La libertà conservatrice
- 13 Aprile 2023

La libertà conservatrice

Scritto da Lorenzo Castellani

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«Quando uscivi dalla porta sul retro di quella casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo alle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto tempo stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. […] E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. […] In cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Uno potrebbe anche pensare questo. Ma secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte».

Con queste poche righe Cormac McCarthy, forse il più grande romanziere americano vivente, dipinge con efficacia e potenza scenica la tensione che squarcia il conservatorismo nel suo rapporto con la tarda modernità. Epoca in cui termini come “conservare”, “durare”, “tramandare”, risultano concetti al limite dell’utopia proprio perché la struttura del progresso, cioè la perenne distruzione creatrice del capitalismo, la crescita della potenza tecnologica e il processo di infinita liberazione dell’individuo dai legami tradizionali, mette il conservatorismo culturale e politico su una soglia che rischia sempre di chiudersi. Ad un passo dall’impraticabilità, insomma. Al tempo stesso però, come emerge dalla prosa potente di McCarthy, pur se impossibile questa spinta a conservare è una pulsione necessaria per ogni essere umano. Il rapporto con il passato e la tradizione rappresentano una corda che non può essere mai completamente recisa perché dal buon rapporto con ciò che si eredita dipende la disposizione verso il futuro. Quando ciò che è (o è stato) appare minacciato, il futuro si mostra oscuro e pericoloso. E ciò forse spiega perché la società più ricca, benestante, innovativa e tecnologicamente avanzata della storia possa aver paradossalmente bisogno di un certo livello di conservatorismo politico e culturale. Chi vuole conservare sa di non poter fermare l’avanzare delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali – altrimenti sarebbe soltanto un reazionario – ma in questo processo vuole preservare alcuni punti cardinali sui quali si pensa e si muove l’umano. Questo conservatorismo quasi impossibile, e al tempo stesso radicatissimo al fondo delle cose, non sembra poter esser cancellato nemmeno nell’epoca delle massime accelerazioni trasformative e delle libertà individuali assolute o quasi.

Nell’ultimo decennio il concetto di conservatorismo è tornato alla ribalta nella discussione politica, ma l’impressione è che spesso, tanto da parte dei progressisti e dei liberali quanto da parte di coloro che si definiscono conservatori, ci sia una certa superficialità intrisa di determinismo, che relega il conservatorismo alla pura prassi politica, nell’analizzare le ragioni del ritorno conservatore. Si è infatti soliti attribuire la crescita di una destra più conservatrice alla crisi finanziaria del 2008, alle crescenti disuguaglianze e distanze tra borghesia urbanizzata e istruita e le province, alle politiche della globalizzazione e dell’immigrazione troppo lassiste e disinvolte, al progresso tecnologico impetuoso, alla deindustrializzazione e alle asimmetrie del welfare, alle dinamiche della politica internazionale, ai progetti e agli atteggiamenti di una élite eccessivamente cosmopolita, tecnocratica e autoreferenziale. Tutte queste cause hanno un impatto sulle trasformazioni politiche, ma per comprendere fino in fondo questo ritorno del conservatorismo, in forme per altro diverse da quelle degli anni Ottanta, è necessario scendere più in profondità per coglierne la forza, le aporie e le contraddizioni in particolare nel rapporto tra questo e la libertà. Nel compimento di quell’entusiasmante processo di liberazione da vincoli, dogmi, tradizioni, autorità e strutture che definisce la tarda modernità, l’individuo si è infine scoperto solo[1]. E con una certa sorpresa ha trovato questa condizione di libertà, conquistata con un faticoso processo di emancipazione individuale e collettiva, spesso insoddisfacente. La demolizione dei vincoli tradizionali, accelerata dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare dopo il 1968, ha creato spazio per maggiori libertà individuali, ma anche determinato occasioni in cui la solitudine, l’alienazione, lo spaesamento del soggetto si amplificavano per la perdita della protezione che le istituzioni tradizionali erano in qualche modo in grado di fornire. Che cosa si intendeva demolire con il paradigma progressista e liberale della tarda modernità? In termini semplici, ci si voleva liberare di tutto ciò che ostacolava la rincorsa dei desideri dell’io verso la loro immediata soddisfazione. Ordinamenti, strutture, sistemi, partiti, chiese, leggi, abitudini, tradizioni, dogmi, codici, regimi, opinioni, usanze, costumi e perfino assetti biologici che limitavano le aspirazioni personali. Ogni cosa è stata messa in discussione, decostruita o radicalmente riformata per fare spazio a un individuo sempre più bisognoso di affermazione. In questa continua liberazione, però, l’individuo perdeva il proprio “posto nel mondo” dettato dalla nascita, dalle usanze, dal territorio, dalla famiglia, dalle tradizioni. L’essenza della tarda modernità si realizzava in un “disancoraggio” della persona, con la sua costellazione di certezze e vincoli, a favore di un individuo libero sì, ma anche privo di riferimenti e quindi più instabile e precario. In termini molto stilizzati, questa è la condizione dell’individuo moderno in rapporto alla libertà vista con gli occhi di un conservatore. L’uomo non ha più vincoli e obblighi, ma questo stato non gli dice nulla circa la strada da imboccare per raggiungere la propria realizzazione. Può andare ovunque, ma non sa bene dove andare e dunque si rifugia in quelle poche certezze che ha.

