La lente delle relazioni internazionali. Intervista a Mario Del Pero
- 22 Maggio 2022

La lente delle relazioni internazionali. Intervista a Mario Del Pero

Scritto da Andrea Pareschi

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Il ruolo delle relazioni internazionali e degli studiosi di questa materia appare sempre più centrale, all’interno del dibattito pubblico, per decodificare le dinamiche dell’attualità e considerare i possibili scenari globali futuri. In questa intervista, Mario Del Pero affronta, interpretandoli attraverso la lente delle relazioni internazionali, nodi quali le prospettive strategiche dell’amministrazione Biden, i cambiamenti del sistema politico statunitense e rapporti che legano agli Stati Uniti l’Italia e l’Europa. Mario Del Pero è Professore ordinario di Storia internazionale e Storia degli Stati Uniti presso SciencesPo, Parigi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2011, edito da Laterza.


L’invasione dell’Ucraina ha conferito alla politica internazionale una posizione di particolare visibilità. Quali mezzi ha a disposizione uno studioso per veicolare efficacemente messaggi, nel tentativo di contribuire alla formazione di un’opinione pubblica consapevole e matura? 

Mario Del Pero: Lo studioso si può ritirare, e tanti studiosi scelgono questa via: ritirarsi nella propria biblioteca, nel proprio archivio, nel proprio ufficio, limitarsi a insegnare. È una scelta legittima, permette quella forma di approfondimento estremo che lo studioso è chiamato a offrire. Diversamente, lo studioso può cercare di uscire da quel guscio, che a volte è un guscio protettivo di comodo, e può provare a parlare a un pubblico più largo. Allora la sfida diventa davvero complessa. Come si fa a parlare in modo più semplice e più piano – inevitabilmente, semplificando –, ma preservando la complessità dell’oggetto di cui si parla? E nel caso molto specifico dell’Ucraina, anche evitando di sottrarsi a prese di posizione che, rispetto a una guerra simile, sono per certi aspetti indispensabili come cittadini prima che come studiosi? Personalmente, da una quindicina d’anni scrivo anche per quotidiani, o partecipo, con frequenza più o meno intensa, a trasmissioni televisive o radiofoniche, a partire da quelle dedicate alla storia. Scrivo da molti anni per un quotidiano, Il Giornale di Brescia, piccolo ma molto serio, con una redazione esteri apprezzabile; e occasionalmente mi è capitato di farlo per il Washington Post, il Guardian, Le Figaro, Politico. Ho un piccolo blog personale, in cui pubblico commenti che per tante ragioni non interessano ai media e ai quotidiani: ad esempio commenti mirati su dinamiche politiche statunitensi, temi di natura piuttosto tecnica o specialistica. E da anni collaboro con l’ISPI, che credo svolga un grande lavoro nel coinvolgere tanti studiosi, ma soprattutto nell’offrire frequentemente piccoli dossier ricchi di elementi empirici. Quale tipo di ritorno abbia questo mio piccolissimo impegno, faccio molta fatica a dirlo: temo molto limitato. Funziona, oltre a gratificare l’ego? Non lo so. Ci sono stati momenti, soprattutto in occasione di scambi televisivi, che mi hanno irritato. In quel genere di contesto, la qualità della discussione si abbassa e si alza l’impulso alla polemica, finanche alla zuffa: l’accademico si trova a disagio e reagisce male; si perde un po’ il controllo, si risulta arroganti e, non avendo gli strumenti per ben gestire quelle situazioni, si finisce quasi invariabilmente sconfitti. Sono situazioni a cui, credo, gli studiosi devono il più possibile sottrarsi. Al tempo stesso mi piace scrivere, per due ragioni: la prima, è inutile girarci attorno, è che siamo tutti un po’ narcisi, ci piace essere presenti nel dibattito pubblico; la seconda però, più nobile, è il desiderio di introdurre in quel dibattito degli elementi di complessità – parola quasi vietata oggi –, voler spiegare la complessità dei processi storici che stanno alla base del presente, senza cercare facili genealogie e ancor meno analogie molto deterministiche. A volte si vuol portare un po’ di profondità storica anche perché, appunto, irritati dalla bassa qualità del dibattito pubblico.

 

Quali sono quindi le sue riflessioni sul modo in cui la questione ucraina e le relazioni internazionali compaiono nel dibattito pubblico attuale, e sui tratti disfunzionali di tali modalità? 

