Scritto da Valentina Chabert
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Estate 1992. In una tipica estate azerbaigiana dal clima torrido in cui si attende il soffio del Khazri a rinfrescare l’aria, Hafiz Pashayev viene indicato come l’uomo a cui sarà affidata la prima missione diplomatica dell’Azerbaigian indipendente negli Stati Uniti. Pochi mesi dopo, su decreto dell’allora Presidente Elchibey, Pashayev fu nominato Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica dell’Azerbaigian negli Stati Uniti d’America. Nell’ambito della sua competenza rientravano anche il Canada, il Messico, Cuba e altri Paesi dell’America Latina. Dopo aver appreso la notizia, un amico del neoambasciatore commenterà così la sua nomina: «Elchibey ti ha affidato metà del mondo»[1]. Archivi e biblioteche pullulano di memorie di illustri ambasciatori e diplomatici, donne e uomini mossi dal sentimento, dallo zelo e dallo spirito di sacrificio nel servire il proprio Paese all’estero. Annotazioni, appunti e lettere che rivelano i dettagli che hanno contribuito a tessere il presente e il futuro delle relazioni tra gli Stati. Nel caso dell’Ambasciatore azerbaigiano Pashayev, le sue memorie racchiudono ben più del flusso di pensieri di un praticante che negli anni di servizio ha dato alla luce, fatto crescere e infine plasmato la diplomazia dell’Azerbaigian in condizioni di partenza tutt’altro che lusinghiere, mostrando senza veli quanto sacrificio, dedizione, perseveranza e umiltà sono necessari ad un Paese appena divenuto indipendente, con il 20% del proprio territorio militarmente occupato, centinaia di migliaia di sfollati interni e una lobby avversaria che, all’interno delle cancellerie straniere, non si fa scrupoli a far valere i propri interessi distorcendo la reale situazione del conflitto nel Caucaso Meridionale.
L’Azerbaigian dei primi anni Novanta
L’Azerbaigian è chiamato il Paese delle tre “G” – geografia, geologia, geopolitica – elementi che riflettono tanto la realtà economica nazionale, quanto il ruolo di primo piano nella scelta del suo orientamento politico. Dal punto di vista geografico, la Repubblica dell’Azerbaigian occupa una posizione strategica e potenzialmente vantaggiosa sotto molteplici profili: collocato tra l’Iran e la Russia, nella regione del bacino endoreico del Caspio, la capitale Baku si configura come anello di collegamento tra il Caucaso Meridionale e l’Asia Centrale, tra l’Europa e l’Asia, tra la Russia e il Medio Oriente. Il fattore geopolitico e l’abbondanza di risorse naturali – soprattutto idrocarburi – accrescono ancor di più l’importanza e il prestigio dell’Azerbaigian a livello internazionale[2]. L’intera storia del Caucaso si lega ad un’intersezione di interessi strategici contrapposti. In un contesto simile, l’Azerbaigian svolge il ruolo di cuscinetto tra l’ideologia islamica dell’Iran e le ambizioni di grande potenza della Russia; la Turchia, membro della NATO, è legata all’Azerbaigian sia per ragioni etniche e culturali, sia per motivi strategico-militari; infine, trovandosi lungo le vie della Seta, l’Azerbaigian è considerato «la porta dell’Eurasia», consentendo agli Stati europei l’accesso ai mercati della Cina e dell’Asia sudorientale. A tal proposito, lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas del Mar Caspio e il loro collegamento ai mercati internazionali risultano prioritari nelle politiche economiche di Stati Uniti e Unione Europea[3]. Ciononostante, all’inizio degli anni Novanta l’Azerbaigian si trovò nel pieno di uno dei periodi di maggiore criticità della storia del Paese. Di fatto, all’indomani dell’indipendenza dall’Unione Sovietica il conflitto con l’Armenia per il controllo della regione del