Recensione a: Philipp Blom, La natura sottomessa. Ascesa e declino di un’idea, Marsilio, Venezia 2023, pp. 352, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Giulio Pennacchioni
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La natura sottomessa è l’ultimo libro di Philipp Blom, pubblicato in italiano da Marsilio a marzo 2023. Philipp Blom, già firma del Financial Times e del The Guardian, con quest’opera vuole offrire al lettore una ricostruzione del rapporto uomo-natura nella storia dell’umanità. La storia culturale è in effetti il tratto caratteristico di molte delle sue precedenti opere, come Il gran teatro del mondo o Un viaggio italiano, editi sempre da Marsilio rispettivamente nel 2021 e nel 2020. La natura sottomessa è diviso in tre capitoli principali: le tre tappe principali che secondo Blom hanno segnato la storia dell’uomo nel modo di vivere e di concepire la natura.
Il primo capitolo, Mito, prende le mosse dall’Epopea di Gilgameš e giunge fino al cristianesimo tardo-medievale. In questa prima tappa, dopo una dettagliata analisi delle immagini del vaso di Uruk e dunque delle pratiche di culto dell’antica Mesopotamia, Blom fornisce al lettore un primo approfondimento sul tipo di rapporto uomo-natura presente ai tempi. La natura, «inorganica, vegetale, animale – occupa i gradi più bassi della gerarchia» (p. 32) e quanto più l’uomo nega la sua dimensione naturale, tanto più si avvicina agli dèi. Al vertice di questa società vi è infatti il concetto di “sacrificio”, perché è attraverso di esso che gli uomini possono influenzare le decisioni divine e, quindi, controllare il mondo naturale e civile. Il problema è che Gilgameš vive nell’epoca postdiluviana, un’epoca in cui è già avvenuta la frattura fra il mondo divino e il mondo umano. «Il primo personaggio della storia letteraria è già un essere imperfetto, un uomo (seppure divino per due terzi) che parte alla ricerca di qualcosa, commette un errore dopo l’altro e paga ogni sbaglio con la sofferenza» (p. 38). Al tempo di Gilgameš, l’Eden è già fiorito e non fiorirà di nuovo. Gli uomini non ricordano più come occorre servire le divinità e nei loro sacrifici non hanno più nulla da offrire, essendo stato tutto spazzato via dal diluvio. Questa idea è alla base anche di altre civiltà, come quella dei Sumeri. Cosa fare, quindi? Quale possibile soluzione? In questo, lo storico Karl August Wittfogel viene in aiuto di Blom, definendo queste prime società, «“società idrauliche”: collettività che praticavano un’agricoltura intensiva resa possibile da un’irrigazione pianificata e organizzata, sempre accompagnata dallo sviluppo di centri urbani, gerarchie sociali rigide ed élite culturali di estrazione militare» (p. 42). Detto in altro modo: non potendo più gli uomini soddisfare gli dèi e dunque controllare il mondo tramite questi ultimi, decidono di diventarne loro stessi i padroni. La stessa idea è anche alla base dei principi della civiltà egizia e persino delle culture della valle dell’Indo. L’asservimento della natura in funzione dei voleri dell’uomo è ciò che forma queste prime civiltà, che infatti, ricorda Blom, non avevano nelle loro lingue neppure una parola per designarla. Nel sumero, nell’accadico, a Uruk e in altri centri urbani della Mezzaluna fertile sono solo gli elementi che compongono la natura a essere percepiti, ma in forme comunque altamente differenziate e solo nella misura in cui attengono agli interessi dell’uomo.
