Scritto da Andrea Spignoli
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In un anno di grande fervore intellettuale e di sconvolgimenti culturali quale fu il 1968, Paulo Freire concludeva La pedagogia degli oppressi, un capolavoro di teoria pedagogica straordinariamente attuale ancora oggi.
In quello che può essere considerato una sorta di manifesto della sua visione dell’educazione, Freire ci consegna in eredità un messaggio il cui preciso intento viene chiarificato solamente nelle ultime righe del suo lavoro: «Se nulla resterà di queste pagine, speriamo che resti almeno la nostra fiducia nel popolo. La nostra fede negli uomini e nella creazione di un mondo dove sia meno difficile amare». In queste poche parole vengono richiamati due concetti fondamentali che si trovano ampiamente trattati nel libro, ovvero la fiducia e l’amore. Il primo rappresenta per Freire l’elemento essenziale della sua pedagogia, ovvero l’imprescindibile rapporto di fiducia che deve esservi fra educatore e educando: unico fattore in grado di portare a un cambiamento – auspicato da Freire – della relazione che intercorre fra i due. L’autore distingue infatti tra due archetipi di educazione, l’una denominata “depositaria” e l’altra “problematizzante”. La prima rappresenta l’educazione di stampo classico, quella a cui tutti siamo abituati, dove l’educatore deposita la propria conoscenza negli educandi, il cui compito è quello di immagazzinare e ricordare quanto più materiale possibile. Non stimolati alla creatività né alla critica, bensì addestrati a rispettare l’ordine del sistema che li opprime, nella scuola prima e nel lavoro poi. Quanto maggiore sarà la passività loro imposta, tanto più sarà per loro agevole adattarsi al mondo e trovare la propria forma di “ingranaggio” per servire al meglio la macchina produttiva. L’educazione diviene quindi pratica di dominio al servizio degli oppressori e non sembra esserci spazio alcuno per la trasformazione o l’invenzione.
Dall’altro lato, la concezione problematizzante parte da un assunto completamente diverso. Mentre educa l’educatore stesso viene educato, così come l’educando educa mentre viene educato. L’educatore non è più fonte unilaterale del sapere, bensì pone nella materia da conoscere il «luogo di incidenza della riflessione sua e degli educandi». Gli educandi divengono così ricercatori critici in dialogo con l’educatore, sono messi nella posizione di creare e migliorare, verso la finalità ultima di rendere il mondo più “umano”.
Condizione necessaria di questo tipo di dialogo, secondo Freire, è il secondo elemento cui si richiama nelle ultime righe del libro: l’amore. Amore per il mondo e per gli uomini, impossibile da ritrovare in una situazione di oppressione e per questo unico autentico motore per qualunque rivoluzione. In una nota a piè di pagina si trova una splendida considerazione dell’autore il quale annota che «il logorio cui è sottoposta la parola amore nel mondo capitalista non può far sì che la rivoluzione rinunci ad essere amorosa». L’autore è quindi perfettamente conscio delle possibili accuse di inguaribile romanticismo che quel termine avrebbe portato con sé. Ma tanto quanto è rivoluzionario nei fini, Freire lo è nelle premesse: riportare l’amore a forza motrice del mondo, tornare ad amare per tornare uomini. La parola rivoluzione non riscuote oggi la stessa popolarità di allora, quando invece tutta l’America del Sud era ancora sotto shock per il successo della Rivoluzione cubana, che ha rappresentato uno spartiacque nella storia di emancipazione dagli Stati Uniti nel XX secolo. In questo libro sono in effetti evidenti le influenze intellettuali, testimoniate dalle varie menzioni alle teorie e strategie rivoluzionarie di Castro e Guevara, cui l’autore brasiliano, come tanti all’epoca, aveva guardato con stima e interesse.
Così come vari sono i riferimenti all’universo politico comunista-marxista, dalla prospettiva della coscienza di classe a quella della rivoluzione di massa, che, se ad una prima lettura potrebbero far dubitare dell’originalità della teoria assimilandola ad una sorta di applicazione del comunismo alla sfera pedagogica, alla fine del libro invece appaiono piuttosto come semplici riscontri di affinità teoriche, cui l’autore si richiama per trovare con il lettore un linguaggio filosofico comune.
Ad avvalorare la percezione di chi scrive c’è un passaggio nella narrazione della sua pedagogia dove Freire spiega come l’impegno di chi vuole liberare gli oppressi non possa essere quello di consegnare alle masse un messaggio salvifico, attraverso un’operazione solo culturale, seppur fatta con le migliori intenzioni. Si tratta invece di scoprire con esse la realtà oggettiva in cui sono immerse, portarle ad avere coscienza della propria oppressione, e solo dopo elaborare con esse il contenuto della propria educazione, che sarà basato sulle aspirazioni del popolo. Si tratta di portare il popolo ad un’autocoscienza rispetto alla sua stessa condizione esistenziale e con esso problematizzarla. Nulla a che vedere quindi con certe imposizioni culturali legate a matrici comuniste, figlie di quella stessa concezione depositaria dell’educazione che Freire vorrebbe vedere superata. Il messaggio è perciò quello di parlare con il popolo della sua propria visione, in uno scambio reciproco ben lontano dalle logiche di imposizione e manipolazione. Freire conclude infatti: «Dobbiamo convincerci che la sua [del popolo] visione del mondo […] riflette la sua situazione nel mondo». Se letto con la dovuta attenzione, l’impatto di questa frase è notevolissimo. Racchiusa in questa riga c’è l’essenza della democrazia, il minimo comun denominatore istituzionale, ultimamente così spesso rimesso in discussione da chi vorrebbe cancellarlo in virtù di un principio di scientificità della politica, di tecnicizzazione della vita pubblica che aspira a veder rappresentati solo i “degni di voto” e amministrati gli altri.
