La lunga marcia verso la procura europea
- 06 Aprile 2016

La lunga marcia verso la procura europea

Scritto da Nicolò Carboni, Alessandra Moser

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Forse sarebbe stato meglio non aspettare le fucilate di Parigi, le bombe di Bruxelles e i proclami di Daesh ma, come spesso accade, l’Unione Europea riesce a uscire dal torpore solo quando una minaccia, interna o esterna, ne mette a rischio la sopravvivenza. Accadde con la governance economica, con la supervisione delle banche sistemiche e accade ora, con il terrorismo globale. L’idea di una procura europea sembra solo ora guadagnare concretezza.

Le istituzioni europee, come riporta il Financial Times, per decenni hanno goduto di un’immotivata ingenuità: fino a pochi mesi fa era possibile accedere agli edifici centrali dell’amministrazione comunitaria con controlli inferiori all’ultimo aeroporto di provincia, mentre in termini legislativi Commissione e Parlamento europeo non hanno mai sfidato gli Stati Membri su temi come gli affari interni e la gestione dei servizi segreti. Durante la scorsa legislatura (2009 – 2014) fu approvato un contestatissimo rapporto sulla cooperazione giudiziaria che, almeno negli intenti del Parlamento, avrebbe dovuto tracciare alcune basi minime di cooperazione fra Stati ma, come prevedibile, buona parte del testo è rimasta lettera morta, soprattutto a causa della durissima opposizione dei paesi a common law, Regno Unito in testa.

I fatti di Bruxelles cambieranno l’approccio della Commissione Europea. Il Presidente Juncker ha già annunciato la volontà di presentare una proposta per la procura europea il prima possibile, mentre il Consiglio giustizia e affari interni (CGAI) ha già approvato una prima posizione comune dei 28 ministri competenti. Si tratta di notizie significative, ma la strada rimane strettissima, soprattutto conoscendo l’esito degli esperimenti precedenti.

Se da un lato la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere all’interno dell’UE ha considerevolmente agevolato la libera circolazione dei cittadini europei, dall’altro ha anche reso più facile la realizzazione di attività criminose su scala transnazionale.

Al fine di garantire un livello elevato di sicurezza dei cittadini i Trattati dell’ Unione Europea, a partire da quello di Maastricht, hanno progressivamente definito la materia della cooperazione giudiziaria in materia penale come questione di interesse comune degli Stati membri. Le basi di questa cooperazione giudiziaria sono oggi definite dal Trattato di Lisbona e dal programma di Stoccolma, in cui vengono enucleate una serie di priorità politiche per consentire alle istituzioni e agli Stati membri di conseguire l’ obiettivo di creare uno spazio di libertà sicurezza e giustizia. In particolare le linee fondamentali nella cooperazione in materia penale sono costituite dalla lotta alla criminalità, organizzata o di altro tipo, e dalla creazione di uno spazio comune di giustizia mediante il progressivo mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie e della loro esecuzione, e dal riavvicinamento, ove necessario, delle normative degli Stati membri in materia penale.

Essa implica altresì una maggiore collaborazione tra le autorità nazionali, che possono ora agire con maggiore efficacia nel quadro delle squadre investigative comuni e beneficiare della messa in rete dei casellari giudiziari nazionali e di strumenti unici a livello dell’Unione come il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nazionali e il mandato di arresto europeo, garantendo così la coerenza e l’efficacia della cooperazione.

I fatti degli ultimi mesi hanno chiaramente dimostrato l’insufficienza di queste politiche e la necessità di intervento più incisivo in particolare per quanto riguarda l’ attuazione di questi obiettivi.

