La massoneria in Italia: dall’Unità alla nascita della Repubblica. Intervista a Fulvio Conti
- 26 Marzo 2021

La massoneria in Italia: dall’Unità alla nascita della Repubblica. Intervista a Fulvio Conti

Scritto da Giacomo Centanaro

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Fulvio Conti è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Firenze, dove presiede la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri”. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo (il Mulino, 2006), I fratelli e i profani. La massoneria nello spazio pubblico (Pacini Editore, 2020) e Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione (Carocci, 2021). Questa intervista a Fulvio Conti affronta, in una prospettiva storiografica, la questione del ruolo sociale e politico delle logge massoniche in Italia dall’Unità d’Italia alla nascita della Repubblica, affrontando al contempo alcuni dei problemi metodologici che si pongono di fronte allo storico che voglia ricostruire questi fenomeni.

Fulvio Conti

Il 17 marzo 1861 la penisola italiana era ancora lontana dall’essere unificata sotto un’unica bandiera, ma finalmente – con una legge – veniva sancita la nascita di un nuovo soggetto, pur fortemente condizionato dall’impronta che il suo principale promotore, il Regno di Sardegna, aveva impresso sull’opera di unificazione. Se l’Unità d’Italia è stata il risultato della tessitura di un complesso lavoro diplomatico – per quanto travagliato e frutto di visioni spesso diverse –, allo sforzo, anche intellettuale, del processo avevano partecipato diversi importanti membri di istituzioni massoniche. Spesso ci si riferisce alla massoneria come a un fenomeno monolitico, ma se la nazione italiana risultava ancora frammentata, lo stesso si può dire valesse anche per le associazioni liberomuratorie in Italia. Professore, come descriverebbe il fenomeno massonico al volgere della nascita del Regno d’Italia? Quali erano le principali divisioni culturali, ideologiche e geografiche lungo cui si articolava la massoneria italiana?

