La natura in politica: la sfida ecologica in filosofia
- 19 Settembre 2020

La natura in politica: la sfida ecologica in filosofia

Scritto da Giulio Pennacchioni

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Guardando ai primi due decenni del XXI secolo, è quasi inevitabile nutrire qualche dubbio sulle sorti progressive promesse da quell’Età dei Lumi che è stata il luogo d’origine della modernità. German Watch [1]ogni anno pubblica il report Climate Risk Index, che analizza in che misura i Paesi del mondo siano colpiti da eventi naturali drammatici legati ai cambiamenti climatici. Da questa, come da tante altre ricerche[2] del mondo scientifico, risulta come sia l’uomo la causa principale di molti disastri ambientali e di come le prospettive per il futuro, se la situazione generale non dovesse migliorare, non siano molto rassicuranti. A partire dalla necessità di un taglio radicale delle emissioni nocive entro i prossimi dieci anni, affinché sia ipotizzabile un freno all’aumento delle temperature globali, non bisogna neanche dimenticare il continuo aumento della popolazione mondiale. Insomma: è necessario il riconoscimento di un’assoluta centralità della questione ecologica, che non va soltanto compresa, ma che implica la messa in questione dell’impianto categoriale e delle forme di vita (anche in senso sociale e politico) che hanno caratterizzato l’età moderna nel suo complesso, ma anche più in generale una millenaria tradizione occidentale.

 

Illuminismo e modernità

Il periodico tedesco Berlinische Monatsschrift, nel 1784, ospita la risposta di Kant alla domanda Was ist Aukflärung? (Che cos’è l’Illuminismo?). In quest’ultimo, l’Illuminismo viene definito in modo interamente negativo, ovvero come un processo attraverso cui si realizza «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, il quale è da imputare a lui stesso», dalla sua «pigrizia e viltà» nel sottomettersi alle «regole e formule» dell’autorità religiosa e politica[3]. Il motto dell’Illuminismo, proclamava Kant, è «Sapere aude! (Osa conoscere!)», perciò la sua rivendicazione fondante è la libertà di pensiero. Un’enunciazione del XXI secolo della medesima idea si può trovare nel saggio del fisico David Deutsch in difesa dell’Illuminismo, L’inizio dell’infinito[4].In questo, si sostiene che proprio perché si può osare conoscere, il progresso è possibile in tutti i campi, dalla scienza alla politica, alla morale.

In linea generale, non si ha una definizione univoca di Illuminismo. Lo si colloca convenzionalmente negli ultimi due terzi del XVIII secolo, sebbene sia derivato dalla Rivoluzione scientifica e dall’Età della ragione del XVII secolo e si sia prolungato fino all’apice del liberalismo classico della prima metà del XIX secolo. In questo senso, opere fondamentali sono state quelle di pensatori come John Locke con il suo Saggio sull’Intelletto umano, o quelle di David Hume o Francis Bacon. In Francia, la diffusione dell’Illuminismo si deve al lavoro di numerosi pensatori, fra cui Voltaire, Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu autore di Lo spirito delle leggi, o ancora Bernard de Fontenelle. Si devono ricordare inoltre anche Jean Baptiste Le Rond d’Alembert, Denis Diderot e Jean-Jacques Rousseau. In Italia, i principali centri di diffusione dell’Illuminismo sono stati Napoli e Milano. A Napoli, sotto il tollerante re Carlo di Borbone, i principali esponenti sono stati Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani e Gaetano Filangieri; di quest’ultimo si ricorda La scienza della legislazione, opera che avrà un’influenza decisiva sulla Costituzione americana. Milano, oltre ad ospitare la rivista Il Caffè, fondata dai fratelli Pietro e Alessandro Verri, è stata la città natale di Cesare Beccaria, di cui si ricorda Dei delitti e delle pene, contro la tortura e la pena di morte. Dunque, a partire da un’idea di fondo in comune (secondo Steven Pinker[5] individuabile in quattro elementi: ragione, scienza, umanesimo e progresso), i pensatori dell’Illuminismo cercavano una nuova e migliore visione della condizione umana. Al sapere tecnico-scientifico veniva legata una riflessione etica. Non è un caso che un pensatore come Adam Smith, prima ancora di essere un economista, fosse un filosofo morale; e come questo tanti tra gli illuministi italiani, francesi, britannici.