Mario Del Pero: Ho l’impressione – lo vediamo anche dal successo di alcuni progetti editoriali, dall’attenzione con cui si sta seguendo quanto accade oggi in Ucraina – che ci sia desiderio, quasi fame, di politica internazionale da parte del lettore medio, da parte di un pubblico mediamente informato. E che questa richiesta fatichi ad essere soddisfatta. Di politica in generale, di politica internazionale forse ancor più, si tende a parlare abbastanza male; non solo in Italia: anche sui media francesi, ad esempio. Questo accade per due ragioni. La prima è che c’è una debolezza, questa sì molto marcata in Italia, di specializzazioni d’area. In ambito accademico, per come sono organizzati nel contesto italiano, gli studi d’area si collocano dentro specifici settori disciplinari che negli anni sono andati molto indebolendosi; e allora, nelle università italiane, l’offerta di insegnamenti d’area è fragile e debole, rispetto agli Stati Uniti forse, e paradossalmente, ancora di più. Queste competenze, poi, raramente trovano spazio nel dibattito pubblico e mediatico, dove invece imperversano tuttologi, che un giorno parlano di terrorismo islamico, il giorno dopo delle elezioni statunitensi, il giorno dopo ancora del fronte ucraino e delle strategie russe. La debolezza degli studi d’area sicuramente si accompagna a una sorta di infatuazione verso schemi geopolitici – li identifico così per semplicità, perché è questa l’etichetta che si sono dati – di lettura delle relazioni internazionali. Schemi che, intendiamoci, costituiscono una delle tante variabili che entrano nell’equazione che definisce le scelte di politica estera di qualsiasi attore, in particolare delle grandi potenze. È chiaro che la geografia ha un peso nell’orientare la politica, ma quando questa variabile, che è una delle variabili, diventa monocausale, ossia la sola che si usa, e soprattutto variabile destoricizzata, nel senso che si presume che questo condizionamento geografico sulla politica valga oggi negli stessi termini in cui valeva un secolo fa o nell’Ottocento, si generano molti problemi e cortocircuiti. Sono problemi di qualità dell’analisi e problemi – anche se il termine può apparire un po’ forte – di pedagogia pubblica. Perché se il lettore che vuole informarsi – e c’è, ripeto – si rivolge a queste chiavi di lettura della politica internazionale ne esce con categorie, concetti e interpretazioni che quando va bene sono molto parziali, quando va male sono mistificatori.

Questo tipo di lettura “geopolitica” tende a produrre analisi molto statiche, astoriche. Come se l’Ucraina del 2022 fosse la stessa del 1919, o se la Cina di oggi fosse la stessa di fine Ottocento. Sono letture viziate da quella che per lo storico è la madre di tutti gli errori, cioè l’essenzialismo: ritenere che a determinare l’azione politica di un soggetto, segnatamente di un soggetto statuale, vi sia un’essenza intima e ultima dalla quale questo attore non si può mai pienamente affrancare nelle sue scelte. Per lo storico, l’essenzialismo è quanto di peggio ci possa essere, perché così cessa di esistere la storia. Cessa di esistere, paradossalmente, anche la politica, perché l’altra grande categoria continuamente gettata in pasto ai fruitori di questo tipo di informazione – e a sua volta assunta come data e perenne – è l’interesse nazionale. Quest’ultimo sembra quasi esistere a prescindere, senza essere declinato dagli attori politici, come se l’interesse nazionale della Cina per Chiang Kai-shek e per Mao coincidesse. Quindi, il paradosso di questa geopolitica – la mia è una semplificazione, ma non è una caricatura – è che è essenzialista da un lato eppure apolitica dall’altro. È quanto di peggio ci sia. La geopolitica offre una delle chiavi di lettura, ma, nel momento esatto in cui la variabile geografica non solo soverchia ma azzera tutte le altre, aiuta poco e può fare anche molto male alla qualità dell’informazione. 

 

Il conflitto in Ucraina costringe a domandarsi quali siano gli orientamenti dell’amministrazione statunitense, la lettura che essa dà della crisi in corso e delle sue possibili conseguenze, i suoi presumibili obiettivi. Qual è la sua interpretazione? 

Mario Del Pero: Io credo che l’amministrazione Biden si sia relazionata alla crisi ucraina sulla base di una serie di chiavi di lettura e di obiettivi. Le due cose, ovviamente, sono legate. La prima chiave di lettura è che la Russia di Putin è una potenza con ambizioni – per semplificare – neo-imperiali. In una versione minimalista, ambizioni più limitate alla volontà di riportare l’Ucraina sotto una sfera di influenza russa. In versioni più radicali e massimaliste, ambizioni volte ad agire in diverse aree del mondo – come peraltro la Russia ha fatto dal Medio Oriente all’Africa, utilizzando la risorsa primaria di potenza di cui dispone, cioè lo strumento militare – ovvero cercando di reimporre una sorta di “Potsdam 2” in Europa centro-orientale, che rovesci l’architettura securitaria NATO-centrica costruita in quello spazio nel periodo successivo alla Guerra Fredda. Di fronte a questa sfida l’amministrazione Biden ha ritenuto necessario rassicurare gli alleati in Europa centro-orientale e avviare un processo graduale, che è stato poi molto accelerato, di consolidamento della presenza militare della NATO nell’area. Dall’altro lato, credo, ha utilizzato questa crisi per ricompattare il fronte euro-americano sotto una leadership, potremmo anche dire un’egemonia, statunitense. Anche i progetti di riarmo tedesco vanno letti dentro o sotto un ombrello atlantico, più che come funzionali alla costruzione di una autonomia strategica europea come la auspicherebbe Macron. Insomma, l’amministrazione Biden ha usato questa crisi a fini di contenimento della Russia, di ricompattamento transatlantico e – elemento che muove storicamente l’azione internazionale degli Stati Uniti – di affermazione della credibilità di una politica estera assertiva e ferma rispetto alle minacce o a potenziali sfide revisioniste, su tutte quelle della Cina. Rispondere fermamente in Ucraina serve a mandare un messaggio anche alla Cina, in particolare rispetto a Taiwan.