Il focus di Freire, inoltre, risiede nell’educazione, e non nella “guerriglia”. Il suo manuale rivoluzionario – ci tiene a spiegare – è il frutto di decenni di ricerche sul campo e di esperienze in prima persona come educatore. Ciò è evidente anche nella minuzia con cui egli redige un capitolo di esempio di un modello educativo problematizzante, dettagliato in ogni sua fase e sezione, nel contesto di un corso professionale. Per quanto convincente, però, il lettore di oggi potrebbe rimanere deluso nel non trovare una teoria di rivoluzione dell’intero sistema educativo. Seppur dotati di tutti gli strumenti intellettuali forniti dall’autore, risulta alquanto complicata la traslazione del suo modello a, per esempio, il nostro sistema universitario. Egli specifica che ogni rivoluzione pedagogica verso l’educazione problematizzante deve tener conto di alcuni fattori fondamentali: le circostanze storiche, il contesto culturale e il grado di coscienza del proprio stato di oppressione che presentano gli oppressi. Per queste ragioni è fondamentale che ogni piano di liberazione sia diverso dagli altri, che ognuno sia adatto e adattato in funzione del contesto dove deve agire e in armonia con i tempi. Non è permesso quindi commettere l’errore di applicare semplicemente gli stessi fattori che l’autore utilizza per il suo esempio a quelli di un contesto così vasto come quello universitario. Molto più facilmente, però, il lettore può trovare degli spunti interessanti per cogliere, se esistono, le proprie sfere di oppressione.
Chi scrive vede nella teoria di Freire due nodi fondamentali in merito allo stato degli oppressi. Il primo riguarda la loro percezione di sé, mentre il secondo è paragonabile a ciò a cui già Platone si riferì col suo mito della caverna, e riguarda la paura della libertà. Come riportato dall’autore, è emblematico il caso di come storicamente molti schiavi, una volta ottenuta la libertà dal padrone, siano divenuti oppressori ancora più crudeli dei precedenti. Ciò è dovuto al fatto che un oppresso viene indirettamente educato dall’oppressore ad essere come lui, ma nella condizione opposta. Gli oppressi vengono indottrinati continuamente e indirettamente al mondo degli oppressori, e, identificando in loro l’oggetto delle proprie aspirazioni, gli oppressi vedono come massima realizzazione dell’individuo l’essere oppressore, in quanto unico metro di paragone. Gli oppressi finiscono così per desiderare quello che desidera l’oppressore, per adottare gli stessi criteri che egli utilizza; la contraddizione esistenziale che si trovano a vivere gli oppressi è quella di non avere altri riferimenti di umanità se non quelli dell’oppressore, identificando l’essere uomo con l’essere oppressore. Con le parole di Freire, divenire un “uomo nuovo” per l’oppresso non significa liberarsi e uscire dalla propria contraddizione esistenziale, umanizzare il mondo e cambiarne i paradigmi, ma divenire oppressore a sua volta. E qui il collegamento con il secondo aspetto fondamentale cui si faceva riferimento: spesso gli uomini oppressi, anche qualora avessero coscienza della propria oppressione, temono la libertà, poiché con la libertà si accompagna necessariamente un processo di completa ridiscussione di sé. L’uomo nuovo che nasce dal processo di liberazione è un uomo che è riuscito a prendere coscienza della propria condizione di oppressione, e che di lì ha iniziato un percorso di liberazione personale dall’oppressore che è dentro di sé, in dialogo con gli altri ma autonomo nella propria realizzazione. L’uomo nuovo deve avere il coraggio di trovare da sé la propria visione del mondo, libero da imposizioni, desiderando da sé ciò che lo realizza, libero dai paradigmi dell’oppressore. Allo stesso modo, chi guida il processo di liberazione deve prestare attenzione a non imporre semplicemente una nuova coscienza rivoluzionaria, che finirebbe solo per invertire gli oppressi con gli oppressori in una nuova situazione di oppressione. Bensì deve lasciare che gli oppressi arrivino da soli a percepire la necessità di ribellarsi e rendersi finalmente uomini liberi.
In questo spazio non si poteva racchiudere certo tutta la complessità del pensiero di Paulo Freire, che in La pedagogia degli oppressi ha descritto con estrema lucidità la condizione che nell’epoca contemporanea potrebbe essere ricalcata benissimo su tutti noi: individui che nascono, crescono, studiano e cercano lavoro con il solo criterio di trovare quel posto dove le proprie caratteristiche possano servire il sistema al meglio. Laddove non c’è creatività, dove non c’è margine di innovazione, non c’è umanità, non c’è vero apprendimento. L’attualità di questo libro è quanto mai chiara nelle società con livelli molto bassi di upscaling economico-sociale, ovvero dove gli individui vivono e muoiono nelle stesse condizioni economiche e sociali in cui sono nati. Dove i figli degli operai non diventeranno mai dirigenti e i figli dei manager non saranno mai operai. Tuttavia, come Freire stesso ci ha invitato a fare, se anche nessuno di questi insegnamenti dovesse sortire qualche effetto, quanto meno che, prendendone atto, ci sia meno difficile amarci.