“La maledizione dei giganti” di Tim Wu
- 15 Aprile 2022

“La maledizione dei giganti” di Tim Wu

Recensione a: Tim Wu, La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia, il Mulino, Bologna 2021, pp. 152, euro 14 (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Nel suo libro La maledizione dei giganti (il Mulino 2021), Tim Wu, studioso di diritto della concorrenza e delle tecnologie, lancia un sentito j’accuse contro la tendenza alla concentrazione tipica di quest’epoca. Dai giganti del digitale ai produttori di birra, passando per il settore dell’ottica, quello che emerge dal volume è un quadro economico ormai sempre più monopolistico od oligopolistico. Attraverso operazioni di fusione e acquisizione, il mercato si è ristretto a pochi operatori, privi di concorrenti e, in virtù del proprio potere, capaci di intrattenere relazioni privilegiate con i governi o di sfruttare a proprio piacimento i comportamenti dei consumatori. Tutto questo senza che la tradizione antitrust – radicata nella cultura statunitense, in primo luogo, ma anche in quella europea – riesca a riprendere vigore. Il monito dell’autore è quindi molto netto: la concentrazione di potere pubblico e privato è pericolosa per la democrazia, e non a caso negli anni Trenta il livello della stessa aveva raggiunto le massime vette; per evitare questo pericolo, dunque, sarà necessario ripescare dall’armamentario gli strumenti antitrust che in altre epoche storiche sono stati così efficacemente utilizzati.

Al netto di alcuni riferimenti al rapporto tra concentrazione economica ed emergere dei fascismi che, a parere di chi scrive, possono risultare per certi versi eccessivi, il volume offre sicuramente diversi spunti interessanti. In particolare, Tim Wu ricorda al lettore come vi siano state fasi in cui la cultura antimonopolistica ha prevalso, ad esempio alla fine del diciannovesimo secolo o nel secondo dopoguerra, e fasi in cui la bussola antitrust pare essersi smarrita, come negli anni Trenta del secolo scorso o in questo periodo storico.

L’autore rispolvera il pensiero di Louis Brandeis, giurista americano di fine Ottocento, che proprio in quegli anni si trovava di fronte l’impero ferroviario del finanziere John Pierpont Morgan, tra i cui obiettivi vi era quello di raggruppare l’intera infrastruttura dei trasporti ferroviari e marittimi del nord-est degli Stati Uniti – combinando circa 336 imprese – in un unico colosso monopolistico, la New Haven Railroad. Di fronte ad una concentrazione di tale spessore, così scriveva Brandeis: «Dopo l’esperienza degli ultimi vent’anni, siamo nella posizione di poter affermare due cose: in primo luogo, che una grande azienda può certamente essere troppo grande per poter costituire lo strumento più efficiente di produzione e distribuzione; e, in secondo luogo, che abbia o meno oltrepassato il punto di maggiore efficienza, essa può essere troppo grande per essere tollerata da persone che desiderino essere libere»[1].

Risulta chiaro, sottolinea Wu, come il pensiero brandeisiano connetta la struttura economica con le condizioni proprie della democrazia. In questo senso, vi è un’altra cultura antimonopolistica che l’autore richiama e che trova radici in Europa: l’ordoliberalismo tedesco della scuola di Friburgo di Franz Böhm e Walter Eucken. Questa scuola emerse negli anni Trenta con una dottrina che intendeva opporsi ad ogni forma di concentrazione di potere statale e privato, che fosse di matrice nazionalsocialista o comunista. L’obiettivo degli ordoliberali era tratteggiare un sistema ove una imponente cornice giuridica proteggesse la libertà da sé stessa – attraverso, dunque, una incisiva regolazione anticoncorrenziale. Questo al fine di difendersi dal pericolo maggiore dei monopoli, ben esplicato da Böhm nel 1947: «La concentrazione di potere entro il mercato privato creerà sempre il potenziale per la guerra. Non importa che il sistema di comando abbia carattere nazionalsocialista, socialista o comunista: a essere decisivo è il fatto che ogni sistema di comando possiede un apparato di potere straordinariamente esteso che può essere usato in maniera centralistica ed essere dominato da un numero molto ristretto di persone; e che le posizioni personali di potere sono necessariamente ripartite nel quadro di procedure monopolistiche che non possono essere monitorate né votate dai cittadini»[2].

