Recensione a: Gianfranco Viesti, La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 154, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Corti
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Un libro tascabile, come recita il nome della collana dell’editore Laterza che lo ha pubblicato, è la caratteristica principale dell’ultimo saggio di Gianfranco Viesti La laurea negata. Un testo che, nelle intenzioni rese subito esplicite dall’autore, ha, in primo luogo, l’obiettivo di essere divulgativo, di dare al vasto pubblico, quello lontano dalle università, alcune risposte a domande e interrogativi che spesso accompagnano il dibattito mediatico sul mondo accademico e sul suo rapporto con il mondo del lavoro e dell’amministrazione pubblica.
Viesti presenta una rassegna dettagliata e precisa dei principali problemi che investono l’università italiana, riprendendo alcuni stereotipi ad essa connessi, dalla bassa qualità dei docenti alla scarsa competizione con le università all’estero. Per ognuno di questi temi, l’autore offre una presentazione sintetica ma, allo stesso tempo, esaustiva e soddisfacente, che stimola approfondimenti e nuove riflessioni. L’obiettivo principale del libro è chiaro: rompere i tabù e i luoghi comuni intorno all’università italiana, offrire un quadro d’insieme sulle evoluzioni più recenti del sistema accademico italiano e provare a lanciare alcuni stimoli per un tavolo di discussione sulle sfide a venire.
Per fare questo, Viesti inizia la sua analisi offrendo una prospettiva storica, che muove da un’iniziale presentazione delle problematiche strutturali del sistema di educazione terziaria in Italia per poi concentrarsi, sulle più recenti evoluzioni. Il dato generale rilevato è allarmante. A partire dal 2010, anno della riforma Gelmini, e inizio della parabola discendente degli investimenti pubblici dell’Italia nell’università, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Contrariamente ad altri Paesi dell’Unione Europea, Germania in primis, che, invece, hanno aumentato la spesa per le università, l’Italia ha assistito ad una riduzione drastica del personale docente, attraverso il blocco del turnover e quindi delle assunzioni di giovani ricercatori, i quali hanno rinunciato a proseguire il percorso accademico in Italia o hanno rinunciato alla prospettiva accademica in via definitiva.
Al taglio strutturale delle risorse, si è accompagnato un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Questo disinvestimento nell’università ha evidentemente determinato, come conseguenze, maggiori difficoltà da parte delle famiglie a mantenere il percorso di studi dei figli, e conseguentemente una contrazione delle immatricolazioni.
Questa riduzione delle iscrizioni è stata ovviamente diversificata a seconda del settore disciplinare, con le materie di area umanistica che hanno osservato un calo ben superiore al 20% della media nazionale, e a seconda della provenienza geografica, con un effetto ben più marcato al Sud Italia rispetto al Nord. La mancanza di un sistema di infrastrutture e trasporti adeguato, specialmente nel Meridione e la conseguente necessità di trasferirsi per poter studiare, ha portato le famiglie che hanno potuto permetterselo a mandare i propri figli nelle università del Nord, considerate di migliore qualità e con maggiori possibilità di trovare un lavoro successivamente alla laurea. Anche in questo caso, spiega bene Viesti, la retorica delle università di serie A e di serie B non ha indubbiamente aiutato a contenere quello che, oggi, si è trasformato in un vero e proprio fenomeno di migrazione dal Sud al Nord Italia.
L’esito è stato la creazione di un gruppo ristretto di università di “eccellenza” in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre il resto delle università italiane (prevalentemente del Centro, del Sud e delle Isole, ma anche del Nord “periferico”) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse. La retorica dell’eccellenza, supportata da quella che Viesti chiama «una densa cortina di indicatori ed algoritmi», non ha però aiutato ad individuare i problemi strutturali presenti nelle regioni meno sviluppate e svantaggiate del paese. Al contrario, essa è stata utilizzata come giustificazione per l’attuazione di ulteriori disinvestimenti. Il tutto sotto il motto “meritocrazia virtuosismo valutazione”, che è stato fatto proprio dal vero nuovo giudice e deus ex machina della politica universitaria italiana: l’ANVUR.
Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, commenta Viesti, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. I suoi commissari sono scelti nominativamente dal Ministro e non sono rappresentativi di tutte le componenti del sistema universitario. Il potere dell’ANVUR nella valutazione è pressoché totale tanto da poter ignorare, come già accaduto in passato, anche il parere dello stesso Parlamento. Solo il ministro ha il potere di controllarne l’operato ma, spesso, questo non succede. Per questo si lascia che un’agenzia decida, attraverso una serie di indicatori che si dicono essere “oggettivi”, la valutazione delle performance degli atenei e la destinazione dei finanziamenti.