Fulvio Conti: La massoneria italiana rinacque, dopo il lungo periodo di eclissi del periodo risorgimentale, nell’autunno del 1859, dopo la conclusione della Seconda guerra d’indipendenza. Rinacque in più contesti italiani, ma il punto principale fu Torino, non a caso. È a Torino che si formò quello che all’inizio venne chiamato Grande Oriente Italiano che poi poco dopo prese il nome definitivo di Grande Oriente d’Italia. Il Grande Oriente d’Italia era stato costituito per la prima volta durante il periodo napoleonico, nel 1805, ma poi – proprio perché identificata con gli ideali napoleonici e prima ancora della Rivoluzione francese – la massoneria era stata messa al bando in tutti gli Stati preunitari dopo il Congresso di Vienna e soprattutto dopo i moti del 1820-21. Venne identificata come nemico assoluto perché teorizzatrice dei valori liberali, democratici, progressisti e soprattutto laici e quindi percepita dalla Chiesa cattolica come un insieme di protestantesimo, ebraismo e rivoluzione: il nemico assoluto da battere. Rinacque a Torino in ambienti legati a Cavour, che morì troppo presto nel giugno del 1861 e quindi non consentì ad alcuni dei suoi seguaci di arrivare a proporgli anche la carica di Gran Maestro: era questo che alcuni di loro avevano in mente. Ci sono voci su una presunta affiliazione di Cavour alla massoneria in logge svizzere ma non ha alcun riscontro e io la considero priva di fondamento. C’era, da parte delle classi dirigenti liberali del nuovo Regno d’Italia, la percezione di aver bisogno di una struttura organizzativa semi-pubblica che raccogliesse l’eredità di quella che era stata la società nazionale (Manin, Garibaldi, La Farina, etc.) che aveva dato un forte impulso al movimento patriottico negli anni Cinquanta del XIX secolo. Questa è la prima componente del Grande Oriente d’Italia, che però non è la sola obbedienza massonica che nasce o rinasce in quel periodo in Italia. L’altra più significativa nacque in Sicilia, a Palermo, con il nome di Supremo Consiglio del rito scozzese antico ed accettato. L’obbedienza di Torino adottava un rito massonico sul modello di quello francese con tre gradi (poi portati a sette): apprendista, compagno e maestro sono quelli fondamentali. L’obbedienza siciliana, invece, si richiamava al modello inglese a 33 gradi e quindi era molto più gerarchica, piramidale. Ma la differenza maggiore oltre a quella geografica era che a Palermo questa seconda obbedienza aveva una forte, spiccata identità democratica, lì convergevano soprattutto repubblicani, mazziniani e democratici dalle tinte più accese. Questa loggia avrebbe poi raccolto adesioni anche in altre parti d’Italia; c’erano altri nuclei (si veda a Napoli), ma i principali sono i centri di Torino e Palermo, anche per la loro componente ideologica, perché rappresentavano le due anime rifondatrici della massoneria italiana post-unitaria. Quella liberale di ambito cavouriano e quella democratico-radical-repubblicana, secondo il pensiero mazziniano e garibaldino, con la differenza che Garibaldi era già stato iniziato durante il suo periodo sudamericano nel 1844, mentre Mazzini non apparteneva alla massoneria: avrebbe cercato di utilizzarla per i suoi scopi, sarebbe stato anche vicino idealmente ma non ne avrebbe mai fatto parte. Nel giro di pochissimi anni la componente radicale e repubblicana prese il sopravvento e assunse la leadership del Grande Oriente d’Italia di Torino. Da quel momento in poi questa matrice democratica e progressista avrebbe caratterizzato tutta la storia successiva della massoneria almeno fino alla Prima guerra mondiale. Una specificazione: Mazzini non aderì alla massoneria perché – come disse in risposta a uno dei suoi seguaci che invece era stato iniziato – : «Io ho fatto un solo giuramento nella mia vita, è alla Repubblica e con quello voglio andare fino alla tomba». Non aderì perché era consapevole che la massoneria proprio per questa sua “membership” larga (ne facevano parte anche tanti monarchici convinti) avrebbe potuto annacquare la fede repubblicana dei suoi. Si mantenevano rapporti cordiali e non erano precluse collaborazioni ma il movimento avrebbe dovuto procedere autonomamente. La massoneria, poi, sviluppò un’autentica venerazione per Mazzini, tanto è vero che proprio per via del giorno della morte di Mazzini, 10 marzo 1872, il 10 marzo diventò il “memorial day” per la massoneria. Ancora oggi è il giorno in cui le obbedienze massoniche italiane piangono e ricordano i fratelli defunti nel corso dell’anno ed è il giorno che ricorda la morte di Mazzini.

 

Lo studio di un processo di State building implica necessariamente l’analisi della classe dirigente che ha animato e incarnato quelle dinamiche. I saloni, le scrivanie dei dicasteri ma soprattutto i seggi neo-unitari erano spesso popolati da una élite anticlericale, liberale, positivista; un’immagine in forte contrasto sia con le masse cattoliche e, in misura minore, con le frazioni politiche repubblicane e protosocialiste. Come era caratterizzato il rapporto tra le élite liberali del Regno e la massoneria?