Infine, una variabile che c’è sempre, anche se a volte la sottostimiamo, è data da considerazioni di carattere politico-elettorale. Sappiamo, guardando a sondaggi precedenti allo scoppio della guerra, che una parte ampiamente preponderante dell’opinione pubblica statunitense ha oggi una posizione molto critica nei confronti della Russia, che in taluni casi tracima in vera e propria russofobia. Sappiamo che c’è un fronte, politicamente trasversale, molto critico nei confronti della Russia. Trump non ha cambiato le cose da questo punto di vista: repubblicani e democratici al Congresso si trovano molto compatti su questa linea, salvo qualche eccezione; dunque l’auspicio è di poter capitalizzare politicamente su un’azione ferma, bipartisan, apprezzata dall’opinione pubblica. Vi riuscirà Biden? Sono abbastanza scettico in proposito, anche perché Biden deve muoversi su un crinale piuttosto sottile. L’opinione pubblica apprezza la linea della fermezza verso Mosca, apprezza il sostegno all’Ucraina, apprezza la retorica – anche estrema in alcune sue formulazioni – adottata dal Presidente; ma è oggi, come lo era due o cinque anni fa, fermamente contraria a politiche estere interventiste, potremmo dire anche internazionaliste, con gli oneri che ne conseguono. Pesa il fallimentare esito delle guerre americane del XXI secolo, con la disillusione che ne è seguita; pesa moltissimo l’onda lunga della crisi del 2008: da storico, credo fortemente che siamo ancora sotto quel cono d’ombra. Si dice quindi “sì” al sostegno all’Ucraina, “sì” a una linea duramente antirussa, “sì” anche a un aumento delle spese militari del bilancio del Pentagono, quale quello previsto dalle proposte del bilancio di Biden; ma “no” a un intervento diretto statunitense, in qualsiasi forma, e una forte preoccupazione rispetto al rischio di un’escalation fuori controllo del conflitto, con tutte le conseguenze del caso. 

 

Anche se la presidenza Trump è alle spalle, i fattori durevoli di aspra tensione nella politica statunitense – la radicalizzazione del partito repubblicano, lo stallo legislativo esasperato, un gerrymandering spregiudicato per ridefinire i collegi elettorali – permangono. Che cosa aspettarsi in vista delle elezioni presidenziali del 2024? È plausibile che si determinino fibrillazioni di un ordine di grandezza ancora maggiore, con quel che ne conseguirebbe in termini di inaffidabilità democratica degli USA? 

Mario Del Pero: Io non sono molto ottimista sullo stato della democrazia statunitense: credo che gli Stati Uniti oggi siano attraversati da una crisi costituzionale e democratica profonda. Quest’ultima è il prodotto e il portato di forme di polarizzazione, di allontanamento tra le due parti, che hanno molteplici matrici connesse alla radicalizzazione estrema delle guerre culturali dell’ultimo mezzo secolo. Tale dinamica rende molto difficile trovare quel terreno mediano minimo di cui una democrazia come quella statunitense, una Repubblica federale come quella statunitense ha bisogno per poter efficacemente operare. Gli USA sono andati polarizzandosi in forma estrema, e lo vediamo molto bene rispetto a due dimensioni. In primo luogo, la produttività legislativa è crollata: al Senato – con alcune piccole eccezioni per leggi di bilancio – per poter chiudere il dibattito e mettere ai voti una legge c’è bisogno di una maggioranza di 60 senatori su 100, quindi tutto è paralizzato. Si fatica a produrre legislazione, con conseguenze molto forti sull’efficacia proprio dell’azione di governo. Non potendo far passare dei provvedimenti per via legislativa, i Presidenti – l’ha fatto Obama, l’ha fatto Trump, lo sta facendo Biden – agiscono per via esecutiva con executive order, una sorta di decreti presidenziali. Ovvero, elemento forse meno noto, utilizzano strumenti a loro disposizione per fornire indicazioni attuative molto precise rispetto alle leggi esistenti alle burocrazie federali, che sono responsabili per l’attuazione di queste leggi, spesso stravolgendo il senso ultimo di quelle leggi e governando per via burocratico-amministrativa. Tutto ciò pone problemi di contenuto della democrazia, perché l’attuazione di una legge può stravolgerla; e pone problemi di efficienza, perché gli ordini esecutivi possono essere immediatamente revocati. È difficile, anzi impossibile, proporre ampi piani di riforme se queste riforme non possono conoscere una codificazione legislativa.