Senza aver presente questa prospettiva interpretativa della tarda modernità diventa difficile comprendere sia il conservatorismo del terzo millennio sia il suo prepotente ritorno sulla scena politica. Per il conservatore è come se l’individuo contemporaneo fosse sempre davanti a un bivio: da un lato la sottomissione a un potere oppressivo che viola le libertà e nega i diritti ma offre in cambio protezione e un certo grado di sicurezza economica; dall’altro, il “conformismo compulsivo” di soggetti che si somigliano fra loro non per decreto o per coercizione, ma per scelta e per effetto del processo di emancipazione. Nella seconda ipotesi, per dirla con Erich Fromm, «l’individuo isolato diventa un automa, perde il suo io, eppure allo stesso tempo concepisce sé stesso come libero e soggetto soltanto a sé stesso»[2]. Questo è quello che Fromm chiama «l’illusione dell’individualità»: l’individuo moderno, dotato dell’arma debolissima della libertà negativa, non solo non è autenticamente libero, ma è fermamente convinto di esserlo. Crede di esprimere l’unicità del proprio essere e la fermezza della propria volontà, ma invece è tirato da ogni parte da mode, istinti mimetici, dinamiche di gruppo, pressioni sociali. È confortato dalla sua bolla mediatica che amplifica ciò che sa già, è bersagliato da algoritmi che gli suggeriscono cosa desiderare, ignora beatamente l’esistenza di eserciti di studiosi del comportamento, esperti di marketing e sofisticati algoritmi che gli dànno spinte più o meno gentili verso scelte nel proprio interesse. Dal momento che l’uomo si è liberato dalle vecchie forme esplicite di autorità e protezione, non si accorge di essere preda di un nuovo tipo di autorità. L’individuo tardo-moderno è diventato un automa che vive nell’illusione di essere dotato di una volontà propria. Questa illusione aiuta l’individuo a rimanere ignaro della sua fragilità, ma è tutto ciò che un’illusione può dare mentre in realtà, nella foga del progresso, diviene sempre più eguale e conformista. Un abbaglio prometeico che spinge l’umano sempre di più verso forme egotiche e narcisistiche.

Un conservatore liberale come Alexis de Tocqueville aveva già denunciato questo pericolo nel diciannovesimo secolo. Egli sosteneva che l’origine dell’egoismo è un «istinto cieco», mentre l’individualismo discende da un «giudizio erroneo», questione più profonda e radicale di una semplice perversione dei sentimenti. L’egoismo, scrive Tocqueville, «dissecca in germe tutte le virtù», mentre l’individualismo opera in modo più sottile e insidioso: «inaridisce inizialmente solo la fonte delle pubbliche virtù; alla lunga, però, intacca e distrugge tutte le altre e finisce con l’essere assorbito dall’egoismo»[3]. Una posizione che affonda le sue radici nella concezione dell’individuo come entità autosufficiente, dove l’individuo tende a cercare le ragioni di ogni cosa «soltanto in sé stesso». Tocqueville intuisce che, allentando i legami sociali, si opera anche una separazione fra le generazioni, promuovendo una concezione che verrà ereditata dai giovani e poi trasmessa a quelli che verranno dopo, in un ciclo perpetuo, per cui «la democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i propri avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; lo riconduce continuamente verso sé stesso e minaccia di chiuderlo interamente nella solitudine del suo cuore». In altre parole, e qui giungiamo ad altri due concetti fondamentali del conservatorismo, il progresso fondato sull’individualismo attacca ed erode sia la comunità che l’autorità. Nel rapporto tra singolo e comunità si incrociano gli ostacoli posti dallo Stato e dal capitalismo globale a questa relazione. Lo Stato moderno, infatti, è un distruttore di comunità locali, ordini, associazioni, chiese, consuetudini, usi e costumi al fine rafforzare il proprio processo di legittimazione attraverso la centralizzazione delle decisioni e la razionalizzazione dei mezzi. Per il conservatore, lo Stato fiorisce a discapito di comunità che vengono depredate del proprio valore umano, spirituale, politico ed economico al fine di ottenere una standardizzazione. Il Leviatano fa tabula rasa di ogni corpo intermedio tra sé stesso e l’individuo, il quale, pur nell’eguaglianza con gli altri, resta solo e nudo di fronte al potere di questo gelido mostro[4]. Di conseguenza, lo Stato produce una élite centralista e centralizzata, una burocrazia professionale e omogenea, che ha la pretesa di disegnare nuove istituzioni, di dirigere la società dal centro, di imporre regole giuridiche ed etiche piegando le istituzioni storiche e spontanee della comunità. Se ciò vale per lo Stato nazionale nei confronti del governo locale, ancora di più è vero per le istituzioni sovranazionali rispetto alla comunità nazionale, le quali vengono percepite come lontane, artificiali, burocratiche, tecniche, espressione di grandi interessi e potenti reti distaccate dalla vita quotidiana dell’uomo comune[5]. Queste, per il conservatore, sono il terreno ideale delle élite in fuga, dello sradicamento, del dirigismo dall’alto, di una emancipazione a tappe forzate, che nessuno ha richiesto, imposta per decreto per volontà di una minoranza le cui radici non affondano da nessuna parte[6].