Fulvio Conti: Come ho in parte anticipato nella risposta precedente, fin dai primi anni Sessanta (1863-1864), la componente liberal-moderata che aveva come riferimento Cavour che era stata la prima promotrice della rinascita della massoneria venne di fatto messa in minoranza dall’ala liberal-progressista e soprattutto dall’ala democratica, repubblicana e radicale. Momento emblematico che segna questo passaggio fu l’assemblea costituente del Grande Oriente d’Italia, che si tenne nel 1864 a Firenze e che elesse Giuseppe Garibaldi Gran Maestro. Mentre il primo che era stato eletto nel 1861 era Costantino Nigra, ambasciatore del Regno d’Italia a Parigi, stretto collaboratore di Cavour. In quegli anni una larghissima parte dei deputati della sinistra liberale presente a Torino era iscritta alla massoneria (Depretis, Crispi, Zanardelli, Nicotera solo per citarne alcuni), nel Grande Oriente, e progressivamente acquistarono la leadership assoluta all’interno dell’obbedienza, tanto è vero che nel 1872 riuscirono a ricomporre anche la frattura con il Supremo consiglio di Palermo e quindi a unire le due anime principali della massoneria italiana con una “fusione per incorporazione” da parte del Grande Oriente d’Italia nei confronti di quello di Palermo. La componente garibaldino-repubblicana che era egemone a Palermo però da quel momento in poi dettò la linea per il Grande Oriente d’Italia. Quale rapporto quindi con le élite liberali? La massoneria divenne il luogo di raccolta della classe dirigente liberale progressista dell’Italia unita, della sinistra costituzionale che faceva capo a Depretis e poi a Crispi, e della componente radicale (Agostino Bertani tra i tanti). Non troviamo, invece, gli ambienti liberali più conservatori, così come troviamo – dal punto di vista dell’estrazione sociale – pochissima aristocrazia che invece erano stati largamente presenti nella massoneria del Settecento, nella massoneria delle origini. Nella massoneria c’era allora “l’Italia nuova” della media borghesia, una media borghesia che poi divenne sempre più “piccola” con il procedere degli anni. Tra gli iscritti si contavano molti avvocati e medici, non solo i primari e i professori di università, ma anche semplici medici, con livelli di reddito non particolarmente elevati, spesso contraddistinti da una forte fede positivista nella scienza, nel progresso e nella modernità, a volte anche esasperata, cui si univano posizioni anticlericali. Vi si ritrovavano anche molti militari, in misura maggiore di quella che saremmo portati ad aspettarci, ma anche nell’analizzare questo punto è necessario uscire da logiche di mero carrierismo: era una professione itinerante che faceva sì che gli ufficiali dovessero spostarsi da una sede all’altra e la massoneria offriva nelle varie sedi una rete di contatti, relazioni e accreditamento. Il fatto che in Italia il numero di aristocratici affiliati alla massoneria fosse minore rispetto, per esempio, a quello in Gran Bretagna, è dovuto a un’estrazione sociale diversa di una percentuale consistente dei confratelli: mettendo insieme l’aspetto politico e ideologico, la prevalenza di esponenti democratici e poi anche socialisti e anarchici, faceva sì che la componente nobiliare fosse ridotta.

 

Il progetto di uno Stato italiano unitario trovò nella Gran Bretagna la “madrina” internazionale il cui peso era allora vitale affinché nel delicato equilibrio di potere continentale si potesse inserire un nuovo attore, soprattutto se con una dimensione geografica e un peso demografico di ragguardevoli dimensioni. La Gran Bretagna del tempo, oltre a dominare ancora incontrastata gli scacchieri strategici del globo, doveva alla sua storia – è a Londra, nel 1717, che si fa risalire la nascita della massoneria moderna – anche un ruolo di primo piano nella comunità massonica mondiale. Quanto l’interlocuzione con la Gran Bretagna fu facilitata dalla comune appartenenza liberale e massonica di diversi esponenti delle due classi dirigenti?

Fulvio Conti: La risposta in questo caso è molto netta ed è negativa. La massoneria inglese era cosa molto diversa in quel momento da ciò che era la massoneria italiana. La Gran Loggia unita di Inghilterra era la loggia madre a livello internazionale e aveva un forte potere di accreditamento e legittimazione per le nuove obbedienze massoniche che si costituivano mano a mano che gli Stati conquistavano la loro indipendenza. La massoneria inglese praticava, insieme a una rigidissima esclusione del sesso femminile dall’appartenenza, anche una netta separazione dell’identità massonica dalla militanza politica e religiosa. Quando il Grande Oriente d’Italia, dopo la costituzione, chiese alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra il riconoscimento sul piano internazionale, questo non arrivò, ma si limitò a un cordiale scambio di lettere. Per decenni a questo tentativo venne opposto un grande ostacolo: la massoneria italiana faceva politica e si occupa di questioni religiose, e questo non consentiva di ricevere il riconoscimento, in quanto una simile condotta era al di fuori della regolarità internazionale, stabilita dalle costituzioni di James Anderson del 1717, che sono ancora oggi la “Bibbia” dell’ordinamento massonico, dove viene stabilito che in massoneria non è consentito occuparsi di questioni politiche e religiose. Il rapporto della massoneria italiana era molto più stretto con il Grande Oriente di Francia, la massoneria belga, svizzera, spagnola, cioè le cosiddette massonerie latine, che si trovarono a vivere la stessa forte politicizzazione di quella italiana. Il caso della Terza Repubblica francese è emblematico di una quasi sovrapposizione tra la leadership e membership massonica e l’appartenenza al Parlamento e ai governi.

