La missione delle imprese pubbliche. Intervento di Massimo Florio
- 27 Gennaio 2021

La missione delle imprese pubbliche. Intervento di Massimo Florio

Scritto da Massimo Florio

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Pubblichiamo questo testo tratto dall’intervento, riveduto dall’autore, di Massimo Florio al seminario svoltosi il 28 dicembre nell’ambito del ciclo “Ripensare la cultura politica della sinistra” promosso da Salvatore Biasco, Alfio Mastropaolo e Walter Tocci e dedicato alle politiche di governo nella società post Covid-19.


Il mio contributo riguarda un punto specifico: il rilancio di una idea di impresa pubblica, rinnovata non solo nella gestione e direzione, ma soprattutto nella missione. In questo momento storico l’impresa pubblica ha le potenzialità per tornare ad essere una delle rivendicazioni della sinistra come alternativa all’oligopolio capitalistico. Per diverse ragioni, che elencherò, è necessario che questo tema rientri a pieno titolo all’interno dell’agenda di chi propone un esito progressista alla crisi in corso.

In primo luogo una delle lezioni che abbiamo tratto dalla pandemia è che esistono degli appuntamenti con la storia nei quali si comprende limpidamente perché scelte strategiche di produzione non possono essere soddisfatte dal mercato. È certamente una notizia positiva il fatto che uno o più vaccini sono autorizzati in tempi straordinariamente brevi rispetto al ciclo usuale del farmaco, ma non dovremmo dimenticarci che l’industria farmaceutica non sta regalandoci nulla. Ha deliberatamente ignorato l’allarme che veniva dagli esperti in merito alla possibilità di pandemie da coronavirus e da altri tipi di patogeni. La ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci nel corso degli ultimi vent’anni si sono sviluppati in altre direzioni, alcune importanti altre irrilevanti o di minore urgenza, ma da cui era possibile estrarre profitti monopolistici. Questi profitti anomali sono evidenziati da una misura quasi doppia del margine operativo lordo rispetto a quelli medi delle 500 maggiori aziende globali, secondo in particolare uno studio dello US Government Accountability Office[1]. Negli ultimi decenni l’industria farmaceutica ha compiuto scelte nell’ambito della ricerca e dello sviluppo che le hanno consentito di realizzare profitti eccessivi e al tempo stesso ha incamerato consistenti sussidi pubblici. Ad esempio, i sussidi attraverso i National Institutes of Health (ministero US della salute) ed altri enti sono stati mediamente di un miliardo di dollari per ciascuna delle 200 nuove molecole farmaceutiche approvate dalla Food and Drug Administration negli ultimi anni[2].  Se ai vaccini si è arrivati è quindi perché le conoscenze scientifiche di base erano state sviluppate grazie alla ricerca pubblica o finanziata del settore pubblico nelle università ed altrove, grazie a fondi di emergenza offerti dai governi alle imprese, e soprattutto grazie al preacquisto di miliardi di dosi a scatola chiusa e purtroppo – come ora si vede – con contratti segretati ed evidentemente privi di clausole di salvaguardia sulla concessione di licenze produttive a terzi.

La lezione è che dobbiamo tornare ad imparare che il mercato e gli investitori privati fanno il loro mestiere e non sono in grado di occuparsi di certi compiti di interesse generale. Questi compiti li deve svolgere direttamente lo Stato, non solo in situazioni d’emergenza, ma come parte della sua missione pubblica.

Questo mi porta a pensare che dovremmo progettare e realizzare un’infrastruttura pubblica in Europa, un analogo del CERN o dell’Agenzia Spaziale Europea, che invece di occuparsi di fisica delle particelle o di lanci di satelliti, si occupi di ricerca biomedica e del ciclo del farmaco, se non altro in previsione di altre pandemie. È possibile avere il coraggio di pensare di avere un’infrastruttura di ricerca e un’impresa pubblica europea del farmaco? Uno studio in corso su richiesta del Parlamento Europeo sta cercando di formulare questa ipotesi.

