La lunga strada delle proteste in Iran. Intervista a Paola Rivetti
- 13 Aprile 2023

La lunga strada delle proteste in Iran. Intervista a Paola Rivetti

Scritto da Carlotta Mingardi

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Le proteste popolari in Iran, scaturite in seguito alla barbara uccisione di Mahsa Amini nel settembre 2022 da parte delle forze di polizia iraniane, attraversano un momento di remissione. Tuttavia, la portata anti-patriarcale e intersezionale del movimento rappresenta un elemento di significativa novità che ha portato all’emergere di voci e nuove proposte politiche in decisa rottura con l’assetto esistente. In questa intervista Paola Rivetti, Professoressa associata di relazioni internazionali presso la Dublin City University ripercorre la nascita, i punti di forza e di debolezza, gli elementi distintivi e le voci protagoniste del movimento di protesta; allargando lo sguardo anche su come gli sviluppi interni al Paese si ripercuotano a livello regionale sull’equilibrio di sicurezza del Medio Oriente alla luce del protrarsi della guerra in Ucraina.


Le proteste in corso in Iran hanno raggiunto velocemente diverse parti di globo. Tuttavia, l’Iran non è un Paese estraneo ai grandi movimenti, per quanto non sempre e non tutti hanno goduto di una tale copertura mediatica. Qual è o quali sono le principali differenze fra le proteste che si susseguono ormai da mesi nel Paese e le ondate di proteste precedenti? In che modo invece sono simili? 