 

Nel marzo 1876 il governo Minghetti viene messo in minoranza in Parlamento sulla questione della nazionalizzazione della rete ferroviaria italiana, con la conseguente “rivoluzione parlamentare”. Le conseguenze di quel fatto vengono convenzionalmente fatte coincidere con un cambio di passo della politica italiana, determinante su numerose questioni: la progressiva estensione del suffragio, la percezione di cosa rientrasse nelle prerogative dello Stato centrale e anche la collocazione dell’Italia nell’equilibrio di potere continentale. In che modo la vita della comunità dei “confratelli” subiva l’influenza degli avvicendamenti politici?

Fulvio Conti: Ovviamente, come conseguenza di ciò che ho già detto, la massoneria italiana crebbe, prosperò e trovò un ambiente politico più favorevole dopo il 1876, quando un suo dirigente, Agostino Depretis divenne Presidente del Consiglio, il primo a essere stato un membro della massoneria. Depretis, però, al momento dell’ascesa al governo non risultava più un affiliato attivo mentre negli anni Sessanta era arrivato a ricoprire incarichi di rilievo negli organismi direttivi del Grande Oriente d’Italia. Sicuramente l’avvento della Sinistra storica fece sì che la massoneria trovasse un contesto politico più favorevole e questo si accentuò nel 1887 con l’ascesa di Francesco Crispi alla guida del governo e con l’inizio dell’età crispina. Crispi era un alto esponente del Grande Oriente d’Italia e del rito scozzese, era arrivato al massimo livello ed era stato uno dei rifondatori della massoneria nel 1862 e, soprattutto, a differenza di Depretis, che aveva allentato i contatti con i vertici massonici, Crispi li mantenne molti stretti; ci fu addirittura un vero e proprio connubio in quel momento con il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Adriano Lemmi, un banchiere e uomo d’affari livornese. È stata studiata e pubblicata la fitta corrispondenza tra i due e il legame era molto stretto: Lemmi chiese a Crispi (allora Presidente del Consiglio) interventi come iniziative di leggi, lo spostamento di sede di prefetti troppo clericali. Ancorché Crispi sia stato l’uomo che tentò di intraprendere la via della conciliazione con i cattolici, è anche colui che si segnalò nel 1895 per l’istituzione della festa civica, con valore nazionale, del 20 Settembre, cioè l’anniversario di Porta Pia, uno schiaffo per il mondo cattolico, una richiesta che la massoneria aveva avanzata da tempo. Il 20 settembre 1895 avvenne anche l’inaugurazione del grande monumento equestre a Garibaldi al Gianicolo a Roma e Crispi legò il suo nome a quello; ed è sempre nei suoi anni di governo che si tenne la grande manifestazione anticlericale fortemente voluta anche dai massoni (essendo l’anticlericalismo uno degli elementi identitari più forti della massoneria) in occasione dell’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno a Roma in Campo dei Fiori. Minori furono i rapporti con Giolitti, anche se in quel caso, nel contesto dell’Italia di inizio Novecento, la massoneria fu in buona parte la segreta tessitrice dei governi locali di sinistra, dei blocchi popolari che in ondate diverse guidarono le maggiori città italiane, da Milano a Catania. Blocchi popolari basati sulle alleanze di tre partiti: radicali, repubblicani e socialisti. Quasi ovunque gli esponenti di questi partiti che entrarono nelle giunte di sinistra erano massoni, il caso più eclatante di tutti fu la famosa giunta di Ernesto Nathan che guidò l’amministrazione comunale di Roma dal 1907 al 1913. Ernesto Nathan era già stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, era di origine repubblicana e di famiglia ebraica, imparentata anche con la famiglia dei fratelli Rosselli. Visto dall’altra riva del Tevere, era quanto di peggio il Vaticano si potesse immaginare: massone, ebreo e repubblicano. L’amministrazione di Nathan è ricordata come una delle migliori esperienze amministrative alla guida di Roma, in cui furono intrapresi ingenti investimenti sui servizi pubblici.