La tradizione antimonopolistica statunitense-brandeisiana ha difeso l’economia americana dalle concentrazioni con vigore, a partire dallo Sherman Act del 1890, passando per lo smembramento della Standard Oil, fino all’Anti-Merger Act del 1960. È meritevole di attenzione, in particolare, l’azione antitrust che ha riguardato i colossi della tecnologia nel secondo dopoguerra. Innanzitutto, la causa intentata negli anni Settanta dal Dipartimento di Giustizia contro IBM, che se pure non arrivò mai ad una sanzione definitiva o scissione della stessa, mise una pressione alla società tale da condurla per forze di cose all’innovazione (invece che sopravvivere di rendita, con i suoi 7,2 miliardi di dollari di fatturato e la linea computer System/360 all’epoca leader del mercato): se negli anni Sessanta la pratica era quella di impacchettare i software insieme agli hardware, con i primi venduti come servizio legato ai secondi, «quando divenne evidente che il Dipartimento di giustizia stava preparando una causa antitrust, il team legale dell’IBM capì subito che, dal punto di vista giuridico, sarebbe stato complicato difendere il pacchetto software-hardware» (pp. 85-86). Così IBM decise di separare l’offerta dei software da quella dell’hardware, dando vita ad un mercato che oggi vale 1.600 miliardi di dollari negli USA.

Più eclatante è invece il caso della compagnia telefonica AT&T, l’azienda più grande al mondo nel 1974. Emblema del monopolio statalista, la compagnia controllava servizi telefonici locali, servizi a lunga distanza, telefoni fisici e tutti i relativi accessori, servizi telefonici per le imprese oltre a una serie di mercati emergenti, tra cui quello dei servizi online. Ogni potenziale concorrente, come la MCI, veniva eliminato. Questo fino a quando la Casa Bianca non annunciò che: «A meno che l’aspirante monopolista o l’ente pubblico non possano dimostrare particolari considerazioni politiche che giustifichino il monopolio, questo non dovrebbe essere consentito»[3]. Dopodiché, il Dipartimento di giustizia intentò la causa antitrust forse più lunga e complessa della storia, che si risolse in uno scorporamento di AT&T in 8 imprese più piccole. Se nel breve periodo, sottolinea Tim Wu, l’impatto di una tale decisione paralizzò il settore, più avanti si sarebbero visti gli effetti benefici: «dalle carcasse dell’AT&T sono infatti emerse industrie del tutto nuove, mai immaginate o addirittura inconcepibili durante il suo regno. Per fare un esempio, la nuova libertà diede origine non solo alle segreterie telefoniche ma anche al modem, che consentiva a un computer domestico di comunicare con una rete. Questo a sua volta rese possibile un mercato di fornitori di servizi online come AOL o CompuServe, che generarono i propri servizi di rete internet domestici, producendo così il successivo boom della Silicon Valley» (p. 92).

E ora, di fronte a Google, che, tra le altre, non ha esitato ad acquisire YouTube nel 2006 dopo avere appurato che il proprio servizio affine, Google Video, non stava ottenendo i risultati desiderati, o Facebook, che dinanzi all’emergere di potenziali concorrenti come Instagram o WhatsApp non ci ha pensato due volte prima di acquistarli, sottraendo al contempo il mercato ad altri social emulandone le innovazioni (si pensi alle “storie” di Snapchat, riprese poi da Instagram), come sta agendo il Dipartimento di giustizia USA? Di fronte a questo nuovo mercato digitale, la cultura antimonopolistica statunitense sembra essere impotente, ci dice l’autore.