Paola Rivetti: Innanzitutto, è opportuno dire che in questo momento stiamo assistendo ad una fase di remissione del movimento di protesta: vediamo infatti che le proteste non sono più presenti in maniera continuativa, né risultano più geograficamente diffuse come in precedenza. Questo momento di de-mobilitazione è fisiologico e non indica la fine del conflitto, ma solo una pausa. Le proteste si inseriscono, infatti, all’interno di una traiettoria e di un processo molto lungo di conflitto sociale e politico, che è possibile far risalire alla rivoluzione del 1979 e che ha visto la popolazione sovente mobilitarsi contro lo Stato, chiedendo più giustizia sociale e politica, spesso accusandolo di aver tradito la rivoluzione del 1979. Il primo invito è, quindi, a mettere a fuoco questi eventi in una prospettiva storica molto ampia. In questo contesto, e nonostante la tradizionale amnistia in concomitanza all’anniversario della rivoluzione in febbraio, la repressione e la brutalità dello Stato hanno sicuramente giocato un ruolo molto importante nel determinare la de-mobilitazione a cui assistiamo. Bisogna tenere presente che, secondo alcune cifre, nell’arco di questi mesi sono state arrestate circa 30.000 persone. Ci sono state poi, come sappiamo, le condanne a morte: alcune portate a compimento, altre non ancora eseguite, ma pendenti. Sappiamo inoltre che ci sono stati circa cinquecento morti, di cui cinquanta minori: bambini, anche di otto-nove anni di età. Tuttavia, oltre alla violenza statale, hanno giocato un ruolo anche altri aspetti che danno a queste proteste elementi di somiglianza rispetto al passato, come anche di forte differenza. Partendo dalle differenze, a mio avviso, quella fondamentale risiede nel fatto che le proteste sono state ispirate dal tema dell’autonomia del corpo, e del controllo sul corpo delle donne. Direi, propriamente, dalla questione anti-patriarcale. Se pensiamo a come nacquero le rivolte in Tunisia più di dieci anni fa, con l’arresto e poi con il suicidio di Bouazizi, o ad altre campagne come “Siamo tutti Khaled Said”, che fu precorritrice della rivoluzione egiziana del 2011, ritengo molto significativo che in Iran ci si trovi invece di fronte, nel medesimo quadro di violenza dello Stato, alla morte di una giovane donna razzializzata come punto di non ritorno e origine delle proteste. La questione patriarcale, dunque, costituisce un elemento centrale ed è stata continuamente messa al centro dalle proteste in questi quattro-cinque mesi. Lo hanno fatto le organizzazioni che sono state fin dall’inizio capisaldi e punti di riferimento di questo movimento, come le associazioni studentesche, ma lo hanno fatto anche i gruppi che si sono uniti alle proteste nel corso dei mesi. Pensiamo, in particolar modo, agli scioperi dei lavoratori precari del settore petrolifero, avvenuti nel Sud del Paese, che hanno portato avanti nelle loro rivendicazioni, come riscontrabile dai loro manifesti, il tema del rispetto dei diritti delle donne e dell’autodeterminazione. Questo primo aspetto è quindi un punto fondamentale, che distingue quanto accaduto nel 2022-2023 dalle proteste avvenute in anni precedenti. Una seconda differenza è stata la diffusione geografica: il ruolo delle regioni curde è stato molto importante nel dare origine alle rivolte. Questo ci dice e ha continuato a dirci nel corso dei mesi trascorsi, che siamo di fronte a proteste molto diverse da quelle del passato: proprio perché hanno raggiunto anche le zone periferiche, abitate dalle minoranze etniche e linguistiche. Sappiamo inoltre che, nel corso dei mesi, queste zone periferiche hanno assunto un ruolo sempre più importante rispetto ad altre, dove invece le proteste già nel terzo e quarto mese avevano perso intensità. La terza differenza sta nel fatto che questa parte di processo rivoluzionario ha mobilitato una popolazione molto più trasversale in termini di classe sociale. Questo è avvenuto nonostante non si assista, ancora, a quel momento di compiutezza nel quale un movimento riesce a essere rivoluzionario non solo nelle aspirazioni, ma anche per potenza e composizione. Nell’arco di questi mesi, la totale trasversalità di partecipazione rispetto alle classi sociali non è stata raggiunta: sappiamo, per esempio, che nonostante ci siano stati diversi inviti da parte dei manifestanti ai lavoratori perché questi organizzassero uno sciopero generale, questo non c’è stato. La ragione sta nella mancata costruzione in passato di ponti e alleanze tra diversi settori della classe lavoratrice, cosa che rende difficile l’eruzione di una solidarietà trasversale – tra mercanti, insegnanti, impiegati pubblici e del settore privato (i “colletti bianchi”), operai, per intenderci. Siamo in Iran e il settore petrolifero gioca un ruolo centrale: l’abbiamo visto quarantaquattro anni fa, quando di fatto la rivoluzione iniziò con il primo sciopero generale dei lavoratori del settore che bloccò l’intero apparato produttivo del Paese. Ecco, in questi mesi, questa condizione non si è verificata. Ci sono stati scioperi che hanno visto coinvolti segmenti specifici della classe lavoratrice, tra i quali troviamo anche quelli più subalterni tra l’altro, come sottolineavo prima circa la parte precarizzata dei lavoratori del settore petrolifero. Tuttavia, non si è riusciti a coinvolgere il resto dei lavoratori impiegati nel medesimo settore ma non precariamente. Questo per dire che sì, siamo di fronte al movimento più trasversale che abbiamo avuto negli ultimi quarantaquattro anni, ma c’è ancora del lavoro da fare in materia di coinvolgimento delle classi sociali. Queste appena tracciate sono le fondamentali differenze: ci sono però anche delle continuità. Come si diceva in precedenza, è importante ricordare che questo periodo si inserisce all’interno di una traiettoria di scontro, di conflitto sociale e politico, molto più ampia. Nel corso degli ultimi dieci, quindici anni, abbiamo visto moltissimi momenti di mobilitazione, anche importanti, che sono andati rafforzandosi e allargandosi: il movimento verde del 2009-2010, poi quello del 2017-2018, fino al 2019. Questi cicli condividono alcune debolezze, come la difficoltà di esprimere una leadership politica e un progetto politico per il futuro. Tuttavia, oggi vediamo l’emergere di una coalizione interna al Paese che esprime un programma politico per la trasformazione dello Stato, raggruppando organizzazioni sindacali, femministe e del terzo settore e proponendo un progetto politico progressista che interseca domande di giustizia sociale, economica e politica. Recentemente, anche un gruppo di accademici e intellettuali curdi si è espresso nello stesso senso, e il Documento delle libertà e dei diritti delle donne curde, pur redatto originariamente due decenni fa, ha cominciato a circolare di nuovo in una versione aggiornata. Il dibattito interno su forme, tempi e obiettivi del cambiamento è vivace, in continua evoluzione e coinvolge movimenti di base e non. Sappiamo anche che Mohammad Khatami, ex-presidente riformista, e Mir Hossein Moussavi, leader politico riformista agli arresti domiciliari, hanno stilato un programma per la transizione politica. Per quanto importanti siano questi processi di leadership-building, la loro evoluzione resta dipendente da una miriade di fattori, non ultime l’azione repressiva dello Stato e la possibilità che la rivoluzione venga strumentalizzata e cooptata da forze esterne, con l’appoggio di stati stranieri interessati alla stabilizzazione dell’Iran a qualsiasi costo, anche umano.

