Scritto da Alberto Prina Cerai
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Tramite i canali ufficiali del governo moscovita, Vladimir Putin ha condannato l’azione americana come un’aggressione alla sovranità dello stato siriano e ha invocato l’intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per pronunciarsi sulla questione. Dall’altra parte l’accusa mossa da gran parte dell’amministrazione repubblicana – in particolare dal Segretario di Stato Rex Tillerson – è che la Russia abbia di fatto fallito nel ruolo di garante del comportamento del regime di Assad, affinché rientrasse entro i confini del diritto internazionale, abbondantemente violato dopo il rinnovato ricorso alle armi chimiche. La speranza dei consiglieri del presidente e di gran parte del Congresso è che tale azione possa risultare un deterrente a future atrocità del regime siriano, anche se rimangono dubbi sulla portata dell’attacco, che sicuramente non avrà riflessi decisivi sulla sorte del potere di Assad. In questo senso il raid della marina americana ha definitivamente cancellato qualsiasi ipotesi di avvicinamento tra Russia e Stati Uniti, garantendosi tuttavia l’appoggio incondizionato di Israele e Arabia Saudita. L’attacco in Siria, in quest’ottica, più che essere circoscritto alla regione potrebbe risuonare come un atto dimostrativo ed un monito a tutte quelle potenze revisioniste che minacciano l’interesse nazionale degli Stati Uniti, la Corea del Nord e l’Iran su tutti, e un chiaro messaggio di apertura alla Turchia, altro attore fortemente coinvolto nelle dinamiche geopolitiche del conflitto siriano.
Siamo forse di fronte ad un crocevia per gli Stati Uniti? Cosa ha condotto Trump a scendere in campo? È forse troppo presto per dare risposte definitive. Ricostruire un ruolo di suprema leadership nella risoluzione delle crisi internazionali, lasciandosi così alle spalle i fantasmi e le responsabilità del passato, riproponendo sull’arena globale quei principi di interventismo democratico troppo spesso insanguinati non è un’impresa semplice. L’attacco alla base aerea siriana, oltre a non aver avuto effetti collaterali nel colpire obiettivi strettamente militari, è stata condotta con armi convenzionali abbandonando così la «politica dei droni» varata dall’amministrazione Obama, dando notevole visibilità e risonanza mediatica all’intervento, quasi a voler rilanciare l’immagine di un paese che vuole e pretende di essere l’unico e legittimo difensore dei diritti umani. Una visione più ampia degli eventi di questa settimana forse è la risposta più convincente: gli Stati Uniti vogliono rilanciare un messaggio messianico a livello globale, come ribadito anche da Trump negli ultimi atti del suo discorso. Ma dare troppo peso alla retorica presidenziale non è la strada giusta per comprendere il Presidente repubblicano.