ad affermare il principio di equità orizzontale, che stabilisce pari trattamenti fiscali per i cittadini in condizioni simili. Il principio di equità verticale rimase inapplicato per circa trent’anni. Nel primo Dopoguerra, il sistema fiscale si basava infatti sulla tassazione dei singoli redditi, ognuno dotato di una sua cedolare. Non veniva presa in considerazione la ricchezza complessiva dell’individuo, in quanto esistevano cedolari diverse per diverse tipologie di reddito.
La prima grande riforma fiscale avvenne nel 1973. La sua attuazione vide lo scontro tra i due grandi protagonisti della Commissione per la riforma fiscale: l’economista Cesare Cosciani, maestro di Vincenzo Visco, e il politico repubblicano Bruno Visentini. Cosciani intendeva realizzare una riforma fiscale che garantisse la progressività tramite un’unica imposta sul reddito degli individui, la cui base imponibile includesse tutti i redditi da lavoro e da capitale. Inoltre, l’economista sperava di riformare il catasto e introdurre un’imposta proporzionale sul patrimonio. Quando Cosciani comprese che la sua visione si sarebbe concretizzata solo parzialmente, si dimise dalla vicepresidenza della Commissione. La carica fu assunta allora da Visentini, il quale riteneva il sistema economico italiano troppo arretrato per sostenere le proposte di Cosciani. La Commissione introdusse quindi l’Irpef escludendo dalla base imponibile i redditi da capitale, che furono tassati in maniera diversa per ciascuna tipologia. La riforma del catasto e l’imposta patrimoniale rimasero lettera morta. Al tempo stesso, si introdusse l’imposta sui consumi, ovvero l’Iva.
Nel 1996, Vincenzo Visco diventò Ministro delle finanze del governo Prodi I. L’economista riformò il sistema fiscale senza rivoluzionare l’Irpef, perché ormai nessun sistema fiscale dei Paesi sviluppati includeva tutti i redditi nella stessa base imponibile. L’introduzione del sistema Dit (Dual Income Tax) rappresentò la novità più importante. Mancando le condizioni politiche per stabilire una forte progressività fiscale, il governo introdusse una tassa per le imprese che includeva tutti i redditi da capitale nell’imponibile. La Dit tassava tutti i redditi da capitale allo stesso modo, senza fare sconti ai redditi derivanti dai titoli del debito pubblico. Inoltre, incentivava le imprese a investire i propri capitali senza ricorrere all’indebitamento.
Nel 2004, infine, il governo Berlusconi II, in cui Giulio Tremonti era Ministro dell’economia e delle finanze, abolì la Dit e introdusse l’Ires. Così, il nuovo sistema favorì gli investimenti nei mercati finanziari anziché quelli nell’economia reale.
Le imposte sul patrimonio in un sistema iniquo
Nel 1992, il governo Amato I introdusse per la prima volta un’imposta sull’abitazione, ovvero l’Ici. Nel 2008, il governo Berlusconi IV ha eliminato completamente l’imposta, poi reintrodotta nel 2012 dal governo Monti, con il nome di Imu; in seguito, il governo Letta ha escluso la prima casa dalla base imponibile dell’Imu. Inoltre, il sistema fiscale applica un’imposta cedolare secca di appena il 21% per il reddito da affitti, la tassa di successione ha un’aliquota trascurabile, la riforma del catasto non è mai stata attuata.
Questo sistema complesso e disarticolato è iniquo sotto numerosi punti di vista. Ad esempio, le rendite catastali si sono modificate ampiamente nel corso del tempo, con il risultato per cui gli edifici nel centro di Roma hanno valori catastali risibili rispetto a quelli di mercato. Al contrario, nelle periferie della Capitale la differenza si riduce, in quanto gli immobili – dal valore di mercato minore di quelli del centro – sono stati accatastati più recentemente. A ciò si aggiunge che l’opinione pubblica continua a non accettare la tassazione della prima casa, senza considerare l’elevato valore di mercato di alcune prime case.
Le imposte sul patrimonio comportano quindi un gettito molto minore rispetto alle tasse sul lavoro. Se si aggiunge che l’Iva è l’imposta più evasa, comprendiamo quanto sia sproporzionata la quota di servizi sociali che viene finanziata dalla tassazione sul lavoro. Una serie di aggiustamenti intrapresi dai vari governi in assenza di una riforma complessiva ha reso tra l’altro il sistema ancora più iniquo: i governi hanno infatti diffuso una serie di bonus disarticolati che avvantaggiano questo o quel consumo, reddito o soggetto. Tali bonus appaiono come vere e proprie regalie effettuate dalla politica ai propri soggetti di riferimento. Tra queste, il più importante intervento degli ultimi anni è la flat tax per i lavoratori autonomi con un fatturato inferiore ai 65.000 euro. Questa riforma, attuata durante il governo Conte I, svantaggia, senza alcuna logica, i lavoratori dipendenti che hanno pari reddito rispetto agli autonomi. Inoltre, incentiva gli autonomi a non crescere (o a non emettere fattura).
Nel capitolo finale, Visco propone una terapia d’urto per invertire la rotta di una cultura neoliberista a cui si sono sommati i difetti del sistema italiano. L’autore si prefigge di creare un sistema equo, in applicazione dell’Art. 53 della Costituzione grazie alla progressività delle risorse e alla lotta all’evasione. A tale scopo, Visco avanza la proposta di un serio sistema di tracciabilità dei pagamenti e di un’imposta duale sui redditi. L’imposta duale dovrebbe prevedere una tassazione altamente progressiva sul reddito da lavoro, oltre che una tassa sul patrimonio complessivo netto, che sostituisca l’Imu. Tale imposta patrimoniale non dovrebbe escludere la prima casa, ma essere contraddistinta da un’alta franchigia che permetta a chi detiene meno ricchezza di essere esonerato dal pagamento.
Per concludere, La guerra delle tasse è un volume che aiuta il lettore a comprendere l’evoluzione del sistema fiscale italiano, inserendolo nel contesto internazionale. Un contesto sempre più reazionario che non ha consentito ai governi di centrosinistra degli anni Novanta di effettuare quelle riforme mancate nel primo Dopoguerra, quando lo scenario internazionale era favorevole alla riduzione delle disuguaglianze. Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato ci insegnano allora che cosa non ha funzionato nel passato per non replicarne gli errori, proprio in un momento in cui nell’opinione pubblica emerge la consapevolezza che le ricette economiche degli ultimi anni hanno favorito i privilegiati rispetto ai ceti medio-bassi.