All’Illuminismo si devono gran parte degli elementi che hanno generato il mondo moderno[6]. Le stesse scoperte tecnocratiche esposte nel corso dell’Ottocento possono essere considerate il risultato delle suggestioni teoriche del periodo precedente. Fra i tanti, il filosofo Claude Henry De Saint Simon, in Riorganizzazione della società europea, pensa alla soluzione dei problemi del suo tempo in termini di competenza tecnica: cifra essenzialmente illuministica, che si esprime nella considerazione della razionalità (anche tecnica) come elemento preponderante rispetto a qualsiasi altro aspetto umano. Dunque, pur ospitando pensatori reazionari che vedevano nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 il frutto ultimo e più velenoso dell’idea di libertà illuministica, è evidente come non sarebbe più stato possibile tornare indietro dall’Età dei Lumi. Come sul piano geopolitico il Congresso di Vienna non avrebbe potuto fare a meno di considerare le novità portate dagli stravolgimenti causati dalle campagne napoleoniche, così, sul piano teorico, tutti i pensatori illuministi avrebbero lasciato un segno indelebile nella storia moderna.

A questo punto, pur non negando gli elementi di vicinanza fra l’Illuminismo e la modernità, è necessario operare una distinzione. In effetti, se si prende in considerazione una nozione come quella di progresso, ci si rende conto anche delle enormi differenze fra i pensatori dell’Illuminismo dei due periodi. Il concetto di progresso degli Illuministi è caratterizzato da una concezione laica della storia, dalla convinzione che le arti tutte possano portare a un miglioramento dell’uomo, dalla curiosità per i popoli selvaggi pensati ad uno stato primitivo. Al contrario, pur nelle numerose e diverse trattazioni che se ne fanno, nell’Ottocento emerge l’idea che il progresso non sia semplicemente una possibilità di miglioramento delle condizioni umane, ma una necessaria legge della storia dell’uomo. Quindi, nonostante la presenza anche di concezioni pessimistiche (si pensi alla filosofia di Arthur Schopenhauer, o a una poesia come La ginestra di Giacomo Leopardi), l’idea che più predomina è quella di pensare la storia umana come una continua progressiva evoluzione delle fasi che essa stessa attraversa. Persino i momenti apparentemente più contingenti devono esser colti all’interno di questo processo, che (non a caso) è stato spesso accostato alla teoria darwiniana dell’evoluzione. Studiando il pensiero di autori quali Saint-Simon, Auguste Comte, Herbert Spencer, non vi è da sorprendersi se Hegel, vedendo passare Napoleone (da quest’ultimo considerato l’incarnazione dello Spirito della storia) sotto la sua finestra, abbia potuto scrivere all’amico Friedrich Immanuel Niethammer:

« […] l’imperatore, quest’anima del mondo, l’ho visto uscire a cavallo dalla città, in ricognizione; è davvero una sensazione singolare vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, spazia sul mondo e lo domina…»[7]

Ma che posto in tutto questo alla natura? Qual è il limite del progresso? Ha un limite? In effetti, si può constatare che la storia moderna sia fondata su una distinzione, che si esprime non soltanto fra ciò che è umano (si potrebbe dire moderno) e ciò che è naturale. Quindi, si ha a che fare con una distinzione che non viene posta soltanto fra l’uomo e il mondo (con le piante e gli animali), ma anche nei confronti di altri umani (i non-moderni). In conclusione, è una separazione che pone l’esclusione di quelle forme di pensiero che non sono moderne. Ma a che cosa ha portato tutto ciò?

