La periferia: da zona di degrado a motore propulsivo del territorio?
- 03 Febbraio 2023

La periferia: da zona di degrado a motore propulsivo del territorio?

Scritto da Angelo Laudiero

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Il discorso pubblico ha spesso identificato i principali caratteri delle periferie delle grandi aree urbane in termini e accezioni negative. Certo, tali peculiarità caratterizzano la periferia ma non sono un’esclusiva di questa parte di città tagliata fuori dallo sviluppo urbano e avvolta da una condizione di provvisorietà e transitorietà nell’attesa di diventare città consolidata.

La città contemporanea deve la sua struttura e il suo funzionamento alla logica della mobilità, eppure gli abitanti delle periferie non riescono ad allontanarsi da queste aree urbane – per svariati motivi – rivendicando maggiore qualità urbana, diritti, opportunità educative e occupazionali e una concreta partecipazione sociale e politica che raramente si trovano in periferia. Ma è proprio da questa denuncia e da questa rivendicazione che può nascere la reinvenzione non solo della periferia ma della città tutta.

In effetti, questo processo è sempre stato in atto all’interno delle periferie: i cittadini sono costretti a reinventare la città in termini di relazioni, percorsi, occupazioni dello spazio, sopperendo alla mancanza di quei caratteri tradizionali della città, modificando e adattando i propri comportamenti quotidiani alla nuova realtà urbana della periferia.

In tal senso, negli ultimi anni si è assistito sempre di più a fenomeni di mobilitazione spontanea da parte di gruppi di cittadini che sono riusciti, in parte, a riqualificare gli spazi del vivere e dell’abitare: una tendenza verso quelle forme di autogoverno dei gruppi urbani spinti dall’esigenza e dal desiderio di rappresentare e realizzare i propri diritti di cittadini e a soddisfare le proprie esigenze di abitanti.

Oggi, però, questo non basta più. Le persone si sono abituate a vivere in periferie eterogenee che uniscono una sostanziale assenza di spazi pubblici di relazione a una provvisorietà che ne accentua il carattere di periferia. Ma proprio da questa condizione di precarietà, possono nascere nuovi concetti di abitare, di città, di periferia, tesi a mettere in atto delle pratiche che migliorino in maniera sensibile la qualità del vivere, dell’ambiente e delle relazioni sociali e che uniscano più soggetti – pubblici, privati, civili, del terzo settore – verso la realizzazione di progetti di rigenerazione urbana che guardino principalmente al benessere socio-economico dei residenti.

 

Il caso studio: la periferia orientale di Napoli

La periferia orientale di Napoli – la sesta municipalità formata dai quartieri di Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio – è un interessante caso di studio sulla condizione di molte periferie italiane: aree della città lontane fisicamente, economicamente, socialmente e politicamente dal centro, spesso abbandonate a contesti di degrado, inquinamento, criminalità e indifferenza, ma con iniziali progetti di recupero e riqualificazione dopo anni di sfruttamento industriale ed edilizio di cui oggi restano ancora macerie, impianti dismessi e complessi residenziali fatiscenti.

Nel diciassettesimo secolo, questo territorio era già stato identificato come area periferica rispetto al centro città, principalmente a causa della costruzione di specifiche infrastrutture che implicarono un’iniziale separazione fisica e che la trasformarono in un sito di produzione e di sfruttamento di risorse. Nel diciottesimo secolo, poi, la presenza del fiume Sebeto implicò la costruzione di nuovi mulini, facendo dell’area una riserva idrica, ma anche un territorio caratterizzato dalla produzione di cereali e dalla concentrazione di concerie. A metà secolo, la modernizzazione dell’area portuale che aveva favorito i traffici e i commerci portò alla costruzione dei primi impianti produttivi che funsero da granai, arsenali e fabbriche di cordami: Napoli Est aveva ormai assunto il volto di un’area industriale, cambiando definitivamente la sua relazione con il centro città[1].