 

Ha parlato dell’importanza della figura di Mahsa Jîna Amini, una giovane donna razzializzata, nel caso specifico di origine curda, nel determinare lo scoppio delle proteste. Ha anche rimarcato il ruolo significativo delle regioni curde non solo nel generare, ma anche nel sostenere in potenza le rivolte degli ultimi mesi. Quanto di questo si inserisce all’interno di un percorso e di trascorsi particolari dei cittadini curdi iraniani? Vi è stata, in qualche modo, una convergenza tra questi trascorsi e la deflagrazione delle proteste?

Paola Rivetti: La regione curda ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale. Da una parte, perché Mahsa Jîna Amini era curda: è stato proprio al suo funerale che abbiamo visto per la prima volta le donne togliersi il velo e intonare lo slogan “Jîn, Jihan, Azadì”, “donna, vita, libertà” in curdo. Slogan che, come sappiamo, è stato poi ripreso in persiano, in inglese e altre lingue. In questo senso è importante sottolineare quanto sia stato fondamentale anche il ruolo della famiglia Amini, che ha deciso di non rimanere in silenzio. La famiglia di Mahsa Amini non ha ceduto alle pressioni dello Stato affinché non denunciasse pubblicamente quanto accaduto alla figlia: se l’avesse fatto, chissà come sarebbero andate le cose. Quindi, intanto, vi è stato un ruolo fondamentale della famiglia, anche in un senso molto pratico. Occorre chiedersi come mai la famiglia di Mahsa Jîna Amini abbia resistito a queste fortissime pressioni. A questa domanda non possiamo rispondere se non guardiamo alla storia del Kurdistan, che è una regione ricchissima, dal punto di vista storico, di una tradizione di resistenza allo Stato centrale e alla Repubblica Islamica. Da qui arrivano le risorse ideali, ideologiche, di aspirazione, ma anche materiali per portare avanti una resistenza così coraggiosa. Generalmente, in Kurdistan troviamo un panorama politico abitato soprattutto da partiti e gruppi, anche dotati di componenti militari e/o attivi in prassi di lotta armata: nel caso specifico iraniano, troviamo principalmente partiti e gruppi non armati illegalizzati, clandestini di fatto, che però provengono da una storia di forte radicamento territoriale. Questo in parte spiega perché, in questi mesi, questa regione sia stata la più attiva nel portare avanti scioperi e manifestazioni, e di conseguenza spiega anche perché la violenza dello Stato si sia focalizzata, soprattutto da dicembre 2022 in poi, sul Kurdistan iraniano. Un discorso simile va fatto per il Sistan-Baluchistan, che ha infatti una storia di resistenza simile e ha subito una repressione altrettanto forte. Il termine “convergenza” ci permette invece di andare ad approfondire uno dei temi già sollevati: ovvero la difficoltà di trovare, almeno per il momento, un terreno comune su cui costruire un’agenda politica per il futuro e non soltanto una domanda comune, generale e generalizzata, di cambio strutturale. Il fatto che il movimento di protesta abbia perso intensità e che sia avvenuto uno spostamento dei centri del conflitto verso le zone periferiche del Paese, costituisce un ulteriore elemento di ostacolo alla “convergenza”, al trovare quindi un terreno di agibilità politica che possa essere un comune punto di partenza per tutte le diverse componenti del movimento. Credo anche che la composizione etnica di questo movimento e la sua politicizzazione, che di fatto è avvenuta a causa della discriminazione strutturale che le minoranze etniche vivono in Iran, sia visto e percepito dai rivoluzionari come uno degli ostacoli più forti. Inoltre, sempre seguendo questa linea, il fatto che non ci sia stato un reale impegno anche solo per ripensare, o capire se si volesse ripensare, la struttura dello Stato centrale, segna un chiaro punto di rottura all’interno della compattezza del movimento: vi sono delle grosse contraddizioni su questo punto. In questo senso, il raggiungimento di una convergenza di obiettivi è ancora più complesso.

 

Questo si riflette anche sul tentativo di trovare una leadership definita per il movimento all’interno del Paese? 