In questo contesto, il capitalismo globale – alimentando forme di consumismo senza limiti, di deterritorializzazione della produzione, di conformismo dei gusti e creando istituzioni sovranazionali – al pari dello Stato distrugge le autorità tradizionali, depaupera il piccolo produttore, inaridisce il tessuto economico locale, delocalizza l’impresa e soprattutto burocratizza e managerializza il mercato. Il conservatore non è mai un anticapitalista tout court, ma è favorevole a forme di capitalismo territoriale e produttivo, locale e famigliare, corporativo e padronale[7]. Al tempo stesso, però, il conservatorismo si oppone al grande capitalismo, al dominio del management concentrato nelle aree metropolitane e affratellato con banche e politica; alle corporation globali politicizzate che oramai si sono date una missione anche di progresso e supposta civilizzazione; al sacrificio della manifattura industriale a favore di un’economia dei servizi e della conoscenza. Il conservatore difende la proprietà privata concreta, immobiliare e mobiliare, che è fondamento di libertà mentre diffida dell’intermediazione virtuale e dell’idea di una “società in affitto perenne”. Nel conservatorismo di oggi c’è, dunque, una doppia polemica, verso lo Stato accentratore, e le sue proiezioni sovranazionali in particolare, e verso il capitalismo globale, a tutela della comunità e della tradizione. Se il primo genera burocratizzazione, centralizzazione, esasperata omogeneità e forme di disciplinamento dei comportamenti e dei linguaggi in un mondo che era stato promesso come totalmente libero, il secondo oramai degrada la comunità in mera connessione logistica e virtuale. Ma per il conservatore la comunità è qualcosa di diverso e superiore rispetto a tutto questo. È in comunità chi ha “qualcosa in comune”. La comunità non è soltanto un sentimento, un’intenzione, un’affinità, un desiderio, ma è un elemento oggettivo. Un territorio concreto, una vita quotidiana reale, legami che possono essere toccati con mano. Ma forse è ancora qualcosa di più: un elemento esterno rispetto agli individui in questione, un vincolo indipendente dai singoli che promana dalla storia e dalla tradizione. Anche sul piano etimologico, nella koinonia denotazione e connotazione convergono nel significare una unione (koinè), ove il singolo non ha un’esistenza indipendente dal tutto che la comunità rappresenta, il suo destino è definito all’interno dello spazio di possibilità perimetrato dalla comunità di appartenenza. In latino, la cum munus delinea la reciprocità dell’obbligo donativo; la relazione comunitaria, dunque, è un “dare-darsi”, come potevano essere dei soci d’affari o dei membri di una cooperativa. La comunità è, dunque, più vincolante di un contratto che si può rescindere con il semplice consenso delle parti: la concezione comunitaria è in perenne tensione con quella contrattualistica, propria del liberalismo classico. La comunione mette al centro, cioè in comune, un termine oggettivo e non manipolabile come fondamento dell’unità fra le persone. La libertà può trovarsi soltanto all’interno di questa unità profonda, essenziale, fondata su un legame inscindibile e, come nella descrizione iniziale di McCarthy, resistente al tempo, ai cambi di umore, ai desideri, ai peccati e anche alle virtù di chi è coinvolto nella sua realizzazione.