 

Quanto i propositi di avanzamento sociale laico e democratico che il Grande Oriente d’Italia individuava come necessari per migliorare le condizioni del Paese influenzò l’approvazione delle riforme – ad esempio nel settore dell’istruzione primaria e secondaria – che modernizzarono la società italiana? Se è possibile, in quali politiche si può rintracciare il segno del pensiero illuminista professato dalla massoneria?

Fulvio Conti: Sicuramente, uno degli impegni primari della massoneria riguardò la riforma della scuola, per renderla gratuita, obbligatoria e laica. La grande battaglia (peraltro non vinta) fu quella contro l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, ma anche e soprattutto quella per estendere l’obbligo scolastico. Una delle prime grandi riforme della scuola dello Stato unitario è quella del ministro Coppino del 1877, che era un esponente della massoneria. Su questo tema l’impegno si è poi protratto nel tempo. Un altro tema importante riguarda tutte quelle riforme che si legavano a una affermazione della scienza, a una diffusione dei nuovi valori della cultura scientifica e penso, per esempio, alle battaglie per migliorare l’assetto igienico-sanitario del Paese. Il primo codice sanitario che fu varato da Crispi (1888), nel suo periodo riformista, fu fortemente voluto da Agostino Bertani, medico, parlamentare e capo del gruppo radicale, e poi da un altro medico massone, Luigi Pagliani, che nel 1886 fu il primo a guidare la neonata Direzione generale della Sanità presso il Ministero dell’Interno. Questo impegno sul fronte delle riforme igienico-sanitarie fu una costante della massoneria, e soprattutto di quella pattuglia molto corposa di medici, specialmente impegnata sul fronte di quella che all’epoca veniva chiamata “l’utopia igienista”. All’interno di questa battaglia rientrava la sfida nei confronti del monopolio della Chiesa su alcuni importanti riti di passaggio. La massoneria si batté per l’istituzione del matrimonio civile, non riuscendoci: una proposta fu avanzata da Giuseppe Zanardelli, massone, nel 1900, ma venne bloccata. Per quanto riguarda l’emancipazione femminile ci si scontra con un paradosso: da un lato la massoneria rimase ferma sul divieto per le donne di diventare membri delle logge, però percepì la battaglia per l’emancipazione femminile come un tema prioritario. Parte dell’utopia igienista e della lotta al monopolio ecclesiastico sui riti di passaggio fu anche la battaglia per la legalizzazione della cremazione, per sostituirla alle pratiche della inumazione o tumulazione che venivano considerate pregiudizievoli della salute pubblica, perché inquinavano i terreni e le falde. Un altro simbolo che può essere preso a esempio della lotta per il cambiamento della società italiana, spesso a livello di giunte locali, fu la sostituzione delle suore negli ospedali con infermiere laiche.

 

Il 16 maggio 1925, Antonio Gramsci, allora deputato del Regno per il Partito comunista d’Italia, tenne il suo unico discorso in Parlamento opponendosi al progetto di legge fascista per la messa fuori legge delle attività delle logge (in quanto strumento per colpire anche l’associazionismo popolare), disse che «… data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo». La massoneria come affronta la fine del “lungo Ottocento”? Come trova nuovo posto nella società con la progressiva erosione della posizione di rendita della classe dirigente liberale risorgimentale e l’emergere della politica di massa e di nuovi paradigmi politici?