Taglio degli investimenti, de-responsabilizzazione politica e delegazione della valutazione delle performance degli atenei ad un gruppo ristretto di tecnici sono fattori che hanno determinato un cambio strutturale all’interno del mondo accademico italiano. A questo cambiamento nelle forme di finanziamento, nei meccanismi di governance e di controllo, come sottolinea bene Viesti, si è accompagnato anche un cambio di paradigma, a livello normativo. Insieme agli attori, si potrebbe dire, sono cambiate anche le idee.
A partire dal 2008, infatti, nel clima delle riforme dettate dalle necessità di maggiore austerità, l’Italia si è sempre di più avvicinata ad un modello neo-liberale di finanziamento del sistema universitario, molto simile all’esempio anglosassone. Commenta Viesti: «L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati” (n.d.r. l’ANVUR), in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico». Troppi studenti, troppi professori, assunzioni facili, troppi costi, bassi standard internazionali, poca voglia di studiare, poco merito: questi sono stati gli argomenti che hanno accompagno la nuova retorica del merito, con la quale poi si sono giustificati, come necessari, i tagli indistinti ai finanziamenti. Indicatori “oggettivi” per premiare il “merito” e fermare gli “sprechi”: quale migliore argomento in tempi di austerità e crisi?
Eppure, come mostra bene Viesti, nel suo saggio, le performance del sistema universitario italiano non sono al di sotto di quelle degli altri stati membri dell’UE, sia in termini di numero pubblicazioni sia in termini di qualità della ricerca. Addirittura se confrontati a parità di condizioni di partenza, l’università italiana avrebbe un potenziale anche maggiore. Il che sorprende se pensiamo che l’investimento italiano nel settore dell’educazione terziaria è di gran lunga inferiore agli altri stati membri dell’UE. Per dare un’idea, nel 2015 il finanziamento pubblico in Italia è stato di 7 miliardi, contro i 28,7 della Germania, dei 23,7 della Francia e dei 9,8 del Regno Unito, che prevalentemente si basa su un sistema di risorse private. Ancora, rapportando la spesa pubblica alla popolazione, si vede che nei Paesi Scandinavi la spesa media annua per l’educazione terziaria per abitante è di 600 euro, 350 in Germania e Francia, 150 nel regno unito e solo 110 in Italia.
Se dunque la realtà dell’università non corrisponde all’immagine che se ne è voluto dare, cadono anche le giustificazioni retoriche che hanno accompagnato i tagli di questi ultimi anni. A meno che, chiaramente non si ritenga che, nonostante, tutta l’università non sia importante. Su questo aspetto, non è mancata la retorica di chi ha voluto sottolineare l’assenza di un collegamento con il mondo del lavoro, l’incapacità delle università italiane di fornire ai propri studenti strumenti, capacità e competenze oltre che nozioni. Anche su questo punto, Viesti offre una prospettiva alternativa, che non nega il problema esistente relativamente al passaggio tra mondo dell’università e quello del lavoro, ma inserisce il dibattito in una cornice più complessa e meno semplicistica. Ad esempio, portando i dati riguardo l’indice di occupazione dei neo-laureati, che è di gran lunga maggiore rispetto ai non laureati, a prescindere dal tipo di settore disciplinare.
Ma la riflessione del professore di economia, non si limita ad una semplice analisi dei costi benefici. L’argomentazione va ben oltre e si inserisce in un quadro più ampio di visione della politica e della società. Abbracciare, come è stato fatto in questi anni, un approccio all’università basato sui tagli e sull’investimento in presunti centri di eccellenza significa, infatti, perdere di vista la funzione politica dell’università, come motore di progresso sociale, emancipazione di luoghi e spazi geografici, creazione di idee e novità e culla di coscienza critica e partecipazione democratica. Ed è proprio questa riduzione dell’università ad una logica di mercato, ad un’analisi dei costi e benefici che Viesti critica. Non dovrebbe essere questo, infatti, il modello di università cui vorremmo ambire, secondo l’autore, che per questo, alla fine del suo saggio, prova ad offrirci un quadro alternativo e inizia ad abbozzare anche alcune prime risposte.