Karabakh, riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaigian ma occupato dall’Armenia, fece precipitare il Paese in un baratro politico e socio-economico sia a livello interno che internazionale. Nella logica competitiva del Caucaso Meridionale, il conflitto fu infatti interpretato come triangolo o sovrapposizione di interessi su tre livelli, presentandosi contemporaneamente come locale, regionale e internazionale. Alla contrapposizione di Armenia e Azerbaigian a livello locale si affiancano pertanto gli interessi regionali di Russia, Turchia e Iran, con Stati Uniti e Unione Europea che si aggiungono al quadro in prospettiva internazionale. Nelle memorie dell’Ambasciatore Pashayev, una lucida, peculiare e autocritica riflessione sulla risoluzione del conflitto vedrà nella riunificazione degli interessi locali, regionali e internazionali sotto lo stesso “tetto” e una loro ricomposizione sotto forma di “casa” l’unica possibilità di successo per una stabilità duratura nel Caucaso. Un’affermazione che risale a trent’anni fa, ma che si rivela particolarmente lungimirante se letta alla luce degli avvenimenti degli ultimi mesi, durante i quali l’Azerbaigian ha ripristinato la propria integrità su tutto il territorio, compreso il Karabakh, e avviato intensi negoziati con l’Armenia per la firma di un trattato di pace. Tuttavia, un trentennio fa le prospettive diplomatiche non apparivano affatto così ottimiste. All’aggressione dall’esterno si sommava poi la lotta per il potere, che minacciava di provocare un conflitto interno e causare lo smembramento del Paese. Nel 1993, Suray Huseynov avanzava su Baku da Ganja, l’allora Presidente Abulfaz Elchibey aveva lasciato il potere ed era andato in Nackchivan[4]. Il governo del fronte nazionale cadde, aprendo la strada ad Heydar Aliyev che fu invitato a Baku dal Nackchivan ed eletto Presidente del Parlamento. Il 3 ottobre 1993, infine, fu nominato Presidente della Repubblica, liberando il Paese dalla minaccia della guerra civile[5]. Specularmente, l’estate del 1993 fu particolarmente tesa anche per le attività dell’Ambasciata, che si trovò a dover giustificare un disorientamento in politica estera causato dal cambio al vertice del governo. In questo contesto, la lobby armena negli Stati Uniti non perdeva occasione di far apparire l’Azerbaigian un Paese instabile e poco democratico, con drammatiche conseguenze sul lavoro portato avanti dalla diplomazia di Baku nel Congresso.
Tessere le relazioni con gli Stati Uniti: le difficoltà della diplomazia azerbaigiana
L’avvicinamento dell’Azerbaigian agli Stati Uniti risponde ad un fine strategico ben definito. Ai vertici del potere è chiaro come, nel triangolo Ankara – Teheran – Mosca, lo sbilanciamento dell’equilibrio da una parte sola possa rivelarsi rischioso. Pertanto, il mantenimento dell’equidistanza all’interno di tale triangolo passa necessariamente attraverso la relazione con gli Stati Uniti, in virtù del ruolo di contrappeso che questi possono svolgere rispetto agli interessi delle altre potenze nella regione del Caspio. Nonostante ciò, la squadra di diplomatici capeggiata da Pashayev si trovò nuovamente ad affrontare serie difficoltà nel quotidiano intreccio delle relazioni con Washington. In primis, raggiungere un equilibrio tra necessità e realtà non fu scontato, poiché si rivelò complesso far accogliere gli interessi strategici dell’Azerbaigian da Washington, e ancor più farli coincidere con l’orientamento della politica americana. Per questo motivo, la costruzione di rapporti bilaterali con gli Stati Uniti si rivelò sempre essere il frutto di sforzi titanici che ebbero i maggiori successi quando professionalità e autorità politica si trovarono perfettamente allineati. In secondo luogo, la missione