Fulvio Conti: La massoneria rimase molto legata al paradigma sociale e politico ottocentesco, del quale fu la rappresentanza plastica. Lo spartiacque della Prima guerra mondiale, prima ancora dell’avvento del fascismo, creò le premesse per il declino del ruolo sociale, politico e ideale che la massoneria aveva avuto fino a quel momento. La Grande guerra e gli anni immediatamente successivi segnarono per l’Occidente, e quindi anche per l’Italia, l’inizio della società di massa, l’estensione del diritto di voto (non in Italia) in molti Paesi alle donne e la definitiva formazione di nuovi partiti politici di massa. Questo già dal punto di vista sociale cominciava a essere spiazzante. Nel 1919, poi, venne approvata la riforma del sistema elettorale, che da maggioritario diventò proporzionale, il diritto di voto era ormai esteso a milioni di persone: era la fine del modello notabilare ottocentesco, un modello nel quale un’associazione d’élite ancorché numerosa come la massoneria, che era arrivata a circa 25.000 affiliati intorno al 1914, si trovò a non potere avere più quel ruolo che aveva esercitato per decenni. Non solo, lo scenario politico era quanto di più avverso si potesse immaginare, da una parte c’era un Partito socialista che cresceva con intensità, sfruttando al meglio le sue basi, la sua forza organizzativa e il nuovo sistema elettorale: un Partito socialista su posizioni massimaliste, che nel 1914 (nell’ultimo congresso prima della guerra) decretò l’incompatibilità fra l’appartenenza alla massoneria e quella al Partito socialista. A votare e a presentare quella mozione per l’incompatibilità fra massoneria e appartenenza al Partito socialista fu Benito Mussolini. Dall’altra parte il 1919 vide la conclusione del processo di “nazionalizzazione” delle masse cattoliche e la nascita di un partito cattolico che fu da subito fortissimo. Quindi, alla massoneria venne meno la vecchia sponda socialista, con la quale aveva avuto rapporti stretti nell’età giolittiana: il primo deputato socialista in Italia, Andrea Costa, era stato massone per trenta anni, fino alla morte. La massoneria ancora per alcuni anni nell’immediato dopoguerra (dal 1920 al 1923) vide crescere i propri affiliati, in quello che però possiamo definire come un “canto del cigno”, non soltanto perché poi fu oggetto di persecuzioni da parte del regime fascista, che identificò nella massoneria il primo bersaglio da colpire con le leggi liberticide del 1925-26 – nonostante molti fascisti fossero massoni e nonostante buona parte dei massoni avesse individuato nei primi anni del dopoguerra, tra il polo socialista massimalista e il Partito popolare dall’altra, in Mussolini e nel movimento fascista quella forza politica nuova nella quale riconoscere una parte degli ideali patriottici che avevano sempre caratterizzato la massoneria. Dopo l’apogeo della presenza e del ruolo della massoneria nella società italiana dell’età liberale, la Grande guerra e i cambiamenti sociali e politici che ne derivano la relegarono inevitabilmente a un ruolo più marginale.

 

Una domanda di carattere metodologico: quali sono le fonti, archivistiche e non, per lo studio della massoneria? Come studiare il fenomeno in maniera scientifica, senza ricostruzioni fragili o dietrologie influenzate dal giudizio dell’osservatore?