Il secondo elemento cruciale sul piano concettuale per il conservatore è quello di autorità, termine inviso ai progressisti poiché considerato all’estremo opposto di progresso, imparentato con disciplina e dispotismo, e sostanzialmente impronunciabile nell’era della tarda modernità poiché, nella vulgata dominante, avverso alla libertà. Per i conservatori invece l’autorità è il terzo lemma, insieme a libertà e comunità, a risultare imprescindibile per una buona vita individuale e sociale. Guardato dal resto dello spettro delle dottrine con sospetto, il concetto di autorità è oramai sovrapposto a quello di potere. Per il conservatore, invece, questa coincidenza non esiste. Nei primi anni Settanta fu il sociologo americano Robert Nisbet, un intellettuale conservatore, a tentar di rompere questo schema in un libro sul «crepuscolo dell’autorità». Nisbet prendeva atto dell’evidente declino delle istituzioni che gli uomini occidentali avevano adottato per secoli come fonti dell’ordine e della libertà: famiglia, comunità locali, corporazioni professionali, chiese, scuole e università. Il sociologo notava che, di fronte questa erosione dello spirito delle istituzioni, le persone tendevano a dividersi in due schieramenti: da una parte, chi accoglieva il declino delle autorità come il trionfo della libertà e la possibilità di rifondare infine una società davvero legittima; dall’altra, quelli che vedevano in questo indebolimento delle strutture tradizionalmente accettate «lo spettro dell’anarchia sociale e del caos morale». Con una certa amarezza Nisbet sottolineava «ciò che è inevitabile in circostanze come queste è la crescita del potere: potere che invade i vuoti lasciati dalle autorità sociali in ritirata»[8]. In altre parole, la ritirata delle autorità che regolano la società apre la strada a forme di potere, di stampo dispotico e omologante, per conquistare gli spazi lasciati sguarniti dalle vecchie forme di coesione sociale ormai vuote. Il punto dirimente del ragionamento è che autorità e potere sono due concetti ben distinti. Per Nisbet quando le autorità tradizionali si dissolvono è il potere – nel senso della nuda coercizione – ad avanzare. Scrive ancora il sociologo conservatore «l’autorità, contrariamente al potere, non è fondata soltanto sulla forza, che sia potenziale o in atto. È impressa nella stoffa stessa dell’associazione umana. La società civile è un tessuto dell’autorità». L’autorità «non ha realtà se non nella partecipazione e nella lealtà dei membri all’organizzazione, sia questa la famiglia, un’associazione politica, una chiesa o un’università»[9]. Ogni autorità specifica assolve una sua funzione, regolata da un patto con i suoi membri, ma se questo si logora la funzione viene trasferita ad altre entità oppure si disperde: l’autorità recede, il potere avanza. La conseguenza è conflitto e smarrimento, non sicurezza e liberazione. Egli conclude, polemizzando con i progressisti, che «in questo momento abbiamo bisogno soprattutto di un liberalismo che sia in grado di distinguere fra la legittima autorità – l’autorità che siede nell’università, nelle chiese, nelle comunità locali, nella famiglia, nel linguaggio e nella cultura – e il mero potere»[10]. Insomma, la vera libertà si realizza nel rapporto con l’autorità. Smontato quello, rimane soltanto il potere. Un potere coercitivo vasto, manovrato da piccoli gruppi politici organizzati, burocrazia, tecnocrazia, polizia. La libertà, per il conservatorismo, è dunque possibile soltanto all’interno della comunità e in presenza dell’autorità. Senza quest’ultime la libertà si trasforma in nichilismo e in puro potere che tende al dispotismo. Per questi motivi il pensiero conservatore si lega al realismo e all’elitismo: da un lato rifiuta che l’uomo, con le sue contraddizioni, la sua incompletezza gnoseologica e la sua irrazionalità, possa essere migliorato o perfezionato dalla politica; e al tempo stesso ritiene che non possa esistere una società democratica senza che alla sua guida vi siano delle élite, delle minoranza governanti, cioè che vi sia una innata gerarchia in qualunque associazione umana[11].