In secondo luogo, nella dialettica tra potere federale e potere statale abbiamo una situazione in cui si radicalizzano le tensioni. Lo si è visto con Obama, ad esempio sulle politiche ambientali, lo si è visto con Trump sull’immigrazione. Vi sono autorità statali e municipali che attuano politiche deliberatamente contrapposte a quelle federali, e ciò alimenta uno scontro politico. In un Paese già per sua natura molto eterogeneo e composito, vi sono legislazioni statali che sono andate sempre più biforcandosi. Su un tema centrale delle guerre culturali, ossia l’aborto, tra l’ultima legislazione approvata dallo Stato di New York e quelle successive recenti – Texas, Alabama, adesso Oklahoma – sembra di vivere neppure in due Paesi diversi, ma in due galassie diverse. Con ciò che ne consegue rispetto alla tenuta di un sistema federale che, comunque, dovrebbe avere comuni denominatori minimi che tengano assieme tutte le parti. Un terzo punto è che la polarizzazione appare più marcata nel caso dei repubblicani. I repubblicani sono un partito minoritario da un punto di vista elettorale su scala nazionale, ma molto più omogeneo e coeso da un punto di vista demografico e, anche, politico-ideologico; massicciamente sovrarappresentati nell’elettorato repubblicano sono gli elettori uomini, bianchi, over 50. Quindi un partito come quello repubblicano, che ha un elettorato molto più omogeneo – demograficamente e ideologicamente – nella polarizzazione è compattamente radicalizzato. Diversamente, il partito democratico, che è molto più fluido, eterogeneo, potenzialmente maggioritario nel Paese, ha un pluralismo interno che obbliga le sue diverse componenti, anche le più radicali, a dialogare. In questa polarizzazione, più marcata per i repubblicani, vi è un processo di delegittimazione reciproca: l’interlocutore non è più un competitore politico, un avversario politico, ma è un nemico esistenziale, e il suo successo politico è una minaccia per la democrazia statunitense. Agli assalitori del Congresso del 6 gennaio è stato detto che quell’elezione era stata rubata, che c’erano ampie frodi elettorali, che la democrazia americana era minacciata, che la loro libertà ultima era in pericolo. Se la tua libertà e la democrazia a cui tieni sono in pericolo, diventa non solo legittimo, ma patriotticamente doveroso insorgere; e se l’avversario è un nemico esistenziale, la sua vittoria elettorale non è accettabile, è un pericolo e tutti i mezzi sono leciti per rovesciarla.

Infine, il gerrymandering. Questa pratica si inserisce nel solco di un ulteriore rafforzamento della logica della minority rule, il dominio della minoranza, che è in un certo senso incastonato nei meccanismi elettorali, per ragioni non da ultimo legate alla questione della schiavitù, e che è diventato anch’esso in una certa misura strutturale – si pensi che, dal 1988 a oggi, i repubblicani hanno vinto il voto popolare alle presidenziali una sola volta. Tornando al gerrymandering, ogni 10 anni, in conseguenza del censimento, vi è una riallocazione dei 435 seggi alla Camera bassa, che sono redistribuiti proporzionalmente fra gli Stati in base alla rispettiva popolazione. Questa riallocazione porta poi a ridisegnare i collegi elettorali; una grande maggioranza degli Stati – quasi 40 sui 50 totali – assegna la responsabilità del ridisegno a organi politici, tendenzialmente le assemblee legislative o commissioni di nomina esecutiva del governatore dello Stato. I collegi vengono ridisegnati con l’obiettivo di massimizzare il ritorno elettorale per il partito che ha il privilegio di poterli tracciare, con ridefinizioni molto discutibili, dal Texas alla North Carolina e al Wisconsin. Senza dubbio i repubblicani hanno potuto utilizzare maggiormente queste pratiche grazie alle vittorie elettorali, soprattutto alla grande vittoria del 2010 – che ha portato moltissimi Stati sotto il loro controllo – e alla tenuta elettorale del 2020. Nel 2020, nonostante il successo di Biden, in realtà le elezioni non sono andate bene per i democratici: i democratici avevano investito moltissimo con l’obiettivo di sottrarre assemblee legislative statali ai repubblicani, anche perché il 2020, anno di censimento, era strategico da quel punto di vista; hanno fallito dappertutto, sostanzialmente. Sono stati condotti numerosi studi in merito agli effetti del gerrymandering, comunque, e risulta chiaro che i repubblicani ne traggono un vantaggio considerevole. Questo amplifica una debolezza dei democratici, legata alla distribuzione meno efficiente del loro elettorato, che tende a concentrarsi in grandi agglomerati metropolitani, urbani o della prima suburbia. I democratici vincono tutti i collegi metropolitani ma, fuori da quelle aree urbane o primo-suburbane, faticano molto.