Fulvio Conti: Malgrado la massoneria venga definita una “società segreta”, di fatto non si è mai comportata come tale e lo dimostra il fatto che non solo ha sempre ricercato la visibilità pubblica per affermare il suo ruolo sociale e politico – si pensi a manifestazioni con massoni che sfilavano con i rametti d’acacia al cappotto, inaugurazioni di monumenti, cerimonie pubbliche dove tenevano a farsi vedere. Soprattutto, era una società non segreta che produceva molto materiale cartaceo: fin dalla rinascita nel 1861 produsse bollettini periodici, per informare i propri iscritti con notizie sulle logge (ad esempio le nuove logge che si costituivano) e anche con notizie di carattere più vario. Dal 1870 al 1926, poi, venne pubblicata una rivista ufficiale, la «Rivista della massoneria italiana» che poi cambia il nome in «Rivista massonica», a questa si aggiungevano altre riviste ufficiali o semi-ufficiali, le quali, in virtù della legge sul diritto sulla stampa, erano obbligate a consegnare delle copie al prefetto, che le inviava nelle biblioteche comunali e nazionali. In più, è possibile contare sulle convocazioni delle logge, delle assemblee e dei relativi verbali. Vi era una fitta pubblicistica periodica, per esempio il Supremo consiglio di Palermo negli anni Sessanta del XIX secolo, pubblicava «L’umanitario», che raccoglieva tutte le notizie sulle attività delle logge. In più ci sono gli archivi, anche se purtroppo la persecuzione fascista – a differenza di quello che è accaduto in altri Paesi che hanno vissuto la stessa fobia antimassonica come la Spagna – si tradusse all’inizio in una distruzione sistematica degli archivi e ha costretto i militanti e le logge a occultarli, a distruggerli per non far catturare i propri affiliati. Quindi una buona parte degli archivi del periodo dell’Italia liberale è andata purtroppo dispersa o distrutta. Sono però sopravvissuti i verbali degli organi direttivi dagli anni Novanta dell’Ottocento fino al fascismo e altro materiale rilevante; ci sono poi i rapporti delle questure e delle prefetture mandati al Ministero dell’Interno che si trovano all’Archivio centrale dello Stato. Gli altri materiali si trovano a Roma presso l’archivio storico del Grande Oriente d’Italia e ora anche presso l’archivio storico dell’altra più importante obbedienza massonica che è la Gran Loggia d’Italia, sono documenti accessibili con domanda. Questi hanno consentito di impostare studi fondati su basi documentarie. Il mestiere di storico però non è fatto solo di documenti ed archivi, che ovviamente sono importanti, ma prima di tutto è fatto di domande, di questioni storiografiche: la massoneria, almeno per come l’ho studiata io e insieme a me molti altri ricercatori, va indagata come un fenomeno sociale, politico e culturale, ponendosi domande di ricerca storica. Per esempio “Che ruolo ha avuto nel Risorgimento?”, non per ricercare scoop, pettegolezzi o dietrologie basate sulla semplice affiliazione di figure storiche alla massoneria. La metodologia impone di maneggiare le fonti senza pregiudizi e partendo da riflessioni storiche. Per fare un esempio della difficoltà da un punto di vista metodologico: all’interno delle logge si ritiene che chi viene iniziato alla massoneria rimanga tale per tutta la vita. Dal suo punto di vista, uno storico deve quindi considerare l’affiliazione alla massoneria come l’affiliazione a una associazione molto particolare, con una forte connotazione ideologica. Ma occorre anche qualificare una figura come “massone” solo negli anni in cui la partecipazione è attiva ed effettiva, e non a prescindere, anche dopo un eventuale allontanamento. Anche misurare la durata dell’appartenenza alla massoneria è un criterio importante e su questo, purtroppo, spesso non si hanno elementi precisi ed è difficile trovare riscontri. Possiamo trovare elementi sull’affiliazione nell’archivio storico del Grande Oriente a Roma, dove si conservano i libri matricolari delle iscrizioni di circa 70.000 e più nomi. Però essi ci danno informazioni su iniziazione, avanzamento di grado a compagno, avanzamento al terzo grado di maestro (il tutto avveniva in genere in un paio d’anni). Poi uno storico deve ricavare da altre fonti l’effettiva durata dell’appartenenza. Non erano scelte prese a cuor leggero, scelte di mero opportunismo: per la maggior parte delle persone riflettevano un sincero orientamento ideologico.

 

Il 2 maggio 1945 le forze armate tedesche si arresero, concludendo così la Campagna d’Italia degli Alleati. Si apriva una nuova fase della lenta ricostituzione dei soggetti politici che avrebbero ereditato un Paese sconfitto e diviso. Un anno e un mese dopo, il 2 giugno 1946, si tenne il referendum istituzionale, che vide vincitrice la scelta repubblicana. Come si posizionò la massoneria italiana rispetto al quesito referendario? Quali fratture emersero?

Fulvio Conti: Innanzitutto, è importante ricordare come già dagli inizi del Novecento in Italia non sia più possibile parlare di massoneria al singolare, bensì va fatto al plurale: già dal 1908-1910 si verificò una scissione nel Grande Oriente d’Italia che aveva dato vita a una nuova obbedienza di rito scozzese, la Gran Loggia d’Italia. Nel 1925 il fascismo mise al bando tutte le obbedienze massoniche che rinacquero a partire dal 1943, con la caduta del regime e l’arrivo degli Alleati. in Sicilia e soprattutto ripresero forza organizzativa dalla liberazione di Roma nel giugno 1944. Qui si ebbe uno sviluppo diverso: il Grande Oriente d’Italia rinacque all’inizio con una forte pregiudiziale democratica, antifascista e repubblicana, senza alcun dubbio. Questo era ribadito anche nei discorsi del Gran Maestro di allora, che, pur tollerando alcuni elementi monarchici, escludeva radicalmente qualsiasi partecipazione fascista e ribadiva nettamente la scelta repubblicana. Diversa era la posizione della galassia delle obbedienze che si formano e che cercano di contendersi la tradizione della Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù del rito scozzese, ce ne sono tante e generalmente attestate su posizioni più conservatrici e filocattoliche, mentre il Grande Oriente d’Italia conferma la sua netta e forte matrice anticlericale. Per il Grande Oriente d’Italia, che rappresentava la componente più grossa della massoneria, non vi fu alcun dubbio sulla scelta repubblicana.