Sul piano puramente politico, il conservatorismo è un mosaico, le cui sfumature variano da Paese a Paese, pur avendo alla base delle fondamenta comuni. D’altronde, il conservatorismo è soprattutto “una costellazione di idee”, in cui non è né facile né produttivo ampliare le cesure tra conservatori reazionari, radicali, romantici, liberali. È uno stile di pensiero, non abbastanza organico per essere considerato una dottrina o una ideologia. Liberali, democratici, progressisti e socialisti sono tutti razionalisti, individualisti, universalisti e astrattisti, mentre lo stile di pensiero conservatore stempera la ragione nella storia e nella vita, non è individualista ma “organicista” e comunitarista, è un “pensiero radicato comunitariamente” e alla ragione statica dell’Illuminismo giusnaturalista contrappone un’idea dinamica di ragione, capace di controllare il mutamento[12]. Proprio per questo suo ancoraggio al “particolare”, in contrapposizione all’universale delle altre teorie politiche, il conservatorismo è difficile da assolutizzare come ideologia, da astrarre dalla dimensione concreta. Esso è semmai un “pensiero di confine”, il cui debole portato epistemologico rende le sue frontiere piuttosto porose rispetto al liberalismo e al nazionalismo. In conclusione, il conservatorismo appare come una dottrina impolitica, nel senso di Simone Weil: impolitico non è colui che rifiuta o si contrappone al politico, ma quello che colloca il politico in un orizzonte di trascendenza, in cui la sfera politica e la libertà sono ricondotti a una dimensione interna alla comunità, in cui l’autorità viene coltivata e preservata e in cui il mutamento politico e sociale è temperato da una condotta etica. La sfida che oggi il conservatorismo tende al mondo occidentale appare molto rilevante tanto a livello culturale quanto politico. Nella società del progresso strutturale, seppur ai limiti dell’utopia, il conservatorismo può essere un fattore di crisi della tarda modernità, ma anche una delle possibili soluzioni della stessa. Pensiero che costringe a frenare prima dello schianto, che conduce al radicamento nella realtà, che tutela i legami fondamentali per l’uomo e i fattori di stabilità per la società, che stempera le illusioni delle magnifiche e progressive sorti. In ogni caso, è una forma mentis con cui oggi è inevitabile il confronto e da cui anche i progressisti potranno, se lo vorranno, imparare qualcosa.


[1] M. Ferraresi, Solitudine. Il male oscuro della società occidentale, Einaudi, Torino 2020.

[2] E. Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano 2022; edizione originale Escape from freedom, Farrar & Rinehart, New York 1941.

[3] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006, p. 557.

[4] Come scrive James C. Scott, sociologo di tendenze anarchiche, ne Lo sguardo dello Stato, Eleuthera, Milano 2019, p. 23: «Ogni cittadino si trova in una relazione diretta con l’autorità sovrana del Paese, in contrasto con la società civile medioevale nella quale, di quella relazione, godono soltanto gli uomini importanti del regno».

[5] Su questi temi si rimanda a L. Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri, Macerata 2020.

[6] Un classico sul tema è C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano 1997.

[7] Come sottolinea lo storico Victor Davis Hanson c’è nel conservatore una certa nostalgia per l’imprenditore puro, il vecchio businessman capace di fondare e organizzare la produzione. Si veda V.D. Hanson, The Case for Trump, Basic Books, New York 2019.

[8] R. Nisbet, Twilight of Authority, Liberty Fund, Carmel 2000, p. 18.

[9] R. Nisbet, Ibidem, p. 21.

[10] R. Nisbet, ibidem, p. 27.

[11] Sull’ostilità al “perfettismo” dei progressisti e dei razionalisti si vedano A. Del Noce, Scritti politici 1930-1950, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; e M. Oakeshott, Razionalismo in politica e altri saggi, IBL Libri, Milano 2020. Sulla teoria delle élite e il conservatorismo J. Burnham, I difensori della libertà, Mondadori, Milano 1945; G. Sola, La teoria delle élites, il Mulino, Bologna 2000.

[12] Come nota M. Gervasoni, Pensare l’impolitico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022.

Scritto da
Lorenzo Castellani

Lecturer presso la Luiss School of Government e docente in Storia delle istituzioni politiche all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma. È stato postdoc researcher presso l’EIEF di Banca Italia e research associate presso il King’s College di Londra. È consigliere di amministrazione della casa editrice LiberiLibri. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere” (Liberilibri 2024), “Il minotauro. Governo e management nella storia del potere” (Luiss University Press 2023), “Sotto scacco” (Liberilibri 2022), “The History of the US Civil Service” (Routledge 2021), “L’ingranaggio del potere” (Liberilibri 2020), “L’incubo di Tocqueville. Storia della burocrazia federale degli Stati Uniti d’America” (Effigi Edizioni 2020) e “The Rise of Managerial Bureaucracy. Reforming the British Civil Service” (Palgrave Macmillan 2018).

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