Quello che è paradossale è che oggi sembra più facile discutere di questi argomenti con persone che hanno una visione pragmatica delle responsabilità del governo che non con persone che vengono da partiti di centro-sinistra. A sinistra sembra tuttora prevalere, per inerzia di vecchi argomenti sullo stato “leggero”, che si occupa di regolazione dei mercati, liberalizzazioni e privatizzazioni, la convinzione che oggi non si possa riproporre l’impresa pubblica.  Soprattutto in Italia è così, dopo la triste vicenda dello smantellamento delle partecipazioni statali in modo indiscriminato, sia di quella decotte che di quelle di elevata strategicità, con il risultato paradossale che lo Stato ora rientra dove meno interessa, nell’acciaio e nel trasporto aereo, senza alcuna altra visione che non sia la logica del salvataggio.

Oggi sappiamo che l’impresa pubblica è tornata protagonista per diversi motivi. Nel recentissimo Routledge Handbook of State Owned Enterpises[3](2020), cui hanno contribuito oltre cinquanta studiosi, ed in almeno una dozzina di special issues di riviste internazionali, viene osservato, ad esempio,  che tra le maggiori imprese a livello globale, la quota delle imprese pubbliche è raddoppiata, come valore di capitale e in base ad altri indicatori, e questo non solo per il peso della Cina, ma anche per effetto dell’accresciuto  ruolo di imprese europee  (scandinave, francesi, tedesche soprattutto) in settori quali energia, telecomunicazioni, altri servizi pubblici e settori manifatturieri di alta tecnologia. Ma la sinistra non sembra avere nulla da dire su uno strumento di intervento pubblico che in molti paesi e circostanze è stato una sua bandiera e occasione di alleanze con altre forze, dal “socialismo municipale”, alle nazionalizzazioni elettriche, dalla rottura dell’oligopolio petrolifero, all’affermazione del servizio sanitario pubblico.

Una seconda questione che mi sorprende è la constatazione che ben pochi a sinistra in Italia pensino seriamente che si possano sfidare le Tech Giants – Amazon, Alphabet, Microsoft, Apple, Tencent e Alibaba –, ormai saldamente al vertice della classifica delle imprese del mondo per capitalizzazione. Sembra quasi che questo risultato dello sviluppo capitalistico dei nostri tempi, in cui la scienza nata all’interno di infrastrutture pubbliche viene appropriata dall’oligopolio, non sia sfidabile.  Ursula von der Leyen, non una persona di sinistra, al discorso dello Stato dell’Unione (a mio parere uno dei discorsi più progressisti della politica europea degli ultimi anni) ha riconosciuto la lentezza nel costruire una risposta europea sui dati personali, ma che almeno per quanto riguarda i dati industriali, cioè i dati bancari, amministrativi, delle imprese assicurative e i dati sanitari non si può non tentare un’alternativa. Per questo la presidente della Commissione Europea ha affermato la necessità di costruire una piattaforma pubblica-privata europea. È stato avviato un progetto, Gaia-X[4] a cui hanno aderito oltre 300 attori in Europa, con l’idea di costruire una federazione di piattaforme, un cloud dei cloud, da contrapporre alla predominanza, forse poco nota al grande pubblico, di Amazon Web Service, che attualmente controlla il 40% del mercato di questi servizi. Siccome si prevede che i dati a livello globale entro un decennio, saranno conservati per lo più nei cloud invece che sui server delle imprese, dei ministeri o degli ospedali, il fatto di non avere una piattaforma europea significa sostanzialmente consegnare il controllo dei dati ad altri soggetti come gli Stati Uniti o la Cina. Colpisce che la Commissione Europea riesca oggi a fare una proposta di questo genere – contrapponendo quindi nelle intenzioni all’oligopolio digitale statunitense una piattaforma pubblica europea – mentre in Italia la sinistra ritardi a comprendere l’importanza critica del tema, come se il capitale dei nostri tempi non fosse in misura rilevante incorporato nel controllo dei dati. Questi temi dovrebbero invece essere di grande interesse per la sinistra perché se le strutture pubbliche non riescono in concreto a contrapporsi all’oligopolio digitale, con i mezzi sterminati che ha messo in campo, i rapporti di forza resteranno squilibrati.