Nel diciannovesimo secolo, nuove infrastrutture (la stazione ferroviaria di Napoli nel 1861; la prima linea ferroviaria d’Italia, la Napoli-Portici, nel 1839; la prima autostrada del nuovo Regno d’Italia, la Napoli-Pompei, negli anni Trenta del Novecento), determinarono un’ulteriore separazione dell’area e l’assunzione definitiva di un aspetto industriale caratterizzato da opifici, acciaierie, fonderie e concerie. Per soddisfare le necessità dei nuovi residenti, gli operai, a partire dal 1904 vennero realizzati progetti basati sul principio di separazione che segregarono la popolazione locale in quartieri industriali fatiscenti e insalubri. Proprio la legge speciale del 1904, intitolata “Provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli”, orientò il processo di industrializzazione verso le grandi industrie, determinando importanti cambiamenti nell’area, specialmente per l’apertura di nuovi impianti chimici, farmaceutici e, negli anni Trenta, di raffinerie di petrolio. Tuttavia l’espansione urbana aumentò la promiscuità tra i complessi residenziali e gli impianti industriali, contribuendo all’ulteriore isolamento dell’area rispetto al resto della città. Tale situazione si protrae ancora oggi in un territorio contraddistinto da aree residenziali di infima qualità e spazi industriali ormai dismessi.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il “Piano di Ricostruzione” del 1946 adottò una soluzione temporanea per la periferia orientale di Napoli: la ricostruzione di industrie locali fu incoraggiata, ma la creazione di nuovi impianti fu concessa solo nelle aree di Bagnoli e di Secondigliano. La complessa ricostruzione post-bellica, comunque, fu giustificata dalla priorità delle emergenze economiche e abitative, comportando la costruzione caotica dei complessi residenziali nelle immediate prossimità degli impianti industriali e delle nuove infrastrutture[2]. Negli anni Sessanta, tuttavia, l’ultima fase del processo di industrializzazione si era ormai realizzata, presentando i primi segnali di decadenza industriale che saranno evidenti a partire dagli anni Settanta e ancor di più negli anni Ottanti: l’incendio di un impianto di raffineria nel 1985 e la chiusura degli stabilimenti Feltrinelli (produzione di legno) segnarono l’inizio del declino dell’area che si protrarrà per tutti gli anni Novanta.

Successivamente, sulla base della legge 426/1998 che definì quest’area come sito di bonifica di interesse nazionale a causa dell’elevato rischio ambientale, il “Piano Strategico” del 2004 orientò la trasformazione e la riqualificazione dell’area industriale in un moderno sistema produttivo di beni e servizi. Questa conversione implicava il necessario miglioramento della qualità ambientale, la delocalizzazione dei pericolosi impianti petrolchimici (in particolare quelli di stoccaggio del petrolio che toglievano spazio ad attività più qualificate) e la riorganizzazione del sistema infrastrutturale e logistico. Inoltre, il Piano proponeva una sinergia tra lo sviluppo del settore terziario e il riuso delle aree liberate dagli impianti industriali. Esso si basava anche su una rigenerazione “creativa” dello spazio periferico che poteva essere attivato da potenzialità locali e dall’auto-promozione sociale attraverso strumenti quali una nuova imprenditorialità culturale, migliori servizi ai cittadini, centri sociali e culturali, maggiori livelli di sicurezza e il rilancio di network produttivi attraverso una “Zona Urbana Libera” caratterizzata da benefici fiscali per piccole e micro imprese che avessero localizzato la propria attività economica nella periferia orientale.

Ciò nonostante, la prova del fallimento di questo ambizioso progetto di regolazione urbana è la presenza tuttora evidente dei cosiddetti future fossils[3], cioè infrastrutture, impianti chimici, magazzini abbandonati, che ancora attendono una strada di riconversione. Una prova ulteriore è la mancata realizzazione di un porto turistico lungo la costa, dopo l’acquisto degli impianti della Corradini (produzione metallurgica) da parte del Comune nel 1999 e successivamente concessi a società private. Altro esempio eclatante della mancata riconversione di Napoli Est è quello della centrale elettrica di Vigliena, enorme spazio inizialmente destinato a diventare un acquario e che è poi stato adattato a terminal portuale per container nel 2002. Lo stesso discorso vale per gli impianti petrolchimici: gli spazi dovevano essere bonificati e riconvertiti in aree di verde pubblico, di servizi abitativi e di attività legate al terziario, ma tuttora versano in stato di completo abbandono.