 

Il mondo del vecchio notabilato liberale superstite dai vent’anni precedenti si presentava diviso e forse ormai estraneo da un Paese che aveva cambiato volto; le elezioni per l’Assemblea Costituente davano conferma di una scarsa risposta elettorale e della frammentarietà dei soggetti eredi della lunga tradizione politica liberale, che aveva guidato (quasi) incontrastata l’Unificazione d’Italia e la vita del Regno fino al sopravvento del fascismo – con anche dinamiche di connivenza con quest’ultimo. Fu anche il mondo della massoneria italiana, complici i vent’anni di inattività forzata, a risentire dell’atomizzazione della vecchia classe dirigente? Quale rapporto si instaurò con gli “uomini nuovi” della Democrazia cristiana, attori fondamentali nella neonata Repubblica?

Fulvio Conti: Anche qui la risposta è molto netta: i rapporti con la Democrazia cristiana da parte del Grande Oriente d’Italia nella prima fase repubblicana erano assenti. Durante i miei studi ho ritrovato e avuto modo di analizzare un elenco di più di 5.000 nomi di iscritti al Grande Oriente d’Italia degli inizi degli anni Cinquanta, in cui il gran maestro di allora chiedeva di avere risposte sull’appartenenza politica o simpatia politica dei confratelli: le risposte degli iscritti o simpatizzanti per la Democrazia cristiana furono sette, su più di 5.000 nomi. La Democrazia cristiana veniva percepita come il “nemico”, come era stato per il Partito popolare: la matrice anticlericale e avversa alla Chiesa restò il principale collante identitario della massoneria del Grande Oriente d’Italia. Al punto che era preferibile l’opzione Partito comunista piuttosto che Democrazia cristiana, tant’è che nel 1948 in occasione delle prime elezioni politiche il Grande Oriente d’Italia, in modo non del tutto esplicito, fece capire – e in merito ci sono delle corrispondenze significative della segreteria del Grande Oriente – che sarebbe stato preferibile votare per il Fronte popolare anziché per la Democrazia cristiana. L’orientamento della grande maggioranza degli iscritti al Grande Oriente andava però per i partiti laici minori (repubblicani, socialdemocratici in misura maggiore e poi liberali); inoltre, nonostante l’incompatibilità votata nel 1914, anche per il Partito socialista. Il progetto politico massonico restò quello di inizio Novecento, un’alleanza dei partiti democratici laici; inoltre, fin da subito viene fatta dalla massoneria una convinta scelta atlantica, che nel corso degli anni della Guerra fredda si accentuò e influenzò in maniera significativa le dinamiche interne. La presenza di simpatizzanti comunisti fu sempre numericamente esigua, ma progressivamente si vide l’entrata di esponenti cattolici, con un progressivo riavvicinamento alla Chiesa post-conciliare, non più la Chiesa di Pio XI e di Pio XII. La chiara collocazione internazionale a favore degli Stati Uniti fu avvantaggiata anche da un rapporto stretto che si venne a creare fin dallo sbarco in Sicilia con le logge americane mentre continuerà a faticare il rapporto con le logge inglesi: bisognerà giungere ai primi anni Settanta perché arrivi il riconoscimento inglese al Grande Oriente d’Italia, che durerà soltanto una ventina d’anni.

Scritto da
Giacomo Centanaro

Laureato presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Ha conseguito titoli post-laurea presso l’Università LUISS di Roma e ha completato un periodo di studio presso l’Université Paris 1 Pantheon-Sorbonne. È stato coordinatore del Limes Club Firenze ed è alumno della Scuola di Politiche.

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