Scritto da Massimo Cacciari
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Pubblichiamo volentieri questo testo a cura di Massimo Cacciari, rielaborato a partire dall’intervento tenuto in una conversazione con Gianni Cuperlo e Massimo Amato, moderata da Lucio Gobbi, svoltasi a margine del convegno “Economia e politica dopo la catastrofe. L’eredità di Claudio Napoleoni” organizzato il 10 dicembre 2020 dalla Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci. Il convegno ha preso le mosse dall’interesse per la figura complessa e sfaccettata di Claudio Napoleoni, confermata dalla recente riedizione del “Discorso sull’economia politica” a cura di Massimo Amato e Stefano Lucarelli e da articoli e saggi di numerosi altri autori. Ringraziamo Massimo Cacciari e la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci per la possibilità di ospitare il contributo.
A questo link Massimo Amato e Gianni Cuperlo in dialogo su Napoleoni; qui il contributo di Stefano Lucarelli su Napoleoni e “Produzione di merci a mezzo di merci” di Sraffa, qui il contributo di Dominique Saatdjian su Napoleoni e Pasolini, qui il contributo di Francesca Coin su Capitalismo e riproduzione sociale a partire dal dialogo tra Napoleoni e Ravaioli e qui il contributo di Massimo Amato su Napoleoni e Heidegger.
Il marxismo italiano avrebbe dovuto ripartire dalla lezione di Claudio Napoleoni. Per due fondamentali ordini di motivi: il primo, il superamento di ogni pretesa di fondazione scientifica del concetto di sfruttamento; il secondo, la coscienza del carattere metafisico della visione del mondo e dei valori che si incarnano nel sistema sociale di produzione capitalistico. Per il primo ordine di motivi, è essenziale per Napoleoni il confronto con Sraffa; per il secondo, quello con Heidegger e Severino[1]. Mentre tra anni Sessanta e Settanta la teoria economica di orientamento marxista cerca in Sraffa la possibilità di conservare il nocciolo scientifico della teoria del plusvalore, Napoleoni disincanta il tentativo, dimostrando la neutralità dell’analisi sraffiana rispetto a questo tema e la sua utilizzabilità sia da parte dei “classici” che dei “neo-classici”. Il sistema sraffiano è aperto e wertfrei. (Sia detto per inciso, poiché qui non interessa tracciare una “storia del pensiero”, il fallimento del tentativo di combinare Sraffa con una teoria dello sfruttamento, spiega molto del cambio di clima radicale in questi studi e l’imporsi in tutte le Accademie di una economia senza politica, con quali “benefiche” conseguenze non sta a me dirlo).
Se il sovrappiù è un matter of fact accertabile empiricamente da cui non si può trarre alcuna conseguenza sulla natura dello sfruttamento e, quindi, politica, la teoria marxiana del plusvalore va francamente abbandonata. Essa non può spiegare il formarsi dell’accumulazione e della ricchezza. Ma che al tempo di lavoro non possa essere ricondotta la determinazione della ricchezza, lungi dal liquidare tout court il discorso di Marx ne permette l’esatta ri-collocazione, Er-örterung. Non è il tempo di lavoro, ma certamente è il lavoro vivo ciò che genera la sua eccezionale crescita. Vivo, e cioè liberato da ogni suo vincolo “servile”, pronto all’impiego. Vivo, e cioè produttivo. Vivo, e cioè sociale, valorizzante solo nella misura in cui parte di un cervello sociale in perenne funzione. Il sistema capitalistico, la civiltà del capitale, la prima che si regga sul primato dell’Economico, crea le condizioni per il massimo sviluppo di questa forma dell’Homo laborans, e da questa energia crea la sua ricchezza. Non vi è altro fattore che ne sia fonte o causa. Causa sui del sistema capitalistico è la messa al lavoro in forma sociale complessiva, organizzata, di masse straordinarie di umani.
Nessun “tempo” può calcolare la produttività di questo lavoro sociale. E per una ragione di fondo già compresa da Marx (anche se poi, alla ricerca della esattezza scientifica, da buon figlio del suo secolo, egli non mette a profitto il nocciolo più duro della sua idea del capitalismo): che questo lavoro è eminentemente quello scientifico. Naturalmente, lavoro scientifico sempre più globalmente organizzato, pianificato, sempre meno riducibile alla somma di tanti lavori individuali. Lo specialismo cresce in proporzione diretta alla crescita dell’integrazione tra gli specialismi in un’unica messa all’opera dell’energia creativa e produttiva del cervello umano. Energia che si sottrae ad ogni misura temporale, che si astrae da ogni determinatezza sia temporale che locale.