Così come quella europea, che affonda le radici nella tradizione ordoliberale e che vanta una delle cornici giuridiche più raffinate e severe. L’Unione Europea è per definizione ordoliberale, verrebbe da aggiungere. Il suo impianto è finalizzato a garantire la concorrenza, con lo Stato (in questo caso, l’ibrido giuridico dell’UE) che funge da cornice giuridica volta ad eliminare le storture del mercato. La sua politica sulla concorrenza è molto severa, a volte anche miope a parere di chi scrive. Allora perché Tim Wu ritiene essersi indebolita al pari di quella statunitense? Gli esempi dell’autore sono, tra gli altri, quello di Luxottica, che acquistando nel 2017 il principale rivale Essilor ha dato vita ad un monopolio incontrastato, che le permette di tenere i prezzi alti, oltre che eradicare preventivamente la concorrenza: si pensi a Oakley, un’azienda concorrente che aveva provato ad abbassare i prezzi sui propri occhiali sportivi per rendersi competitiva; Luxottica ha reagito spingendo i propri negozi al dettaglio a distribuire meno pezzi della concorrente, indebolendola per poi acquistarla. Altro esempio è quello della birra, il cui mercato è diviso tra due grandi oligopolisti, Interbrew e Heineken.

Gli esempi sono suggestivi e sicuramente inducono a riflettere. Vi è però da sottolineare che, allo stesso tempo, la normativa antitrust comunitaria ha impedito diverse operazioni di rilievo, prime tra tutte Alstom-Siemens. Oppure, anche se in questo caso sono entrati in gioco gli interessi politici francesi, si pensi all’ostilità della Commissione verso l’acquisizione da parte di Fincantieri dei Chantiers de l’Atlantique. Queste operazioni rappresentano pericolose concentrazioni monopolistiche o strategiche economie di scala volte a competere sul mercato globale costituito dai giganti cinesi, americani, giapponesi o coreani? Quale è il confine tra politiche industriali strategiche e politiche anticoncorrenziali e, soprattutto, come si sposa questo ragionamento con la realtà dei colossi internazionali? Il rischio è quello di chiudersi nel rispetto ferreo di regole talvolta anacronistiche o vanificate dal fatto che il mondo sta andando in un’altra direzione. L’Unione Europea, a parere di chi scrive, non ha abbandonato la propria tradizione antimonopolistica, anzi: si trova nella gabbia di chi non sa bene cosa fare, se adeguarsi alla propria cornice giuridica o liberare la (per ora inesistente) “Wille zur Macht” politica per gareggiare nel sistema-mondo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, è sicuramente vero che di fronte ai giganti digitali la tradizione antitrust è andata ritirandosi. Perfino i cinesi sembrano al momento stare lottando di più contro i propri colossi tecnologici. Su questo, il dibattito è aperto.

Più in generale, gli spunti di Tim Wu non vanno presi alla leggera. A prescindere dalle criticità evidenziate qui sopra, resta la domanda: quanta concentrazione di potere può una democrazia acconsentire? Da questo interrogativo bisogna partire.


[1] Citazione riportata a pagina 61 del volume. Tratta da Control of Corporations, Persons, and Firms Engaged in Interstate Commerce: Hearings Pursuant to S. Res, 98, before the Committee on Interstate Commerce, 62d Congress 1174 (1912) (statement of Louis D. Brandeis, Esq., Attorney at Law, Boston, Mass).

[2] Citazione riportata a pagina 67 del volume. Tratta da F. Böhm, Kartellauflösung und Konzernentflechtung Spezialisten-aufgabe über Schicksalsfrage?, in «Süddeutsche Juristen-Zeitung», vol. 2, n. 9, 1947, pp. 495-506 (pp. 504-505).

[3] Citazione riportata a pagina 89.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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