Concludo ribadendo che la crisi democratica statunitense è forte. Innanzitutto non si sono fatti i conti con il 6 gennaio 2021, che poteva essere un momento di svolta ma non lo è stato. Inoltre, il partito repubblicano continua a essere un partito, non so se “di Donald Trump”, ma certamente trumpizzato nelle sue formulazioni e nella sua retorica. Si è visto, anche nella discussione sulla nuova nomina alla Corte Suprema, che alcuni senatori nelle audizioni hanno tenuto un comportamento sconcertante, cercando di comportarsi loro stessi alla maniera di Trump. Lo si vede a livello statale, dove sono stati approvati o sono in corso di discussione alcuni provvedimenti legislativi finalizzati a intervenire politicamente sui processi di verifica e soprattutto di certificazione del risultato elettorale che, se fossero stati operativi nel 2020, avrebbero forse fornito ulteriori strumenti a Trump e ai repubblicani per rovesciare l’esito di quel voto. Al voto di midterm, il 9 novembre prossimo, è molto probabile che i repubblicani riconquistino la maggioranza alla Camera. Sarebbe una grande sorpresa se ciò non avvenisse. Al Senato c’è una mappa elettorale più favorevole per i democratici, che devono difendere molti meno seggi rispetto ai repubblicani, ma, in caso di voto pienamente nazionalizzato e di slavina elettorale repubblicana, anche il Senato potrebbe “saltare”. Quindi si va verso due anni di governo diviso. In un contesto polarizzato, lo scontro e l’inefficienza legislativa si faranno ancora più accentuati. Ecco, se si arriverà al voto del 2024 in queste condizioni, e se da quel voto dovesse uscire un esito di misura come quest’ultimo, i rischi di tensioni si faranno ancora più forti. Tutto ciò può avere ricadute sulla politica estera, perché è chiaro che degli Stati Uniti lacerati in questo modo sul piano interno faticheranno a condurre una politica estera coerente, lineare, capace di guidare. Fermo restando che il mondo del 2022 non è il mondo del 1992 e l’inequivoca superiorità di potenza statunitense di allora esiste, oggi, solo in parte.

 

Un altro tema che ritorna nel dibattito pubblico, e che rimane a forte rischio di banalizzazione, riguarda la relazione che lega gli USA al nostro Paese. Quali sono le coordinate fondamentali per leggere il rapporto fra Stati Uniti e Italia nell’attuale contesto internazionale? 

Mario Del Pero: Io credo che l’Italia sia un Paese importante per gli Stati Uniti in Europa – senza che questa importanza vada sopravvalutata, cercando o rivendicando chimeriche relazioni speciali con gli USA –, anche perché l’Italia è un Paese importante dentro l’UE. Nel periodo post-2008 l’Italia ha spesso offerto una sponda agli USA nell’attenuare la natura, si potrebbe dire, germano-centrica dell’Unione Europea. Lo si è visto bene con Obama sulla questione dell’austerity e della ripresa; tutti i governi italiani dell’epoca, guidati da Monti, Letta, Renzi, hanno insistito in una certa misura su questo aspetto. Quindi l’Italia è un partner importante degli Stati Uniti, ovviamente anche per la centralità del Nordafrica e del Medio Oriente, nonché per la presenza di basi importanti, in testa quella di Aviano, che rispetto a un certo uso dello strumento militare nella politica estera statunitense hanno svolto una funzione molto rilevante. Infine, l’Italia è un’economia per cui le esportazioni hanno un peso significativo, e il mercato statunitense per l’Italia è un mercato fondamentale. L’Italia ha una bilancia commerciale con gli USA molto più positiva di quanto non l’abbia, ad esempio, la Francia. In questo senso veniamo dopo la Germania, e in subordine l’Irlanda, che sappiamo avere con gli USA un rapporto particolare per tanti aspetti. Siamo il Paese con il saldo attivo nelle partite correnti più favorevole con gli Stati Uniti. Quindi – da un punto di vista geopolitico, dal punto di vista del ruolo che l’Italia può avere dentro l’UE rispetto ai rapporti con gli USA, e da un punto di vista economico – l’Italia è un partner non marginale degli Stati Uniti, tra i più importanti in Europa. Aggiungo che le classi politiche italiane, da De Gasperi nel 1947 in poi, hanno sempre cercato una forma di investitura, di legittimazione da parte di Washington. Citavo prima Monti, Letta e Renzi: viaggi americani e summit con Obama erano sempre adeguatamente celebrati e messi sotto i riflettori. Non è solo l’Italia, naturalmente, lo fanno anche altri Paesi. Questo denota talvolta un provincialismo in certe sue manifestazioni, ma fa parte del gioco politico in un contesto in cui le relazioni tra Europa e USA sono fondamentali. Concentrati sulla trasformazione dell’economia globale e su come determinate dinamiche di integrazione abbiano portato ad una crescente centralità dell’Asia Pacifico, a volte dimentichiamo che in termini di scambi commerciali, di investimenti diretti reciproci, l’interdipendenza transatlantica è ancora dominante per una parte come per l’altra. Gli investimenti statunitensi diretti in Europa sono circa tre volte quelli attuati in Asia. Dunque, ancora oggi, questa interdipendenza strategica, politica ed economica è profonda e importante.