Negli ultimi anni, un nuovo piano strategico è stato sviluppato per Napoli Est: il “Grande Progetto Riqualificazione Urbana Area Portuale Napoli Est” faceva parte del “Piano Operativo Regionale 2007-2013” e ha allocato investimenti finanziari per oltre 200 milioni di euro nel sistema infrastrutturale dell’area attraverso una partnership pubblico-privata[4]. Anche in questo caso, però, dietro ai discorsi retorici e trionfalisti sulla cooperazione verso interessi collettivi, gli obiettivi della partnership sono rimasti legati a interessi economici privati, soprattutto del mercato immobiliare. Infatti, la presenza di pochi attori privati, la difficoltà nel coordinare le istituzioni pubbliche coinvolte (Comune di Napoli e Regione Campania) e la chiusura verso possibili contributi di attori esterni (come la comunità locale) hanno portato al naufragio del “Grande Progetto”, specialmente nella produzione di nuove idee che potessero soddisfare la domanda crescente di qualità urbana e sociale. Il risultato è stato ancora una volta lo stesso: una situazione di immobilizzazione che non permette di avviare un circolo virtuoso tra rigenerazione urbana e sviluppo socio-economico della periferia orientale di Napoli.

Sostanzialmente, l’incapacità di riconvertire impianti industriali abbandonati, l’incertezza nell’utilizzo degli spazi, la promiscuità tra piccole fabbriche, magazzini, complessi residenziali, scuole, attività commerciali, ecc., sono tutti elementi che ancora determinano la situazione attuale della periferia orientale. Nella sua lunga storia, questo territorio non ha mai avuto esperienze concrete di relazione diretta con la “città compatta”[5], nonostante la sua vicinanza al porto, all’aeroporto, alle connessioni stradali e ferroviarie e sebbene sia di importanza strategica nel sistema logistico urbano e regionale[6].

Ed è proprio questa centralità che potrebbe potenzialmente portare Napoli Est a diventare un’area post-metropolitana[7], implicando il passaggio da modello di urbanizzazione metropolitana a modello di sviluppo regionale. In effetti, nonostante i fallimenti passati e presenti nei progetti di sviluppo, la periferia orientale di Napoli rimane uno straordinario esperimento territoriale in quanto punto d’incontro di diversi sistemi urbani che necessitano un urgente processo di rigenerazione fisica, sociale ed economica: innanzitutto, la conversione degli impianti e degli spazi abbandonati, il completamento delle reti infrastrutturali, la bonifica dei terreni ad alto rischio ambientale[8]. Ciononostante, questa parte di città continua a mancare in termini di relazioni territoriali, funzionali e sociali con il centro città, protraendosi la crisi dello spazio pubblico urbano non più concepito come luogo di costruzione e rafforzamento dell’identità collettiva, ma come spazio residuale e frammentato[9]. Attualmente, la periferia orientale di Napoli somiglia di più a una “terra di nessuno”[10] nella quale la qualità della vita è molto bassa come testimoniato da tutti gli indicatori sociali, economici e culturali che mostrano come attività illegali, abusivismo edilizio, inquinamento, disoccupazione, povertà educativa ed economia sommersa siano elementi difficili da sradicare.

Eppure la storia recente testimonia una voglia di riscatto per quest’area di Napoli. Un iniziale processo di rigenerazione urbana, infatti, muove i suoi primi timidi passi, mostrando però segnali e prospettive interessanti. A tentare di ricucire il tessuto di una periferia post-industriale con il centro di una vasta area metropolitana, è stata la scelta strategica dell’Università Federico II, di cui all’epoca era rettore l’attuale sindaco del capoluogo campano Gaetano Manfredi, di portare Academy di Apple, Cisco, Deloitte e Aspi nel nuovo polo di San Giovanni a Teduccio, tentando così l’insediamento di un motore propulsivo di cultura, tecnologia e sviluppo nel laboratorio urbano di Napoli Est. Il successo del polo tecnologico di San Giovanni a Teduccio è emblematico della strada che deve percorrere l’area orientale di Napoli per portare avanti un serio processo di rigenerazione urbana: ricucire questo pezzo di città attraverso l’interazione tra aziende, istituzioni, residenti, terzo settore, università, perché luoghi con aree dismesse possano essere luoghi attrattivi dove vivere, studiare, lavorare e innovare a partire dall’ascolto del territorio.