Paola Rivetti: Sì. Ovviamente ci sono alcune voci più importanti di altre. Alcune di queste voci sono in Iran, altre appartengono alla diaspora. Il ruolo della diaspora nel diffondere notizie, analisi e informazioni su quanto avviene in Iran è centrale, anche se non è ancora chiaro con quali implicazioni. Tale importanza è dovuta principalmente alla restrizione, dentro l’Iran, degli spazi di dissenso e di partecipazione politica. Per questo motivo si guarda molto alla diaspora, seppure con delle problematicità. Su alcuni leader, ad esempio, in molti esprimono dubbi. Il figlio dell’ultimo shah Reza Pahlavi, da molti considerato uno dei leader di questo movimento, espressosi anche in contesti pubblici in quanto tale (come nel caso della famosa conferenza stampa presso l’Università Georgetown di Washington tenutasi in febbraio, insieme ad altri personaggi pubblici come Masih Alinejad, Hamed Esmalioun, Nazanin Boniadi, Shirin Ebadi, Golshifte Farahani, Abdullah Mohtadi, e Ali Karimi), non ha mai vissuto in Iran e non è chiaro se e quanto seguito abbia dentro il Paese. Anche altre personalità del medesimo gruppo sono viste come problematiche per la loro vicinanza a settori islamofobi, antifemministi e guerrafondai dell’élite politica statunitense, come la nota attivista Masih Alinejad, non a caso spesso indicata come un esempio di femminismo non intersezionale e piegato a logiche imperialiste. Altre critiche rivolte a queste personalità della diaspora riguardano il tipo di campagne da loro caldeggiate, come per esempio quella di inserire i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche. In questo senso, alcuni si sono chiesti se questa battaglia fosse davvero una priorità per chi è in Iran, contando che nemmeno decenni di sanzioni (alcune, tra l’altro, già dirette esplicitamente contro i pasdaran) sono riusciti a indebolire il regime, avanzando l’ipotesi che, forse, l’apertura dei confini e la semplificazione delle procedure di richiesta del visto e di documenti per lasciare il Paese avrebbero potuto essere battaglie più utili a chi ha necessità di protezione internazionale. Sempre parlando della diaspora e dei suoi diversi volti, vorrei anche ricordare che esiste il gruppo dei Mujaheddin del Popolo. Questo gruppo, che non gode di alcuna legittimità interna al Paese, è purtroppo ascoltato all’estero. Esso spesso si presenta con nomi diversi. In Italia, per esempio, l’Associazione dei rifugiati politici iraniani e degli studenti iraniani sono riconducibili a questa organizzazione, che esprime anche il Consiglio della resistenza all’estero. La leader suprema del gruppo è Maryam Rajavi, che lo guida con metodi autoritari e repressivi al punto che è spesso paragonato a una vera e propria setta. Esistono, inoltre, parecchie testimonianze di ex-membri che parlano di torture e sevizie. Per tutti questi motivi, in tanti guardano con molta speranza alle coalizioni emergenti nel Paese, a cui accennavo prima, e in particolare alla coalizione di organizzazioni progressiste della società civile. Questa ha espresso una lista di domande minime per costruire la transizione politica, basata su svuotamento delle carceri, illimitata libertà di espressione, fine delle discriminazioni legate a identità di genere, di etnia e di religione, restituzione di beni comuni privatizzati (spiagge, foreste, terreni) alla collettività, garanzia dei diritti dei lavoratori, normalizzazione delle relazioni diplomatiche con tutti i Paesi del mondo, e bando dell’acquisizione di armi nucleari. Si tratta di posizioni progressiste, lontane da alcune espressioni anche guerrafondaie che troviamo nella diaspora, e che fanno esplicito riferimento ai diritti delle persone queer e alla giustizia economica. Resta da vedere quali ostacoli saranno posti di fronte al lavoro di questa coalizione, sia in termini di violenza dello Stato, sia in termini di mancato sostegno internazionale. Una rivoluzione intersezionale e femminista avrebbe infatti molti nemici.

 

A fronte di queste difficoltà e alla luce della feroce repressione messa in atto dalle autorità della Repubblica Islamica negli ultimi mesi, che ruolo vede, se lo vede, per la comunità internazionale? 