Credo che con l’amministrazione Biden si siano prodotti alcuni eventi che hanno messo sotto tensione questa interdipendenza. Quella di Biden è un’amministrazione che, in parte – ma solo in parte – in continuità con Trump, ha posto il contenimento della Cina al centro della sua politica estera. L’obiettivo fondamentale è contenere una Cina non pienamente integrabile, minacciosa, revisionista. Fra le strategie attuate, si cerca di disancorare le catene globali di produzione da una presenza cinese, soprattutto nelle fasi iniziali e intermedie, che offre un potere di condizionalità particolarmente forte a Pechino. Credo che il modello per Biden e per i democratici sia il nuovo NAFTA con Messico e Canada, che ora si chiama USMCA, o United States-Mexico-Canada Agreement: negoziato da Trump, ma con una presenza forte dei democratici dentro le linee del negoziato stesso, e approvato a larga maggioranza al Congresso. Il “NAFTA 2” contiene una serie di clausole chiaramente finalizzate a ridurre la presenza e la condizionalità cinese nelle catene transnazionali di produzione. Ad esempio, la percentuale minima della componentistica di un’autovettura prodotta nello spazio NAFTA necessaria affinché possa beneficiare delle “tariffe zero” richiede che un 75% di essa sia prodotto entro quello spazio. La componentistica deve quindi essere essa stessa nordamericana: al posto dell’outsourcing, si reinternalizza la produzione; e questo ha chiaramente una valenza anticinese. Il distretto automobilistico di Querétaro in Messico, la Ford e gli altri soggetti del comparto devono fare in modo che la componentistica sia prodotta in loco o sia trasferita da produttori dentro lo spazio nordamericano. Credo sia un modello che, in una certa misura, gli Stati Uniti vorrebbero applicare anche con l’Europa; l’Europa, e soprattutto la Germania, per tante ragioni su questo ha tentennato e tentenna, in virtù dei rapporti che abbiamo costruito negli anni con la Cina. Il rischio è che si vada verso un sistema di interdipendenze regionalizzate, di blocchi regionali. Un collega molto bravo, Jeremy Adelman, che insegna a Princeton, parla di “interdipendenze tribali”. Ecco, un sistema di interdipendenze regionalizzate e di nuovi blocchi – e una “tribù atlantica”? – sembra essere un po’ l’obiettivo degli USA. Non so fino a che punto sia un obiettivo condiviso e condivisibile da parte degli europei. Da storico guardo con un po’ di paura a quel modello, per ciò che la storia ci dice sui modelli di interdipendenze e blocchi di questo tipo.

 

I rapporti recenti fra UE e USA hanno visto sviluppi non trascurabili, come la creazione del Trade and Technology Council, o l’annuncio di un accordo in linea di principio sul controverso tema dei flussi di dati. Da eventi simili giunge un salto di qualità nelle relazioni transatlantiche? E invece, la crisi in Ucraina funge da spartiacque nei rapporti futuri fra Stati Uniti e un’Europa sospesa fra la ricerca di un’autonomia strategica e un business as usual commerciale? 