È questa condizione storico-epocale del lavoro umano che spiega materialmente la ragione del fallimento della teoria marxiana del plusvalore. Non si tratta di un errore di analisi! E allora la domanda diviene: il lavoro vivo, che è oggi questo lavoro che trova nella scienza la sua espressione massima, ma che permea di sé tutto il tessuto socio-economico, deve necessariamente restare incorporato nel capitale e apparire come una attività che gli appartiene? È la stessa domanda di Marx; ma essa, ricollocata nel contesto che abbiamo indicato, muta radicalmente di segno. Tra il lavoro che nella sua essenza si esprime come scientiam facere e la forza-lavoro delle grandi fabbriche del capitale, delle sue “cattedrali”, non corre soltanto una differenza culturale-antropologica, ma di ontologica relazione col capitale. Per la forza-lavoro sindacalizzata-politicizzata (“classe operaia”) era comunque di antagonismo, e poteva diventare di “negazione”. Per lo scientiam facere la relazione è infinitamente più complessa, poiché proprio per sviluppare la propria energia, per esprimere fino in fondo la propria potenza, il lavoro della scienza ha bisogno di sempre più grandi apparati tecnico-produttivi, e cioè di un grande capitale. È questo il paradosso: il lavoro della scienza ha un’interna, autonoma potente motivazione al proprio sviluppo, che però, per essere soddisfatta, ha la necessità di integrarsi in potenti apparati economico-finanziari, finendo con l’appartenervi.
Come immaginare, allora, le condizioni per cui questo lavoro vivo entri in contraddizione con il sistema capitalistico che lo incorpora in sé? Come immaginare le condizioni per cui l’immensa ricchezza che questo lavoro crea possa trasformarsi in energia liberante per l’umanità? Dove collocare la contraddizione? Ma, prima ancora, come immaginare lo scientiam facere in questa chiave politica? Non si opera qui, forse, una ingenua, immediata trasposizione nella nuova forma dei rapporti di produzione dell’immagine novecentesca di “classe operaia”? Potrebbe la forma produttiva sociale del lavoro vivo contemporaneo trasformarsi in soggetto rivoluzionario? Diciamolo più “modestamente”: possono ancora darsi nel capitalismo globale che trae dallo scientiam facere non solo la sua ricchezza, ma, in qualche modo, l’asse della propria stessa ideologia, soggetti in grado di imporgli politiche volte a fare di tale ricchezza fattore di universale liberazione?
La domanda, è chiaro, contiene in sé una contraddizione. Mai come ora il lavoro vivo è incorporato nel capitale, ma, nello stesso tempo, mai come ora questa forma del lavoro vivo appare, nelle sue stesse origini, autonoma rispetto alle finalità dell’accumulazione e del profitto. La contraddizione intrinseca al lavoro comandato dal sistema capitalistico, tra l’essere “libero” in sé e null’altro che parte del capitale, si ripresenta in forma ancora più drammatica. Ma Napoleoni sapeva bene – e da qui la sua rottura con Colletti – che il capitalismo è contraddizione. E imparò poi, con Severino, che la contraddizione in sé non inficia minimamente il principio saldissimo, quello di non contraddizione. Per essere se stesso ogni ente implica, infatti, la sua relazione all’altro, la relazione con ciò che esso non è. La forza lavoro è nel suo rapporto con il capitale, che in potenza può benissimo negare. Diremmo, con l’Aristotele che Marx conosceva bene, che la classe operaia politicamente organizzata esprime l’atto di ciò che la forza lavoro è in potenza. Gli opposti sono in relazione nel concetto stesso di capitalismo, concordano esattamente nel loro contraddirsi. Ma tutto questo non risolve l’aporia: come concepire in contraddizione lavoro scientifico (nel senso ampio, e proprio, del termine, come quell’aspetto o quella dimensione di tutto il lavoro che ne rende possibile la produttività) e il sistema sociale cui, come si è visto, appartiene certamente (e non sembra soltanto appartenere)? Qui sembra venir meno la possibilità stessa della contraddizione, e perciò della trasformazione dell’esistente.
Napoleoni non ha risposta alla domanda. Cerca ancora – il suo è un diaporein. Ma prima di vedere in quale direzione si debba cercare (poiché si cerca sempre sulla base di un progetto), Napoleoni sa benissimo su quali punti dovrebbe radicalmente mutare la politica di quelle forze che il Novecento ha riassunto nel nome di “movimento operaio” (quelle forze politiche, cioè, che vedevano nell’operaio di massa la figura-chiave dell’Arbeiter contemporaneo e nel suo antagonismo al capitale il soggetto del superamento della Trennung tra potenza del lavoro e forma proprietaria). Crollata l’idea di un qualsiasi “automatismo” che possa condurre alla catastrofe, al mutamento di stato (simili idee son passate di mano dal marxismo economicistico alle varie “filosofie” sul tramonto del capitalismo e alle varie ideologie intorno ai “limiti dello sviluppo”), è l’azione politica (quell’altro aspetto della geistige Arbeit, di cui ho parlato nel mio saggio weberiano Il lavoro dello spirito) che decide della forma che può assumere la relazione tra lavoro vivo e sistema sociale di produzione. Napoleoni si è sempre battuto per “razionalizzare” le politiche di Welfare, per difendere conquiste sindacali e di diritti rese possibili dalla “età socialdemocratica” del secondo dopoguerra. È sempre stato anche un riformista. Ma ne ha sempre riconosciuto i limiti storici, proprio in relazione ai problemi fin qui individuati. Appare necessario, anzitutto, mutare la prospettiva secondo cui si affronta l’asse decisivo della politica socialdemocratica, quello dell’occupazione e della distribuzione del reddito. In tutti i sensi, il lavoro materialmente erogato non può più fornire alcuna “unità di misura”. Non si tratta semplicemente di affrontare una fase caratterizzata da un modello produttivo che accelera straordinariamente la tendenza secolare al risparmio di lavoro necessario. È la forma stessa del lavoro che muta nella rivoluzione tecnologica che attraversiamo. La distribuzione del reddito va sganciata dalla materiale erogazione di lavoro “occupato”, dipendente. Ogni individuo in questo sistema va considerato non più come tale, ma come funzione di un complesso produzione-consumo inscindibile nelle sue parti, e a lui va garantito un reddito in quanto fattore agente di tale complesso, al di là di ogni logica assistenziale. Il movimento operaio fonda ancora la propria ideologia su un’etica del lavoro che impedisce tale mutamento di prospettiva. Così, almeno nelle metropoli del capitalismo, o nelle sue antiche capitali, crescono semplicemente disoccupazione, frustrazione, risentimento, e crescono le spese assistenziali del tutto improduttive.