Volendo semplificare al massimo, oggi l’Unione Europea è dotata di sei agenzie con poteri di polizia, indagine e intelligence: Europol, il centro europeo per l’intelligence (EU INTCEN), il servizio europeo di intelligence militare (EUMS) il centro europeo di antiterrorismo (ECTC), Eurojust e l’ufficio europeo antifrode (OLAF). Europol e OLAF sono i due istituti più antichi, fondati nel 1999. Il primo avrebbe dovuto caratterizzarsi come primo embrione di una sorta di FBI europeo, mentre il secondo indaga sulle frodi ai danni del bilancio UE, quali truffe sui fondi strutturali e malversazioni. L’INTCEN, dal 2012 alle dipendenze del Servizio Europeo di Azione Esterna e dunque di Federica Mogherini serve come centro di analisi e raccolta dati. Peccato però che, pur essendo guidato dall’ex capo dei servizi segreti tedeschi, abbia subito più d’una critica per la scarsa qualità dei suoi report, in aggiunta alla totale mancanza di operativi che non siano già alle dipendenze dei vari servizi nazionali. Le stesse debolezze si riscontrano in EUMS nonostante, dal 2007, i due direttorati siano stati unificati in un singolo ufficio per l’analisi d’intelligence a livello europeo. Eurojust avrebbe potuto essere la base per una potenziale procura europea ma le solite logiche spartitorie (il collegio direttivo è composto da un magistrato per ogni stato membro) l’hanno trasformata in una sorta di think thank giudiziario molto poco incisivo. L’ultimo arrivato in questo ginepraio di sigle, agenzie e uffici è l’ECTC, fondato in fretta e furia dopo gli attentati di Parigi e ancora avvolto nelle nebbie più fitte.

Va fatto notare che dei sei enti qui menzionati solo uno, l’OLAF, ha il potere di iniziare delle indagini in maniera autonoma. Si evince in maniera piuttosto evidente che le prossime iniziative della leadership europea dovranno basarsi in primis su un’ampia razionalizzazione dell’attuale struttura, rendendola più simile alle corrispondenti autorità nazionali, magari basandosi sulle esperienze dei Paesi Membri che, per motivi storici e geopolitici, hanno dedicato più risorse e personale alla lotta contro criminalità organizzata e terrorismo. In questo senso l’esperienza della nostra Procura Nazionale Antimafia e della DIA possono essere ottimi esempi, ma pure il lavoro dell’MI5 britannico. Anche sul fronte legislativo sono necessari passi avanti non indifferenti, molti Stati Membri (a partire dal Belgio, dove le intercettazioni ambientali sono ancora un reato penale) hanno codici penali simili a quello italiano pre 41bis, con regimi di carcerazione preventiva quasi inapplicabili e limiti di varia natura alle perquisizioni (per rimanere sul solito Belgio, non è possibile effettuarne fra le 22 e le cinque del mattino).

Il rafforzamento degli strumenti comuni già esistenti come Europol, la creazione di nuovi come una Procura europea e la progressiva armonizzazione delle legislazioni nazionali non saranno tuttavia sufficienti senza un progressivo riavvicinamento di queste idee nelle teste dei magistrati degli Stati membri. La cooperazione giudiziaria non si costruisce dall’oggi al domani e, accanto ad iniziative di stampo puramente tecnico/legislativo appare sempre più evidente la necessità di sviluppare programmi di incontro e scambio tra magistrati operanti nei diversi paesi dell’ unione europea, poiché solo attraverso una conoscenza personale si potrà aumentare la fiducia reciproca e sviluppare iniziative comuni ed efficaci.

I professionisti del diritto devono avere fiducia nelle reciproche istituzioni giuridiche e ciò può avvenire solo attraverso il rafforzamento di una cultura giuridica realmente europea pienamente rispettosa dei diritti fondamentali e dei principi di sussidiarietà e di indipendenza della magistratura, attraverso l’istituzione di norme comuni e la comprensione di altri sistemi giuridici ed in particolare mediante la formazione, il cosiddetto “judicial training”, che svolge un ruolo fondamentale nel sostenere il riconoscimento e la fiducia reciproci tra gli operatori del diritto. Sul fronte dello scambio d’informazioni le cose non vanno molto meglio: i servizi nazionali sono gelosissimi dei loro database e cooperano solo seguendo l’antico mantra del do ut des, sopratutto dopo che Snowden ha eliminato pure l’ultima patina di ipocrisia dietro cui si nascondeva il doppio gioco di buona parte delle agenzie d’intelligence mondiali. Alcuni player europei, inoltre, fanno già parte di network internazionali come i Five Eyes anglosassoni e non è mai stata organizzata alcuna connessione fra il sistema di informazione Schengen (SIS) e i database di impronte digitali in possesso di Europol.