diplomatica si trovò a dover fare i conti con un totale vuoto di informazioni sul proprio Paese: fuori dai confini dell’Azerbaigian, infatti, era sconosciuta ai più la sua indipendenza ottenuta con il sangue, e pochi sapevano che il Paese fosse uno Stato sovrano e non un ennesimo angolo esotico del pianeta. Al contrario, il Congresso e l’opinione pubblica statunitense non avrebbero saputo collocare l’Azerbaigian su una mappa geografica, e spesso non potevano affermare con certezza se si trattasse di un Paese indipendente o fosse invece parte della Federazione Russa. Il tutto durante un conflitto sanguinoso con l’Armenia che aveva prodotto l’occupazione del territorio azerbaigiano, nonché l’espulsione forzata di cittadini che divennero profughi nella loro stessa terra[6]. A differenza dell’Armenia, che negli Stati Uniti poteva contare su una lobby organizzata e ben strutturata, nulla di simile poteva dirsi dell’Azerbaigian. D’altro canto, le memorie dell’Ambasciatore Pashayev non fanno a meno di menzionare le carenze dei diplomatici azerbaigiani, che nella totalità dei casi provenivano da ambienti lontani alle relazioni internazionali e che dovevano imparare il mestiere «strada facendo» e «sul campo». Per la maggioranza dei funzionari statali, la vista di un biglietto da visita appariva del tutto nuova, pochi avevano lavorato in un ministero prima ed erano familiari con le regole della burocrazia o del cerimoniale. Nessuno era formato nell’ambito della pubblica amministrazione, il che richiedeva di imparare rapidamente dai propri errori. Ciò dipese dal fatto che sotto l’Unione Sovietica gli azerbaigiani non avevano la possibilità di studiare nell’ambito della diplomazia o dell’amministrazione, e il nuovo Stato non aveva altra scelta se non quella di selezionare il personale sulla base del grado di dedizione all’indipendenza. Non sorprende dunque che i compiti da affrontare quotidianamente includessero anche le normali pratiche amministrative, la ricerca di un ufficio, l’acquisto di un’auto. A livello politico, negli anni della salita al potere di Heydar Aliyev, l’Ambasciatore Pashayev dovette altresì affrontare le preoccupazioni costanti del Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione Clinton, timoroso per la presenza, a Baku, di un ex membro del Politburo del Partito Comunista ed ex presidente del KGB azerbaigiano. L’apprensione derivava dalla possibilità che l’Azerbaigian potesse abbandonare la strada della democrazia per tornare nell’orbita della Russia, svelando una certa sfiducia nei confronti della linea del nuovo leader. L’atteggiamento nei confronti di Heydar Aliyev, tuttavia, mutò con celerità: il neopresidente fu infatti capace di condurre lo Stato fuori dalla crisi politica, economica e militare che stava attraversando, così come di utilizzare con abilità e per fini politici le ricchezze del sottosuolo dell’Azerbaigian[7]. Intorno ai giacimenti di Azeri-Chirag-Gunashli fu creato il primo consorzio internazionale e venne assegnata una quota a grandi compagnie energetiche influenti dal punto di vista geopolitico; al contempo, il consorzio Azerbaijan International Operating Company (AIOC) diede il via alla realizzazione del “contratto del secolo”, firmato a Baku il 20 settembre 1994, attraverso cui vennero affidate importanti concessioni a compagnie petrolifere occidentali intenzionate ad ampliare la propria influenza nel Caucaso. Con il vuoto di influenza prodotto dal collasso dell’URSS nel Caucaso e le successive lotte per colmarlo, Heydar Aliyev fu in grado di osservare gli interessi dei vari attori in gioco e creare un equilibrio tra essi, sfruttando gli idrocarburi per evitare che una sola potenza stabilisse la propria influenza sulla regione[8].