Paola Rivetti: Credo che negli ultimi anni la comunità internazionale non abbia giocato bene le proprie carte. Da quando gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, decisero di uscire unilateralmente dal Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA, il Piano congiunto di azione globale, noto anche come accordo sul nucleare iraniano, in Occidente è avvenuto uno spostamento su posizioni di chiusura verso l’Iran. L’Europa aveva negli ultimi venti-trent’anni mantenuto un atteggiamento di dialogo condizionato che aveva portato a risultati molto importanti, come lo stesso JCPOA. Il collasso dell’accordo ha determinato, di fatto, il fallimento del tentativo di costruire un’architettura di sicurezza per la regione che includesse la Repubblica Islamica, con la conseguenza di aver spinto l’Iran ancora di più tra le braccia della Russia. Ciò è evidente soprattutto nei teatri di guerra in Siria e Ucraina, dove gli apparati militari e industriali dei due Paesi sono profondamente intrecciati. Inoltre, questo cambio di atteggiamento non è andato a beneficio della popolazione iraniana (o siriana o ucraina): quella che di fatto è stata un’involuzione autoritaria dello Stato iraniano degli ultimi anni non è a mio parere slegata dall’allontanamento dell’Europa e della comunità internazionale da Teheran e dal parallelo avvicinamento di Mosca. Di conseguenza, penso che il ruolo che può giocare la comunità internazionale sia limitato: nel caso dell’Iran, più si isola il Paese, meno si hanno leve per esercitare pressioni su di esso. Ritengo, invece, che la società civile possa avere un ruolo abbastanza importante e di impatto, anche vista l’attenzione mediatica che ha saputo veicolare sull’Iran. Ci sono diversi fronti su cui la società civile europea può fare la differenza. Siamo infatti di fronte a una priorità estremamente pressante: ci saranno presto, anzi già ci sono, come abbiamo visto in Turchia e nei Balcani, alle porte d’Europa, tantissime iraniane e iraniani che scappano dal Paese in cerca di protezione e rifugio. Un’azione che chieda con forza l’apertura dei confini, usando questa situazione come grimaldello a favore anche di altre nazionalità, avrebbe un impatto notevole. Che si chieda quindi che si aprano più corridoi umanitari, che venga rivista la lista dei Paesi sicuri – tra i quali figurano l’Afghanistan e la Siria, incredibilmente –, che vengano istituite più borse di studio per studenti e studentesse, per colleghi e colleghe, a favore di chi si trova in Iran e deve andarsene, o di chi già vive all’estero ma in condizioni precarie; che si chieda di semplificare la burocrazia per la richiesta e il rinnovo del permesso di soggiorno nei Paesi europei. Questo avrebbe, a mio avviso, un impatto benefico e reale sulla vita di tante persone.

 

Che impatto ha la situazione interna al Paese sugli equilibri regionali, alla luce dei rapporti con la Russia nel conflitto siriano, ma anche con altri attori regionali come Israele e Arabia Saudita?

Paola Rivetti: Credo che questi siano stati mesi di grande paura per molti governi nella regione, anche quelli rivali all’Iran. Ad un certo punto, sembrava davvero che la sollevazione popolare potesse trasformarsi in una rivoluzione, portando con sé un elemento di elevatissima incertezza e precarietà. Inoltre, andando per ipotesi, essendo questo un movimento con forti espressioni anti-patriarcali e rivoluzionarie, non ci sarebbero stati governi lieti di avere in atto una rivoluzione femminista a qualche chilometro di distanza. Ciononostante, anche lasciando da parte le ipotesi, bisogna ricordare che l’Iran fa parte di un sistema di sicurezza che, di fatto, dopo lo scossone iniziato nel 2010-2011, si è stabilizzato, pur incancrenendosi su crisi e guerre, come per esempio quella siriana e yemenita. L’apparire di un elemento di potenziale destabilizzazione ha sicuramente causato paura. Per esempio, il successo del movimento iraniano nel raggiungere un cambiamento sistemico nel Paese avrebbe implicato, per i Paesi sostenuti dagli Stati Uniti e rivali dell’Iran, perdere la ragione per la quale gli Stati Uniti ricoprono ancora un ruolo di protezione verso di loro. Per questo ritengo che la prospettiva di un possibile cambio strutturale in Iran non fosse gradita a nessuno, soprattutto se frutto di un sollevamento popolare autonomo e femminista. Infine, siamo all’interno di un processo di rafforzamento dei rapporti tra Russia e Iran, anche a causa dell’aggravamento della crisi ucraina e della rivalità tra Russia, Europa e Stati Uniti. In questo senso, il Medio Oriente oggi, anche a causa di quello che è successo in Iran e di come ha ulteriormente polarizzato la comunità internazionale, almeno a parole, potrebbe diventare un ulteriore teatro di questa rivalità. In questo contesto, resta da vedere quali saranno le reazioni al recente accordo tra Iran e Arabia Saudita, promosso dalla Cina.

Scritto da
Carlotta Mingardi

Assegnista di ricerca all’Università di Siena. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna. In precedenza, è stata scholar presso The Europaeum, visiting fellow presso la Brussels School of International Studies-BSIS University of Kent e junior research fellow presso l’Istituto Europeo del Mediterraneo-IemED di Barcellona. Si occupa di politica estera dell’Unione Europa, con particolare attenzione alla regione dei Balcani e MENA.

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