Un terzo esempio che vorrei fare è quello dell’innovazione tecnologica per contrastare ed adattarsi al cambiamento climatico. Come per la ricerca biomedica e l’economia digitale, servirebbe un grande progetto europeo, che vada oltre il Green Deal. Una Agenzia Europea del Clima, forse sul modello dell’Agenzia Spaziale Europea, con la missione di sviluppare innovazioni di rottura. Non va lasciata l’iniziativa solo a ai privati sussidiandoli. Ad esempio la CE ha lanciato il primo bando di gara per attribuire un miliardo di euro l’anno dell’Innovation Fund[5], con soldi che vengono dal mercato ETS (il sistema per lo scambio delle quote di emissione di CO2) a chi presenta progetti nel campo: sono arrivate centinaia di candidature. Ottimo: ma come per la ricerca biomedica, sussidiare le imprese a fare ricerca è meno efficace che disporre di un hub tecnologico pubblico di riferimento, con cui i privati possano collaborare, come è nel settore spaziale con ESA e NASA. Inutile parlare di politiche orientate dalle missioni senza disporre di strumenti e di organizzazioni che facciano di queste missioni il cuore della loro attività.

Tuttavia, almeno in Europa la pandemia potrebbe aver cambiato molte cose. Per sfide di questo tipo, sembrerebbe non esserci spazio per i singoli paesi. Se è la stessa Germania che ha deciso di non fare da sé, su un tema di politica industriale, ma di promuovere la creazione di una piattaforma digitale europea alternativa ai cloud offerti da Amazon e Microsoft, nonostante abbia in casa propria SAP, l’unica grande società nel campo da questa parte dell’Atlantico, allora forse la prospettiva non può che essere europea. Lo scontro politico e sociale va quindi guardato in una prospettiva europea e non in una prospettiva nazionale, o addirittura delle singole regioni, che stanno dando un inglorioso esempio di scarsa capacità di programmazione e interlocuzione istituzionale (non solo in Italia, anche in Germania). Di scontro di tratta, perché gli interessi in gioco sono colossali e una parte consistente della disuguaglianza del nostro tempo riguarda chi vincerà partite come quelle della ricerca biomedica e delle terapie, dell’economia digitale, della transizione energetica e alle tecnologie verdi.


[1] GAO. (2017), DRUG INDUSTRY, Profits, Research and Development Spending, and Merger and Acquisition Deals, Washington DC.

[2] Cleary, et al. 2018. Contribution of NIH funding to new drug approvals 2010–2016. «Proceedings of the National Academy of Sciences».

[3] Bernier, L., Florio, M., & Bance, P. (2020). The Routledge Handbook of State-Owned Enterprises. Routledge.

[4] https://data-infrastructure.eu

[5] https://ec.europa.eu/innovation-fund

Scritto da
Massimo Florio

Professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università degli Studi di Milano e partner di progetto del Forum Disuguaglianze e Diversità. È stato Direttore del Dipartimento di scienze economiche, aziendali e statistiche, Presidente del nucleo di valutazione, titolare di cattedra Jean Monnet. Ha diretto progetti di ricerca per Commissione Europea, Parlamento Europeo, BEI, OCSE, CERN, Agenzia Spaziale Italiana. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo: “Investing in Science. Social Cost-Benefit Analysis of Research Infrastructures” (MIT Press 2019) e “Apologia di un economista. Una diversa idea di ricerca e valutazione” (FrancoAngeli 2020). È in corso di pubblicazione per Laterza un libro sulla scienza come bene pubblico.

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