Mario Del Pero: Nello slogan macroniano, un’autonomia strategica europea – per molti aspetti auspicabile nell’ambito securitario e militare – è costruibile solo assegnando un ruolo egemonico alla Francia. A maggior ragione con la Brexit, dentro l’Unione Europea c’è un attore che dispone di risorse militari che gli permetterebbero di esercitare un ruolo di leader. Non voglio esagerare la natura gollista, o neogollista, del progetto macroniano, ma è chiaro che per Macron, per la Francia, per il Quai d’Orsay l’autonomia strategica europea si sostanzia in un’Europa in cui la leadership securitaria francese può bilanciare quella economica tedesca. Quanto sta avvenendo in Ucraina sembra in realtà andare in altra direzione, promuovendo un impegno militare europeo, ma sotto un ombrello atlantico. Vi sono comunque molteplici ambiti in cui i negoziati tra UE e USA non si sono mai interrotti, nemmeno dopo che il grande accordo commerciale negoziato con Obama non è mai giunto a compimento. Anche dopo il fallimento del TTIP, sottotraccia sherpa e negoziatori delle due parti hanno continuato a collaborare su molteplici dossier, come portato dell’interdipendenza esistente. L’interdipendenza implica che aziende, studi legali, studenti universitari – si prenda qualsiasi ambito dell’agire economico, politico e civile – vivono forme di scambio e di circolazione molto intense, costruite e lubrificate da quasi settant’anni di integrazione politica ed economica. Da questo schema non si è usciti nemmeno nei quattro anni di Trump, durante i quali lo iato tra retorica e realtà è stato molto pronunciato. Si prenda ad esempio la NATO: Trump diceva di non riconoscere più l’Articolo 5, aveva paura che il Montenegro scatenasse una guerra, poi però la NATO è andata con il pilota automatico, continuando a condurre le proprie missioni e a redigere i propri documenti. L’interdipendenza rimane quindi molto profonda, ed è un’interdipendenza regolamentata, normata. Se ci concentriamo su quel forum fondamentale che è stato il WTO, in realtà le convergenze tra Europa e Stati Uniti sono state frequenti e forti, anche in chiave anticinese, su violazione di licenze, brevetti, dumping e così via. Perché alla fine, quando l’interdipendenza è così profonda, ne consegue spesso una comunanza non dico di vedute, ma di interessi. L’ultimo libro di un bravo collega, Jussi Hanhimäki, del Graduate Institute di Ginevra, intitolato Pax Transatlantica, rilegge la storia della Comunità atlantica ampiamente intesa – non solo della NATO – come sfera economica, securitaria, culturale, post-guerra fredda. Hanhimäki crede fortemente nel fatto che questa comunità ha piantato radici talmente profonde che in ultimo non verranno mai recise. A mio avviso è una visione troppo ottimistica, o che tende a magnificare un po’ troppo la coesione transatlantica – benché sia un ottimo libro. Al tempo stesso, a volte sottovalutiamo la profondità dell’integrazione transatlantica perché siamo più presi da elementi superficiali di contrapposizione e scontro: è un fatto di alto valore simbolico che Trump non dia la mano ad Angela Merkel, intendiamoci, ma mentre ciò avveniva, la Germania continuava ad avere i suoi più ampi surplus commerciali di sempre con gli USA. Anche sul contenimento della Cina, determinati processi di vetting, di filtro degli investimenti cinesi sono stati attivati in parallelo negli USA nel 2017-2018 così come in Europa: tant’è che c’è stato un calo degli investimenti cinesi, determinato sì da scelte della Cina stessa, ma anche da politiche più rigorose e severe di screening. Detto tutto ciò, le turbolenze politiche americane, molto forti, così come quanto abbiamo visto in parallelo avvenire in Europa – l’ascesa di forze politiche dichiaratamente anti-europee, in talune componenti finanche eurofobiche – inserisce variabili nuove, che sul medio-lungo periodo potrebbero avere ripercussioni. 

 

La società statunitense e quelle europee sono state accostate fra loro per tendenze considerate simili, quali il populismo e il sovranismo nel sentimento popolare sotteso al referendum su Brexit e all’elezione di Trump nel 2016. Tuttavia, fatti come quelli di Minneapolis hanno suggerito che le tensioni sociali negli USA, su base etnica ma non solo, siano così pervasive che non ne conosciamo l’eguale in Europa né riusciamo a interpretare a fondo quel contesto. Per quali aspetti la società statunitense e le società dell’Europa occidentale sono comparabili, e per quali sono invece incommensurabili o quasi? 

Mario Del Pero: La questione razziale – la sua presenza come una ferita storica ab origine – distingue gli Stati Uniti. Possiamo trovare somiglianze con alcune società europee, ad esempio con quella francese: un collega, Pap Ndiaye, si occupa di diritti civili transnazionali e cerca di mettere in dialogo la questione nera in Francia con quella americana. Al tempo stesso, però, gli Stati Uniti hanno una storia propria e, soprattutto, un depositato di quella storia ancora oggi molto vivo, lacerante, divisivo, che con Obama – con i fatti di St. Louis, Ferguson, poi Minneapolis, il caso di Trayvon Martin in Florida – è riesploso pienamente. Credo che questo distingua gli USA dall’Europa, fermo rimanendo che le convergenze e le affinità sono molto forti perché rimandano a problemi, diciamo così, di tutte le società più ricche, delle democrazie più ricche in termini di prodotto interno lordo e di redditi individuali, e più avanti nella transizione verso una società di servizi avanzati nella quale il peso del manifatturiero, dei settori industriali, è diminuito – anche se, su questo, tra gli Stati Uniti e la Germania o l’Italia, c’è una bella differenza. Quali sono però questi problemi, e quali le fragilità conseguenti? La prima domanda rimanda all’impatto che hanno avuto le dinamiche di integrazione globale dentro cui queste democrazie e i loro sistemi economici si sono collocati pienamente, talvolta beneficiandone – immensamente, in alcuni settori. Noi abbiamo alcuni stereotipi e caricature rispetto agli Stati Uniti, come di un Paese o di un’economia travolti dalla globalizzazione, ma questo non è vero: ci sono aree di servizi avanzati che sono rinate dentro la globalizzazione. Andando oggi a Austin, Texas; a Little Rock, Arkansas; o a Pittsburgh, una città post-industriale: si vedrà come queste città, e gli agglomerati metropolitani che vi stanno attorno – ho preso tre esempi, ma ce ne sarebbero moltissimi altri, grandi e piccoli – hanno beneficiato delle dinamiche di integrazione globale. Tuttavia, alcune aree sono state in effetti devastate; i governi a volte hanno fatto relativamente poco – gli Stati Uniti, nello specifico, molto poco – per proteggere i perdenti della globalizzazione. Tutto ciò ha generato reazioni ostili di disillusione, perché il compito ultimo di una democrazia è garantire ai propri cittadini protezione e sicurezza, il cui significato nel corso del XX secolo si è esteso progressivamente. Nel momento in cui uno Stato non è in grado di fare questo, crescono sfiducia, rabbia e ostilità.