 

Conclusione

Il caso studio della periferia orientale di Napoli fa capire come una seria rigenerazione urbana non possa prescindere da una rigenerazione sociale che ripensi i territori come luoghi che si sviluppano intorno alle persone, anche con progetti che partano dal basso e che coinvolgano imprenditori, docenti, professionisti e residenti. L’asse di questa nuova visione ruota intorno alla conoscenza, all’ascolto, al fare rete e al mettere le competenze di diversi attori al servizio di progetti che trasformino le aree periferiche in cerniere con la città consolidata.

È chiaro che il punto centrale di questa nuova visione deve comunque essere quello di focalizzarsi sulle istanze reali dei residenti: scarsa qualità insediativa, assenza di servizi e di attrezzature di uso pubblico, mancanza di luoghi di aggregazione e di identità locale, frammentazione dello spazio, illegalità, disoccupazione, abbandono scolastico e delinquenza sono i primi e più evidenti segnali di degrado di molte periferie italiane.

Questo malessere urbano può essere contrastato da una programmazione territoriale e urbana che costituiscono la base per il buon governo del territorio. Una programmazione che, però, preveda un sistema complementare dove la partecipazione e la condivisione garantiscano la qualità delle decisioni. Evidentemente, il problema più grande da risolvere è proprio questo: l’assenza di un processo decisionale che coinvolga davvero tutti gli attori in campo – in primis i cittadini interessati – che accenda un dibattito sincero sui temi della città e del territorio. È una rinascita che deve necessariamente partire dal basso, dove c’è ancora qualcuno interessato a modificare lo stato delle cose.


[1] M. Musto, Segni permanenti nell’evoluzione dell’area industriale di Napoli Est, in M. Amirante (a cura di), Effettocittà stare vs transitare. La riqualificazione dell’area dismessa di Napoli Est, Alinea Editrice, pp. 111-116, Firenze 2009.

[2] L. Pagano, Periferie di Napoli. La geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica, Aracne Editrice, Roma 2012.

[3] M. Russo e R. Lucci, Napoli verso Oriente, Clean Edizioni, Napoli 2012.

[4] C. Avolio, Pubblico e Privati nei Processi di Riqualificazione Urbana a Napoli, in G. Punziano (a cura di), Società, Economia e Spazio a Napoli. Esplorazioni e Riflessioni, Gran Sasso Science Institute, Working Papers, pp. 53-66, 2016.

[5] M. Musto, Segni permanenti nell’evoluzione dell’area industriale di Napoli Est, in Amirante M. (a cura), Effettocittà stare vs transitare. La riqualificazione dell’area dismessa di Napoli Est, Alinea Editrice, pp. 111-116, 2009.

[6] E. Forte, F. Iannone e L. Maisto, Logistica economica e aree dismesse: aspetti generali del problema e analisi di accessibilità dell’area orientale di Napoli, Società Italiana degli Economisti dei Trasporti, IX Riunione Scientifica, Napoli, 3-5 ottobre 2007.

[7] E. Soja, Regional urbanization and the end of the metropolis era, The New Blackwell Companion to the City, Wiley-Blackwell, Hoboken 2012.

[8] M. Lanzi, Drosscape e reti di nuova urbanità nell’area orientale di Napoli, in Punziano G. (a cura di), Società, economia e spazio a Napoli. Esplorazioni e riflessioni, Gran Sasso Science Institute, Working Papers, pp. 37-48, 2016.

[9] B. Vendemmia, Interpretazioni dello spazio pubblico, in M. Russo e R. Lucci, Napoli verso Oriente, Clean Edizioni, pp. 185-197, Napoli 2012.

[10] F. Veenstra, Infrastrutture e progetto urbano, in Amirante M. (a cura), Effettocittà stare vs transitare. La riqualificazione dell’area dismessa di Napoli Est, Alinea Editrice, pp. 13-18, Firenze 2009.

Scritto da
Angelo Laudiero

È laureato magistrale in Scienze Politiche presso l’Università “Orientale” di Napoli. Dopo diverse esperienze di lavoro in Italia e all’estero, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Sviluppo Locale presso l’Università di Trento, con una tesi su innovazione sociale e attività culturali nei processi di rigenerazione urbana delle periferie. Contatti: a.laudiero1@libero.it.

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