Ma a questo punto una domanda sorge spontanea: è mai esistito un mondo diverso e antecedente a quello di Gilgameš o dei poemi omerici? Un mondo prima della Bibbia e del Mahābhārata? Un mondo antidiluviano? Un mondo che nulla ha a che fare con il palazzo di re Assurbanipal? In effetti sì, spiega Blom, rifacendosi per esempio alla civiltà cretese, poi spazzata via dalla grecità classica, o agli asherim, i pali sacri che simboleggiavano la dea Asherah, poi cacciata dal dio Yahweh. E tuttavia questa “nuova” epoca postdiluviana non va interpretata come un’epoca, per così dire, “barbara”, quanto piuttosto “umana” – “troppo umana”. Troppo umano sembra, agli occhi di Blom, lo stesso Yahweh, il Signore dei Giudei, essere invidioso e vendicativo, ma con grossi progetti per il genere umano. Troppo umane sembrano le Confessioni di Sant’Agostino, dove la lotta di Gilgameš contro la natura esterna è ora rivolta verso quella interna, interiore, di ognuno di noi, tramite il forte strumento della ragione. Già Gilgameš era consapevole che per l’immortalità occorreva imparare a dominare la propria natura, ma fino al vescovo d’Ippona il subicite biblico veniva inteso alla lettera: occupare territori e piegarli con mezzi militari, come gli Ebrei nelle Sacre Scritture. Così, tramite la conversione di Costantino, il retaggio iniziato in Mesopotamia e arrivato fino alle prime predicazioni di Yosef fa guadagnare alla giovane religione un’aura di credibilità: Roma mette a disposizione i suoi muscoli militari. Gli stessi muscoli che guideranno i cistercensi, i benedettini e altri ordini religiosi nel folto paesaggio ancora ricco di foreste dell’Europa medievale. Il cristianesimo si dimostra così la religione più virulenta della tarda antichità. Con l’espandersi e il consolidarsi della dottrina anche l’idea del dominio, un tempo appannaggio del più forte, come Assurbanipal, assurge a compito morale rimesso a ciascun individuo, a mandato divino, direttamente motivato dal peccato originale. E tuttavia, sottolinea Blom, la signoria sull’ambiente naturale è ancora al di là da venire: le possibilità tecniche dell’antichità non sono all’altezza del compito.
Il secondo capitolo, Logos, comincia invece con la descrizione del quadro della Caduta di Icaro di Pieter Bruegel. Il motivo di questa scelta viene dal messaggio che la caduta di Icaro rappresenta. Per quanto sia impossibile attribuire al dipinto un significato univoco, certamente alcune letture sono più plausibili di altre e tutte concordano nell’idea che ciò che Bruegel vuole rappresentare è un’immagine della natura soggiogata. Il quadro di Bruegel è la fotografia di un momento di svolta: fonde insieme alcuni elementi della mitologia antica e della Bibbia con l’arrivo della modernità, che avrebbe trasformato la follia del dominio degli “antichi” in una forza di portata planetaria. Questo è il destino dell’uomo moderno. Ma dove avviene tutto questo? In Europa. Se l’ambizione di soggiogare la natura è nata in Medio Oriente, è in Europa che si realizza. Ma perché proprio in Europa e non in Cina o nell’Impero Ottomano? È attraverso la descrizione di tre quadri che Blom decide di fornirci la sua risposta a questa domanda. Il primo è Le Bassin d’Apollon di Adam Perelle, rappresentazione del parco della Reggia di Versailles e perfetta incarnazione della filosofia naturale di Descartes: «Ogni dettaglio esisteva al solo scopo di esprimere, simboleggiare, glorificare e inscenare la potenza del sovrano» (p. 167), capo indiscusso anche del mondo naturale. Il secondo quadro è Esperimento su un uccello nella pompa pneumatica di Joseph Wright of Derby. Quest’ultimo, affermato ritrattista, trascorre gli anni di maggiore produttività nel Nord dell’Inghilterra. Qui frequenta personaggi come Josiah Wedgwood, pioniere della ceramica industriale, Richard Arkwright, imprenditore del tessile e inventore del telaio pneumatico, Joseph Priestley, chimico e teologo. Nel suo dipinto, Joseph Wright of Derby ci presenta uno sperimentatore nel momento più drammatico della dimostrazione, ma che è comunque un’ulteriore conferma che la vittoriosa crociata della scienza contro la fame, la malattia, la guerra e tutti i mali di questo mondo era iniziata. Il regno della ragione, il principio che per secoli era servito tutt’al più da metafora per indicare l’autocontrollo umano e la repressione dei desideri, sembrava improvvisamente a portata di mano. È infine il quadro Pioggia, vapore e velocità di William Turner a chiudere questo secondo capitolo. La locomotiva che sfreccia a gran velocità sopra il ponte ferroviario, lasciandosi alle spalle il paesaggio naturale, è il trionfo della modernità tecnologica. Questa volta l’eroe vola su binari d’acciaio e non, come Icaro, su ali di cera. Di conseguenza si spiegano opere come il kolossal di Fritz Lang Metropolis (1927), la pièce teatrale Rossum’s Universal Robots di Karel Capek (1920) o ancora Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936). Nel mondo razionale e razionalizzato della modernità non è più Dio a comandare, a imporre il proprio volere in terra. Dio è uscito di scena, ma, ci ricorda Blom, la nostalgia nei suoi confronti resta. Più forte sembra tuttavia la promessa del progresso, una Gerusalemme celeste, un’epoca di pace perfetta, perché un domani, grazie alla scienza, la fame, la povertà e la guerra sarebbero state un lontano ricordo. Ma com’è andata veramente?