Io credo che uno spartiacque cruciale sia stata la crisi del 2008, perché ha fatto saltare – nel caso degli Stati Uniti in maniera molto esplicita – alcuni dei meccanismi fondamentali che avevano contenuto od occultato questi processi. Vale a dire un accesso ai consumi a debito agevolato da credito facile deregolamentato, che permetteva, in buona sostanza, di continuare a consumare e avere l’illusione di arricchirsi, o comunque di reggere la situazione, quando in realtà non era così. Tant’è che, nel misurare la disuguaglianza, negli USA alcuni centri di ricerca o think tank conservatori (penso alla Heritage Foundation) avevano cercato di introdurre indici alternativi a reddito, ricchezza o accesso all’istruzione, dirigendosi verso redditi di consumo, come la quantità di beni voluttuari di cui un determinato individuo o una famiglia poteva disporre. L’intuizione alla base di ciò è che se si possiedono una casa spaziosa, tre macchine e quattro schermi televisivi, allora si è in una condizione di benessere. Dai primi anni Ottanta la curva dei consumi privati, familiari o individuali – negli Stati Uniti questo fenomeno è molto marcato, in Gran Bretagna anche, in Europa continentale meno – decolla, laddove la curva dei redditi, la curva degli investimenti aggregati restano uguali, e la forbice della disuguaglianza si amplia a dismisura. Contestualmente crollano i risparmi individuali come percentuale del reddito disponibile.

Ecco, nel 2008 tutto ciò è esploso con il combinato disposto di bolla finanziaria e bolla del settore immobiliare, dove l’una reggeva l’altra. In questo vedo assonanze tra Europa e USA, perché la globalizzazione post-anni Cinquanta ha colpito alcuni segmenti di queste società, probabilmente non maggioritari ma tutt’altro che marginali, alimentando rabbia e disillusione. A proposito di chi studia il legame tra globalizzazione e disuguaglianza, Global Inequality di Branko Milanović, uscito nel 2016, mostra come all’ascesa di un “ceto medio globale”, cioè di persone che stanno meglio, in India e soprattutto in Cina, che ha trainato questo processo – persone che noi considereremo a basso, bassissimo reddito individuale, ma che nel contesto cinese costituiscono invece un ceto medio – è corrisposta la crisi profonda e la perdita di potere d’acquisto e di reddito dei ceti medi o medio-bassi delle società più ricche. Gli operai della Chrysler, ad esempio, che erano un’aristocrazia operaia – che certo lavoravano in fabbrica e lavoravano molto, ma avevano determinate tutele, garanzie di reddito, di sicurezza e di sanità – vedono crollare tutto ciò nel momento in cui la Chrysler è sempre meno competitiva. È solo un esempio tra innumerevoli altre realtà. Le responsabilità possono essere diverse; a fronte di forme di integrazione finanziaria, quindi di disponibilità di capitali immense, poco o nulla negli Stati Uniti è stato fatto ad esempio per attivare a livello statale o federale programmi di riqualificazione professionale di chi, in virtù di queste dinamiche, perdeva il proprio posto di lavoro o vedeva le sue condizioni lavorative deteriorarsi. Credo comunque che quel deterioramento dei ceti medi e medio-bassi sia l’elemento che connota lo stato delle democrazie più avanzate, in Europa e Nord America, che sia un tratto comune e sia la matrice primaria delle fatiche di queste democrazie. Il Covid – anche se uno storico dovrebbe magari attendere di avere maggior distacco – sembra aver attutito tutto ciò, perché ha ridato allo Stato – al potere federale negli Stati Uniti e anche all’Unione Europea – un ruolo, delle responsabilità, una legittimazione conseguente a intervenire e dunque un consenso all’intervento. Vi sono stati piani straordinari di spesa, di investimento; gli USA, tra il primo intervento di Trump e il secondo di Biden, hanno iniettato migliaia di miliardi di dollari dentro alla propria economia. Bisogna capire se sul medio-lungo periodo questa riacquisizione di legittimazione sia destinata a rimanere.

Scritto da
Andrea Pareschi

Policy officer responsabile delle politiche digitali nella Delegazione della Regione Emilia-Romagna presso l’UE. Professore a contratto di Sistema Politico Italiano all’Università di Bologna tra il 2020 e il 2022. Nel 2019 ha conseguito un dottorato di ricerca in Political Science, European Politics and International Relations presso la Scuola Superiore Sant’Anna e le università di Siena, Pisa e Firenze. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Forlì, ha frequentato il Collegio Superiore di Bologna. Ha trascorso soggiorni di ricerca presso l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne e il King’s College London.

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