 

La modernità nel pensiero di Bruno Latour

Bruno Latour è un sociologo, antropologo e filosofo francese che si iscrive all’interno di quella tradizione filosofica che si qualifica come “non-modernità” o “non-moderno”; in opposizione a quella che viene tendenzialmente definita “modernità” o “post-moderno”. In particolare, la sua idea del concetto di modernità, in forte opposizione rispetto a quella di cui si è parlato sopra, è ben delineata nel suo lavoro Non siamo mai stati moderni[8]. In quest’opera, Bruno Latour fa una riflessione sul concetto di modernità completamente opposta rispetto a quanto riferito precedentemente in merito al significato di questo concetto. Al tempo stesso, si distanzia da quella narrazione definita del “post-moderno”, trovando una via alternativa ad entrambe le posizioni:

«Da una ventina di anni studiamo, i miei amici e io, queste situazioni strane che la cultura intellettuale nella quale siamo immersi non sa dove collocare. Ci diamo, in mancanza di meglio, il nome di sociologi, storici, economisti, politologi, filosofi, antropologi […]. Quale che sia l’etichetta, si tratta comunque di ricomporre il nodo gordiano attraversando tutte le volte che occorre la cesura che separa le conoscenze esatte e l’esercizio del potere, in altre parole la natura e la cultura»[9].

Latour caratterizza ciò che viene chiamato “modernità” come la distinzione fra due piani: la natura e la società. Il primo elemento si configura come il “mondo delle cose” regolato da “leggi certe e universali”, mentre il secondo è quello degli uomini, dove “nulla è prevedibile” e vi sono “conflitti continui”. A partire da questa prima distinzione, il filosofo francese sostiene che il moderno si possa sviluppare solo in due modi: per “traduzione”. In cui si svolge un miscuglio fra gli esseri appartenenti ai due piani (quello della natura e quello della cultura), aprendo alla possibilità per la formazione di quelli che vengono definiti gli “ibridi”; per “depurazione”. In cui si mantiene in modo netto la distinzione fra le due aree ontologiche (natura e cultura), e si vanno quindi a configurare i due lati, quello degli ‘umani’ e dei ‘nonumani’.

I due piani, a loro volta, sono interdipendenti l’uno all’altro. Senza il primo insieme le pratiche di depurazione sarebbero vuote e oziose. Senza il secondo, il lavoro di traduzione risulterebbe rallentato o, sostiene Latour, addirittura bloccato. Lo stare nella modernità finora ha implicato proprio il voler pensare questi due piani in modo separato, aderendo quindi a quell’operazione definita di “depurazione critica”. Secondo Latour, la modernità non è stata soltanto la narrazione di questa negazione nei confronti del naturale, ma, in questo, è stata anche vittima di un paradosso da essa stessa creata. La modernità, nonostante si sia voluto pensarla come “depurata” rispetto alla natura, con un movimento opposto a quello della “traduzione”, non può fare a meno di accettare la presenza di “ibridi” (si pensi ai cambiamenti climatici, in effetti causati proprio dall’incontro fra il mondo degli umani moderni e quello della natura), che insegnano la coesistenza, nonché la co-appartenenza, fra i due piani. Affianco all’uomo, considerato secondo la narrazione moderna come maîtres et possesseurs de la nature (per dirla con Latour), bisogna considerare la presenza di quelli che il filosofo francese definisce i “nonumani” e i “quasi-oggetti”, ovvero tutti quegli aspetti della realtà che sono mescolanze di natura e cultura. Gli ibridi non devono più essere esclusi dalla realtà (per così dire, umana), ma possono essere un nuovo punto di partenza.

Latour ha come obiettivo finale quello di studiare il mondo moderno, ma non in modo asimmetrico (separazione natura-cultura). Solo gli studi che superano questo limite risulteranno quindi i più completi e proficui (per esempio, quelli sulle tribù degli Achuar, degli Arapash, sugli Alladiani). A partire da questo, bisogna nuovamente tornare verso noi stessi, verso l’uomo che si dice moderno, proprio per scoprire la sua non-modernità e rifondarla. In effetti, per citare Latour, non siamo mai stati veramente moderni. Dunque, se non ha più senso separare i due piani, verso dove si va? Ma soprattutto, che spazio può avere la politica in tutto questo?