Seguendo la lezione di grandi keynesiani critici, come ad esempio Kalecki, Napoleoni “avvisa” i suoi compagni naviganti per tutti i Settanta e Ottanta, che le loro idee di politica industriale (ancora fondate sul primato della manifattura), di investimenti pubblici trainanti tout court, che la loro disattenzione alla “crisi fiscale” dello Stato e alla crescita patologica di burocrazie ministeriali, in particolare col fallimento già allora evidente dell’assetto regionalistico, avrebbero inevitabilmente portato ad una crisi economico-sociale e alla decadenza del nostro Paese. Ma Napoleoni comprendeva che non si trattava di insufficienze tattiche. Era la cultura sostanzialmente storicistica e la sua subalternità a una visione progressista dello stesso sviluppo economico (cui corrispondeva perfettamente l’altra faccia opposta e complementare: una opposizione di volta in volta “umanitaria”, “ecologistica”, ecc. , tutta condotta per appelli ai “valori”) a condannare all’impotenza la “sinistra”, a farne quell’“ente di ragione”, che alla fine è diventata. Non vi era la radicalità necessaria nel comprendere l’essenza del capitalismo che si dispiegava in questa sua nuova epoca. Nel senso più proprio: se ne ignorava il carattere meta-fisico: il capitalismo non è la fisica delle macchine, dell’organizzazione del lavoro, del lavoro come capitale. Il sistema capitalistico, nel suo instancabile progettante anticiparsi, che non consente una vita presente, è la riduzione di ogni essente all’essere disponibile in base alle sue leggi. In questo quadro la tecnica non è affatto l’applicazione neutrale della scienza; l’essenza della scienza moderna è tecnica. Ed è inservibile “umanesimo” quello della rivendicazione della autonomia del scientiam facere. Il pensiero di Napoleoni, mosso da questa esigenza di radicalità, non certo per vana curiositas, incontrava così quello di grandi filosofi (che si interrogavano sulla “fine della filosofia”!), incontro reso necessario dalla sua stessa riflessione sul sistema economico. Ma non poteva trovarvi alcuna risposta alla aporia cui tale riflessione l’aveva condotto. Quei filosofi respingono la stessa domanda sul “che fare”. Nessun “fare” può nulla sul destino, anzi: la stessa idea che la nostra prassi qualcosa possa implica l’integrazione nella dominante Machenschaft. Semmai, dovremmo pensare ri-lasciando il fare, al cui primato conduce l’intera storia della metafisica e della scienza dell’Occidente. Forse qualcosa, tuttavia, lega questa estrema idea a quell’istanza di superamento dell’etica del lavoro, su cui soltanto sembra oggi possibile far leva per mutare lo stato di cose esistente.
[1] L’incontro di Napoleoni con questi autori credo avvenga nella seconda metà degli anni Settanta. Io lo conobbi personalmente in quell’epoca e il nostro primo colloquio fu proprio intorno a un articolo per la morte di Heidegger che avevo scritto su Rinascita, con grande scandalo della “ortodossia”. Consigliai allora a Napoleoni di leggere Abitatori del tempo di Severino e di iniziare lo studio anche della sua opera. Le nostre discussioni intorno a questi autori erano quotidiane, e ne trovo con nostalgia le tracce in L’enigma del valore, pubblicato su Rinascita nel 1978. In seguito, su Pace e Guerra nel 1980 pubblicammo tra noi un dibattito proprio su Heidegger. Dopo la pubblicazione del Discorso sull’economia politica, discutemmo sulle prospettive che questo libro apriva in un “carteggio” su Micromega (1/1988), Dialogo sull’economia politica. Né quello su Pace e guerra, né quest’ultimo sono stati successivamente ripubblicati.