Scritto da Gregorio Zanacchi Nuti
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«Ma perché continuo a ripetere le stesse cose da anni? Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente». La frase, estrapolata da una scena del recente Mia Madre, si presenta come una vera e propria dichiarazione di poetica. Quel senso di inadeguatezza che nelle prime pellicole del regista interessava il microcosmo personale (il famosissimo «Mi si nota più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? » da Ecce Bombo), si è espanso con Habemus Papam a vera e propria Weltanschauung, permeando la totalità della narazione. Se comprendere è il primo passo per rielaborare e trasmettere, la dichiarazione presente in Mia Madre sembra eliminare ogni possibilità di dialogo proficuo tra il cinema dell’autore e l’orizzonte politico. Chi non capisce fatica ad interpretare, e ogni possibilità di fornire un’immagine del presente è perduta: il faticoso tiro alla fune caratterizzato da «un continuo movimento di avvicinamento e allontanamento rispetto alla contemporaneità italiana»[1] sembra essere giunto al suo epilogo. Ad uno sguardo superficiale, tuttavia, il film parrebbe tradire questa lettura: al lungo commiato dalla madre si accompagna la lavorazione della pellicola girata da Margherita Buy, «un film sulle persone che perdono il lavoro». Ma lo scacco epistemologico c’è, ed emerge con prepotenza collocando l’opera all’interno della filmografia morettiana. Per illustrarlo, può essere utile cominciare con un confronto con Palombella Rossa, opera in cui «viene affrontato con acume il problema dell’impegno politico»[2].
Il film, uscito a quattro anni dal precedente La Messa è Finita, racconta la storia del solito Michele Apicella, questa volta dirgente del PCI reduce da un’amnesia. Ai tentativi di recuperare la memoria si accompagna un’interminabile partita di pallanuoto che, sotto lo sguardo dell’allenatore interpretato da Silvio Orlando, si prolunga fino a notte fonda. All’interno della diegesi sono attivi due piani della narrazione: quello sportivo della partita, composto dai tuffi, i falli e le palombelle, e quello politico del bordo piscina, con Michele assediato da ciellini, giornalisti invadenti e rivoluzionari confusi. Le due storie, pur appartenendo a matrici differenti, finiscono per sfociare armonicamente una nell’altra, donando coesione alla narrazione. Il match senza fine diventa strumento di anamnesi per Apicella e metafora del Partito in un momento di estrema difficoltà, con il congresso della Bolognina all’orizzonte e il lutto di Berlinguer che getta ombra dal recente passato. La struttura di Mia Madre, divisa tra film e lutto, appare simile ma conduce a conclusioni diverse. Anche qui abbiamo due assi del racconto, ma, dove in Palombella Rossa esisteva un sostegno reciproco, in Mia Madre prevale il netto distacco. Il film diretto da Margherita non ha alcun legame con le vicende della sua vita privata, si presenta come elemento esterno, spurio, del tutto alieno al travaglio interiore della protagonista. In un cinema come quello morettiano, in cui il privato si tinge spesso dei colori del pubblico, la presentazione di un problema attuale come del tutto estraneo alla vita della protagonista si presenta come una consapevole scelta tematica.
Se il cinema di Moretti non è nuovo all’espediente del “film nel film”, è interessante tuttavia notare come tutti i progetti di cinema politico all’interno delle varie pellicole finiscano sempre per terminare con un fallimento. Abbiamo un primo esempio in Aprile, con il tentativo di documentare le elezioni del 1996 per mostrare al mondo la travagliata situazione politica italiana. Il regista è però svogliato, distratto dalla nascita del figlio e dalla tentazione di un musical su un pasticciere trozkista, e il progetto si limiterà a poche sequenze di comizi e trasmissioni televisive. La vena prosegue all’interno de Il Caimano, in cui il film su Berlusconi proposto a Silvio Orlando da Jasmine Trinca non riuscirà mai a vedere la luce, funestato da problemi di budget e attori. Dove il metafilm di Mia Madre sembra rompere la catena di fallimenti, è sufficente uno sguardo attento per convincersi del contrario. Le riprese proseguono tra un intoppo e l’altro, attore e regista litigano e si riappacificano, ma è la materia prima del racconto ad essere mistificata. Il velo cade in una scena in cui Margherita, dopo aver visionato un certo numero di comparse, si lamenta con l’addetta al casting per il loro aspetto. Uomini con sopracciglia depilate e donne con variopinte unghie posticce appaiono del tutto estranei al milieu del film, costituendo però un campione esemplificativo attuale popolazione italiana. Se sono queste le persone che abitano la quotidianità, i costumi degli attori della pellicola si tingono da subito di un velo di anacronismo: lontani dalle “persone che ci sono fuori”, si pongono piuttosto come una ricostruzione approssimativa e stereotipata, come i baffi e il completo di Turturro che rimandano all’iconografia della classe dirigente anni ’70. Il film è un film politico, ma di una politica svuotata, resa sterile dal suo essere ridotta a mera apparenza.
La sola collocazione di un problema d’attualità all’interno del “film nel film” dovrebbe far riflettere. Ad eccezione dei due casi citati qui sopra, lo spazio metacinematografico è sempre stato per Moretti un terreno onirico, popolato da storie dalla spiccata vena surreale quando non parodistica. In Sogni d’Oro, il film diretto da Michele è La Mamma di Freud, in cui un Freud innamorato di una studentessa tenta, con piglio da imbonitore, di vendere le sue opere ad una fiera di paese; ancora all’interno de Il Caimano compaiono sequenze dei film prodotti da Bruno Bonomo, pellicole di serie B come Cataratte e Mocassini Assassini. La politica, quando inserita questa dimensione allucinata, è spesso collegata con i balli e le canzonette del musical: basti pensare alle scene di Aprile con Silvio Orlando nei panni del già citato pasticcere trozkista o il musical sul’68 girato dall’avversario di Apicella in Sogni d’Oro. Il film presente all’interno di Mia Madre sconta così una trasversale parentela con queste pellicole colorate, fantasiose e un po’ sciocche: unico metafilm sull’attualità italiana formalmente riuscito, sembra consegnarci la lotta operaia mutata in favola, in una rappresentazione fuori dal tempo.
A partire dalle argomentazioni sopra riportate (il corto circuito tra piani del racconto altrove sincronici, la distanza dell’iconografia dell’opera dal presente e il suo condividere lo stesso terreno semantico di Maciste Contro Freud e Stivaloni Porcelloni), possiamo affermare che in Mia Madre si compie l’ultimo atto della crisi di coscienza apertasi con Palombella Rossa. L’amnesia nei confronti del passato, del Partito e dell’appartenenza si è via via aggravata davanti ad una classe dirigente da cui il regista ha teso sempre più a distaccarsi, forse disorientato da un presente in cui un certo tipo di colori e partecipazione hano finito per eclissarsi, sostituiti da un più canonico grigio su grigio. Alla presenza sul palco del comizio finale del Partito Democratico nel 2013 fanno da amaro contrappunto Habemus Papam e Mia Madre, opere in cui la sinistra non ha più spazio e può fare capolino soltanto attraverso una rappresentazione sbiadita e anacronistica della lotta operaia. La bocca dell’ «egocentrica Cassandra della sinistra»[3] (definizione quantomai calzante, per un autore che nel 1998 parlava di comunisti che al posto di fare scuola di partito guardavano Fonzie) sembra per ora intenzionata a rimanere turata.
[1] F. Marineo in (a cura di) Vito Zagarrio 2012, p. 223.
[2] J. A. Gili 2001, p. 25.
[3] G. Bonsaver 2001-02, pp. 158-183.
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