Nel terzo capitolo, Cosmo, Blom si dedica proprio al tentativo di rispondere a questa domanda. «È destino del genere umano rivendicare per sé la totalità del globo» (p. 262), scriveva nel 1928 John A. Widtsoe, direttore dello U.S. Federal Bureau of Reclamation. Lev Trockij, allo stesso modo, riferendosi all’“uomo socialista” post-rivoluzionario, scriveva: «Sarà lui a stabilire dove sorgeranno montagne e valichi. Modificheremo il corso dei fiumi e piegheremo gli oceani alle nostre regole» (p. 262). E, per certi aspetti, sembrerebbe effettivamente essere andata così. Su questo, basti pensare a opere come la Diga di Assuan in Egitto, alla Hoover Dam statunitense, alla Diga delle Tre Gole in Cina. Ma, ci ricorda Blom riferendosi a Gli apprendisti stregoni[1]di Robert Jungk, a tutto questo è corrisposta anche la distruzione di Hiroshima e Nagasaki, spazzate via dalle esplosioni nucleari. Detto in altro modo: alla fine della storia di Fukuyama, panacea di tutti i mali, è corrisposta anche la cosiddetta “mazza da hockey” del climatologo Michael E. Mann. La dinamica di un’economia globale il cui benessere e la cui stabilità dipendono da una crescita costante proiettata all’infinito ha quindi implicato anche che sull’insieme del pianeta venisse disboscata ogni minuto un’area pari a trenta campi da calcio. Mentre i profeti della Silicon Valley profetizzano la creazione di universi paralleli digitali o la colonizzazione di altri pianeti, in Groenlandia si sciolgono un milione di tonnellate di ghiaccio ogni minuto circa. Dov’è, quindi, la Gerusalemme celeste? Scrive Blom: «Una certa postura esistenziale – l’atteggiamento di un dominatore che da tremila anni regnava incontrastato – ha iniziato a danneggiarci, e anche questo è un segno della crisi psicologica e cognitiva indotta dalla catastrofe climatica. Oggi tutto un arcipelago di società umane, orfane di vecchi strumenti conoscitivi, si trova a fare i conti con un mondo non più familiare» (p. 322).
Che fare, dunque? Ed è in realtà il titolo stesso di quest’ultimo paragrafo a offrire al lettore un suggerimento. Cosmos è infatti anche il titolo del libro che per tutta la vita il naturalista Alexander von Humboldt ha progettato di scrivere. Il suo obiettivo era quello di pensare la natura, ma non nel senso cartesiano di un oggetto esterno e separato dalla vita dell’uomo. Al contrario, questa si rivelava ai suoi occhi troppo colossale, troppo mutevole e troppo complessa per poter essere compresa nella sua interezza e dunque dominata. Non intesa come un tutto, quindi, ma piuttosto esperita nelle sue molteplici manifestazioni empiriche. È la stessa fisica dei quanti di Carlo Rovelli, in effetti, a scardinare ormai del tutto quella “vecchia” immagine della natura, che è tuttavia quella ancora più diffusa a livello di percezione comune. «Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare»[2], fa dire Nietzsche al suo Zarathustra. E se quel Dio fosse quello di Spinoza danzerebbe sul serio, perché nel tutto della natura c’è sempre qualcuno che danza con qualcun altro: una danza di tutte le molecole, di tutte le particelle elementari, di tutta la materia. Questa è la via proposta da Philipp Blom nella sua ultima opera. Come? Teoreticamente, tracciando una “linea rossa” che dagli antichi atomisti greci arriva a Spinoza, Diderot, passando per il poeta latino Lucrezio, per Montaigne, e che giunge infine agli studi sui funghi di Merlin Sheldrake e al nuovo approccio alla genetica dello Human Genome Project. Praticamente? Su questo, purtroppo, Philipp Blom non si esprime e, in effetti, servirebbe come minimo un altro libro per poter provare a rispondere. E tuttavia La natura sottomessa ci lascia in aiuto una breve citazione del barone d’Holbach, il quale amava ripetere che l’uomo (anche l’uomo, verrebbe da dire) è «opera della natura». Forse solo in un paesaggio come quello di Uruk poteva nascere l’idea del dominio, la pretesa di piegare la natura; oggi la catastrofe climatica incombente configura però la necessità di ripensare in forme nuove il rapporto. Il grande merito del libro di Blom non è solo quello di far presente tale necessità, ma anche quello di provare a fornire un’ipotesi di cammino, seppur solo teorica. L’inizio, comunque, per una possibile pratica.
[1] Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni. Dilemmi e contraddizioni degli scienziati nucleari, Edizioni Pgreco, Roma 2016.
[2] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Id., Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, t. 1, Adelphi, Milano 1968, p. 43.