L’emendamento 907
Nelle memorie del primo diplomatico e dell’intera collettività azerbaigiana, un posto di primo piano è certamente occupato dall’emendamento 907, un ostile provvedimento del Congresso approvato nel 1992 che impose sanzioni all’Azerbaigian accusandolo di fondamentalismo islamico e privandolo della possibilità di ricevere aiuti da parte degli Stati Uniti perché accusato di aver provocato la guerra in Karabakh e assediato l’Armenia.[9] Risultato della scarsa conoscenza delle dinamiche geopolitiche del Caucaso Meridionale tra i circoli di potere d’oltreoceano, sedotti dalla lobby armena sulla base di leve religiose e culturali, l’emendamento è ancora oggi vivo nella memoria degli azerbaigiani, la cui diplomazia si trova spesso in fasi alternanti di distacco e riavvicinamento a Washington per via dell’altalenante sostegno statunitense. Di fatto, il conflitto in Karabakh rimase ed è tuttora uno scoglio insormontabile nella costruzione delle relazioni con gli Stati Uniti, che necessariamente passano attraverso duri duelli con i gruppi di interessi armeni per l’abolizione dell’emendamento 907. Oltre al duro lavoro che è toccato all’Azerbaigian per riuscire ad affermarsi ed ottenere il riconoscimento internazionale senza l’aiuto finanziario statunitense, l’Ambasciatore Pashayev non risparmia nei suoi scritti l’aspetto emotivo della questione, riflettendo su come l’emendamento offendesse la nazione azerbaigiana minando la sua fiducia nella giustizia. Scrive l’Ambasciatore: «Devo confessare una cosa che non ho mai detto: a volte invidiavo i miei colleghi Ambasciatori di altri Paesi. A tarda sera, dopo essere tornato stanco dal lavoro, pensavo che sarebbe stato meglio essere l’ambasciatore di un Paese senza guerra. Perché quei territori occupati, quella gente disperata e cacciata dalla propria terra, appartenevano alla mia nazione, e quel paese ingiustamente accusato, sottoposto a sanzioni e privato di qualsiasi aiuto era il mio? […] Certo, era facile lasciarsi prendere dalle emozioni, ma aveva forse senso dare spazio al sentimentalismo nella diplomazia? Le risposte alle domande che mi toglievano il sonno dovevano essere in sintonia non con le mie emozioni, ma con gli interessi della nazione che rappresentavo»[10]. Baku in quegli anni necessitava di un atteggiamento imparziale nei propri confronti da parte di uno Stato amico, e nonostante ciò non fosse avvenuto a livello politico, era chiaro che in realtà non si trattasse di una decisione del popolo americano, né di un atteggiamento ostile di quest’ultimo nei confronti della nazione azerbaigiana. Fu tuttavia – secondo Pashayev – un esempio delle lacune della democrazia statunitense, spesso vittima di gruppi che sostengono interessi specifici. Proprio all’essenza della democrazia occidentale Pashayev dedica ampio spazio nelle sue memorie: per l’Ambasciatore è indubbiamente una delle priorità politiche degli Stati Uniti, bensì non si tratta dell’unico criterio di misurazione degli interessi geopolitici. Come si addice ad una superpotenza, coesistono interessi di sicurezza nazionale, e proprio questi ultimi vengono messi in primo piano nella definizione della linea politica e dei rapporti con gli Stati esteri. Nel Congresso, tuttavia, sembra valere un’eccezione a tale regola: i membri sono più interessati all’opinione degli elettori che alle priorità di politica estera. Chi vuole fare politica ed essere eletto deve avere il voto degli elettori e i mezzi finanziari per lo svolgimento della campagna elettorale; pertanto, non si può essere indifferenti agli interessi dell’elettorato. Proprio in questi frangenti si formano gruppi di pressione che offrono al politico due cose importanti: il voto degli elettori e il sostegno economico. In questo l’Ambasciatore fu sia studente che insegnante del rapporto tra Congresso e Stati esteri. Per citare Brzezinski, Pashayev comprese che «quello delle lobby è un sistema aperto. Anche voi potete dire la vostra. Non c’è alternativa»[11].
[1] H. Pashayev, Memorie di un Ambasciatore, Sandro Teti Editore, 2015.
[2] V. Chabert, Azerbaigian: la terra del fuoco al centro della geopolitica eurasiatica, (2023), «Pandora Rivista».
[3] G. Mukigulishvili, The Growing Importance of the Middle Corridor as an Energy Transport Route, (2023), «The Hague Research Institute for Eastern Europe, the South Caucasus and Central Asia».
[4] C. Frappi, Azerbaigian: crocevia del Caucaso, Sandro Teti Editore, 2012.
[5] S. Bolukbasi, Azerbaijan: a political history, I.B. Tauris, 2011.
[6] T. de Waal, Black Garden. Armenia and Azerbaijan through peace and war, New York University Press, 2003.
[7] M. B. Altunisik, O.F. Tanrisever, The South Caucasus – Security, Energy and Europeanization, Routledge, 2018.
[8] Ministry of Energy of the Republic of Azerbaijan, Contract of the Century.
[9] U.S. Congress, Freedom Support Act, S.2532, 102nd Congress, 1991-1992.
[10] H. Pashayev, op. cit., pp. 47-48.
[11] Z. Brzezinski, B. Ghassan, Zbigniew Brzezinski: Peace at an Impasse, «Journal of Palestine Studies», 14 (1984), pp. 3–15.