 

La sfida ecologica in filosofia

Partendo dalla considerazione definitiva che la modernità abbia mancato nel non considerare l’elemento naturale, ecco che la situazione attuale fa emergere la necessità di un ripensamento. Proprio partendo dalle preoccupazioni dovute alla questione climatica, ripensare la modernità può rappresentare una possibilità di soluzione alle stesse. Non si è costretti ad abbandonarsi a scenari apocalittici[10], come, d’altra parte, la possibile soluzione non deve necessariamente consistere in una rivoluzione tecnologica in grado di risolvere la totalità del problema; prospettiva questa di cui non va certamente negata la validità[11]. Ciò che qui si propone è un’altra possibile strada, che si fonda su un diverso modo (non-moderno) di relazione nei confronti del naturale.

All’interno di questo lavoro, si colloca l’opera Par-déla nature et culture di Philippe Descola[12]:

«Bref, le principe lévi-straussien de la conceptualisation des discontinuités sociales au moyen des discontinuités naturelles reste ici inopérant et c’est donc vers l’ontonogenèse mythique qu’il faut se tourner pour comprendre les raisons des regroupements totémiques»[13].

Ecco dunque profilarsi un diverso tipo di rapporto fra l’uomo e la natura. Nel pensiero di questo autore emerge come in alcune popolazioni con cui Descola ha vissuto, non vi è quella distinzione moderna (per come la intende Latour) fra il piano naturale e quello degli uomini. Non viene posta questa separazione fra i due piani e viene scoperto un dialogo: una relazione fra le due parti. Una relazione viva, prolifica. Lo stesso tema lo si può ritrovare all’interno delle ricerche dell’antropologo Viveiros De Castro o in quelle di Tim Ingold.

Dunque, non più concependo l’elemento naturale come: «des informations irritantes»[14] e attraverso una praxis diversa da come la intendeva Sartre in Critica della ragione dialettica, si profila una possibile azione politica nuova. Questa azione non sarà quella dell’uomo libero nella storia (come in Sartre), ma dovrà al contrario sempre confrontarsi con un non-umano a cui andrà concessa una propria autonomia e che potrà essere l’inizio di una relazione. Natura e cultura sono una cosa sola. Società e ambiente sono una cosa sola. Il modello dell’opposizione fra le due parti non deve essere pensato come valido per tutti i popoli. A proposito di ciò, si pensi al primo capitolo della Nuova Costituzione dell’Ecuador, che tutela proprio i diritti della natura che, a differenza che nelle società occidentali, viene considerata come una persona vivente. Lo stesso vale per la Pachamama, la terra madre delle religioni mesoamericane. A questo punto, non si può non cogliere il valore politico che questa proposta filosofica ha. La possibilità di ripensare il nostro modo di porci nei confronti della realtà, che ha per troppo tempo escluso l’elemento naturale (da intendersi non come l’insieme delle piante e degli animali, ma come tutto ciò che non è moderno), rappresenta un terreno fertile per delle proposte non solo teorico-filosofiche, ma politiche. All’interno di questo ripensamento, disposto quindi ad accettare la convivenza con una dimensione ibrida, originata a partire dall’interazione fra la parte naturale e quella umana, si collocano le riflessioni di molti autori, che, seppur sviluppando differenti punti di vista sulla realtà, partono tutti dal credere a questo dialogo fra l’uomo e la natura[15].

 