Spostandoci su un piano meno tecnico è chiaro che una super procura europea, con ampi poteri d’indagine e con a disposizione strumenti d’intelligence adeguati, richiede un investimento di capitale politico difficile da quantificare. Il collegio presieduto da Jean Claude Juncker ne ha già speso molto nei negoziati con la Grecia e nell’accordo con la Turchia; è assai improbabile che alcuni Stati Membri, a partire dal solito Regno Unito, concederanno mai un accesso integrale ai loro sistemi di intelligence mentre altri la butteranno sulla difesa di ormai sempre più consunte sovranità nazionali.

I margini giuridici, inoltre, sono abbastanza stretti, per non dire risicati: ai sensi del Trattato di Lisbona la “ procura europea” dovrebbe nascere per combattere le frodi finanziarie, senza cenni a reati di altro tipo. La possibilità di estendere la competenza di tale procura anche al crimine organizzato e al terrorismo risiede nel raggiungimento di un – per ora improbabile – accordo politico unanime in sede di Consiglio Europeo. Al netto dei fatti di cronaca, le divergenze rimangono molto profonde: l’Italia, che ha affrontato terrorismo e mafie, dispone di istituti come il 41bis, il reato di associazione mafiosa, il concorso esterno e la definizione di associazione a delinquere, strumenti fondamentali nella lotta al crimine organizzato ma pressoché sconosciuti (quando non guardati con sospetto) oltre le Alpi.

Se vi fosse una sintonia politica forte tra i diversi stati membri per l’obiettivo della costruzione della procura europea anche questo ostacolo sarebbe superabile stimolando il raggiungimento di un’intesa comune. Bisogna costruire una legislazione adeguata alle situazioni che la realtà di oggi ci impone di fronteggiare, non è possibile pensare di combattere il terrorismo se si resta ingabbiati da strumenti ormai antichi tenendo sempre presente che armonizzare non significa cedere sovranità bensì condividerla.

Quando Harry Truman decise che era giunto il momento per gli Stati Uniti di dotarsi di un servizio d’intelligence passò attraverso il braccio militare dell’amministrazione americana, reclutando nelle migliori università americane i primi agenti dell’OSS e, successivamente, incardinandoli in una nuova struttura civile: la CIA. In Europa non è possibile seguire lo stesso percorso ma, forse, ora come non mai ha senso procedere con chi ci sta, usando la cooperazione rafforzata per unire quei paesi (di certo buona parte dell’Europa Occidentale, isole britanniche escluse) disposti a rinunciare a una quota di potere in cambio di maggiore sicurezza per tutti. Tardare o, peggio ancora, non agire, ci porterebbe a una babele di norme nazionali sempre più restrittive (qualcuno vocifera di un Patriot Act Europeo) e violazioni della privacy. Se possiamo imparare qualcosa dai nostri cugini d’oltreoceano, impegnati nello scontro con il fondamentalismo da ormai 15 anni, è che la raccolta estensiva dei dati, la sorveglianza e il monitoraggio costante servono a molto poco senza la capacità di analizzare i dati ed estrarre le informazioni rilevanti, if you are looking for a needle in an haystack you don’t need more straw, se cerchi un ago in un pagliaio non hai bisogno di più paglia.

Oggi, come quattrocento anni fa vale sempre il detto di Benjamin Franklin: chi rinuncia alla libertà in nome della sicurezza non avrà ne una ne l’altra.

Scritto da
Nicolò Carboni

Ha lavorato al Parlamento europeo dal 2009 al 2019, occupandosi principalmente di bilancio e finanze pubbliche. Nel corso della legislatura 2009/2014 ha lavorato per l’ufficio di presidenza della delegazione del Partito democratico al Parlamento europeo seguendo il coordinamento dei lavori d’Aula e la comunicazione politica. Attualmente è caposegreteria del Ministro per il Sud e la Coesione territoriale. Gli articoli per Pandora Rivista sono scritti a titolo personale e non impegnano l’istituzione di appartenenza.

Scritto da
Alessandra Moser

Avvocato, dopo la laurea a Trento e un’esperienza alla Commissione europea ha lavorato per quattro anni nella Commissione per gli affari giuridici del Parlamento europeo.

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