Conclusione

In conclusione, partendo dalle novità portate dall’uomo nell’Età dei Lumi, di cui non deve essere negato l’enorme valore avuto nella storia, e considerando il contributo avuto da questo periodo nella formazione della modernità europea originatasi nell’Ottocento, è necessario cogliere anche i limiti di questo processo. In particolare, quest’ultima, nonostante alcune voci discordanti, si è fondata su un preciso modo di pensare il rapporto con l’elemento naturale. In effetti, l’Ottocento ha posto una netta separazione fra ciò che è moderno e ciò che non lo è, finendo per fare in modo che ci fosse un dominio del primo sul secondo. Questo modo di stare in rapporto con l’altra parte (costituita al tempo stesso dalla Foresta Amazzonica e dagli aborigeni australiani, quindi non soltanto da piante e animali, ma da un modo di pensare) ha avuto effetti assolutamente positivi sulle nostre vite, consentendo quello che è stato definito il progresso. D’altra parte, non si può negare la forte crisi ecologica dei nostri tempi, che ha sicuramente mostrato la limitatezza di questa nozione di progresso. Ciò che si è voluto qui mostrare è come l’emergenza climatica che noi tutti stiamo vivendo può avere il punto di partenza per una soluzione nel tentativo di instaurare dialogo con ciò che finora è stato escluso (l’altra parte). Questo non vuole essere solo un modo per fare luce su una possibilità fra le altre, ma questa relazione potrà essere all’origine di un nuovo modo di stare nella realtà: un nuovo modo di vivere. In effetti, accettare una dimensione di dialogo ibrido va di pari passo con una variazione delle nostre vite, che potranno accostarsi a un modo di pensare nuovo, sicuramente non completamente figlio della modernità. I cambiamenti climatici possono essere l’opportunità per cambiare il nostro modo di stare nella realtà. Però, per concludere, la critica al modello occidentale di razionalità non è fatta nel presupposto che esso possa essere messo da parte, infatti è comunque visto come una risorsa indispensabile: un pensiero ecologico, come pensiero della vita, non intende negarlo, ma arricchire, ampliare quel modello.


[1] Germanwatch e. V. meglio conosciuta come Germanwatch, è un’organizzazione no-profit e non governativa tedesca fondata nel 1991 con sede a Bonn, in Germania. Cerca di influenzare le politiche pubbliche in materia di commercio, ambiente, natura e relazioni tra i paesi del nord industrializzato e del sud sottosviluppato.

[2] Mi permetto di consigliare anche le ricerche di OurWorldInData e gli studi della Gapminder Foundation.

[3] Immanuel Kant, Che cos’è l’Illuminismo? trad. it., Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 48-52.

[4] David Deutsch, L’inizio dell’infinito. Trasformazioni che trasformano il mondo, Einaudi, Torino 2013.

[5] Steven Pinker, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso, Mondadori, Milano 2018.

[6] Vincenzo Ferrone, Il mondo dell’Illuminismo. Storia di una rivoluzione culturale, Einaudi, Torino 2019.

[7] Georg Wilhem Friedrich Hegel, Epistolario vol. I. p. 233.

[8] Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni. Prefazione di Giulio Giorello. Edizione Elèuthera, Milano 2009.

[9] Ivi, cit. it. p. 14

[10] Si pensi, in ambito cinematografico, all’opera di Lars Von Trier Melancholia, o 4:44 Last day on earth di Abel Ferrara, o ancora Take shelter di Jeff Nichols, in cui si propone un’idea di Antropocene come epoca dell’Apocalisse.

[11] Si vedano Nick Bostrom, Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategia. Bollati Boringhieri, Milano 2020 o Gerd Leonhard Tecnologia vs umanità. Lo scontro prossimo venturo, Egea, Milano 2019.

[12] Philippe Descola, Par-déla nature et culture, Gallimard, Parigi 2005.

[13] Ivi, cit. p. 285. Trad. it. mia. In breve, il principio di Lèvi-Strauss della concettualizzazione delle discontinuità sociali per mezzo delle discontinuità naturali resta qui inoperante e è dunque verso l’ontonogenesi mitica che è necessario tornare per comprendere le ragioni degli stessi raggruppamenti totemici.

[14] La nature en politique, ou l’enjeu philosophique de l’ecologie. Association Descartes. Éditions L’Harmanattan, Parigi, Cit. lett. p. 84.

[15]Fra questi, si vedano: Dominique Bourg, Mary Douglas, Klaus Eder, Jacques Grinevald, Bernard Kalaora, Niklas Luhmann, Gilles J. Martin, Friedrich Rapp, Philippe Raynaud, Jacques Theys.

Scritto da
Giulio Pennacchioni

Dottorando in Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Si è laureato a Bologna in Scienze filosofiche e ha svolto un periodo di ricerca all’estero presso l’Université Paris-Nanterre. Si occupa di filosofia francese contemporanea, in special modo del lavoro di Merleau-Ponty, di teoria critica ed ecologia politica, quest’ultima trattata soprattutto dal punto di vista del pensiero morale.

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