Scritto da Leonardo Palma
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Non sono questi tempi qualsiasi per riflettere sulla Prima guerra mondiale. Dopo aver osservato lo scorso inverno i cingoli dei carrarmati impantanarsi nuovamente nel fango misto a neve delle pianure dell’Europa orientale, il piacere della discussione storica scolorisce di fronte alla vertigine della comparazione. Lo studio della storia non può ridursi ad un approccio banalmente attualizzante ma non sembra nemmeno possibile negare che la storia, se non ripete, va in rima. L’elemento che provoca oggi la maggiore assonanza con il giugno del 1914 è quello della complessità. Come ebbe a dire la scrittrice Rebecca West riflettendo sull’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando durante una vacanza a Sarajevo nel 1936, il problema nel capire lo scoppio della Grande Guerra non è l’assenza di elementi ma la loro abbondanza. Tra qualche anno, durante una passeggiata in piazza Maidan a Kiev, se non sarà stata rinominata piazza Russia Unita, si potrà forse dire lo stesso.
La complessità si traduce nella dispersione dei punti di vista ricordandoci un aspetto talvolta sottovalutato dagli studi sulla Prima guerra mondiale, quello delle interazioni multilaterali tra cinque potenze di pari importanza a cui si aggiungevano una serie di protagonisti minori ma strategicamente rilevanti e capaci di esprimere un certo grado di autonomia decisionale nel perseguimento di interessi particolari. Una crisi altrettanto intricata come quella dei missili di Cuba nel 1962 ebbe solo due protagonisti principali, alcuni coprotagonisti e poche comparse. La pluralità di soggetti nella Grande Guerra ha prodotto invece una pluralità di fonti (nell’ordine di migliaia di documenti, testimonianze, diari, memorie) che permettono a pressoché qualsiasi interpretazione storiografica di sostenere con sufficiente sicurezza il proprio punto di vista. Ma proprio la questione della molteplicità delle prospettive solleva ulteriori domande sui limiti che una ricostruzione di eventi complessi deve accettare di incontrare. Qualche anno fa chi scrive vide a teatro Copenaghen, opera del drammaturgo britannico Michael Frayn che racconta la visita che il fisico tedesco Werner Heisenberg fece al suo maestro Niels Bohr nella Danimarca occupata del 1941. Poiché nessuno sa cosa si siano detti ma solo che quello fu il loro ultimo incontro prima che Heisenberg iniziasse a lavorare al programma nucleare tedesco e Bohr a collaborare al progetto Manhattan, Frayn ne ha ricostruito la storia giocando proprio con i paradossi della meccanica quantistica. Il principio di indeterminazione di Heisenberg postula infatti che di una particella possiamo conoscere alternativamente il suo spin, cioè il momento angolare intrinseco, o la sua posizione. Non entrambe. Dell’incontro di Copenaghen possediamo quindi tre versioni diverse: quella di Bohr, quella della moglie Margrethe e quella di Heisenberg. Nessuna di loro è quella vera, ma tutte lo sono a modo loro. La questione dello scoppio della Prima guerra mondiale cade sotto la stessa intuizione. Forse, tutta la storia andrebbe studiata tenendo a mente, senza esagerare, un poco di meccanica quantistica.
In un libro straordinario di qualche anno fa, lo storico australiano Christopher Clark ha suggerito di studiare come si arrivò alla guerra e non perché. Sebbene siano due problemi logicamente inseparabili, nondimeno essi conducono in direzioni diverse. Il come considera infatti le interazioni che produssero certe conseguenze e non altre, mentre il perché ci porta a ricercare le cause remote in categorie precise che, sebbene restituiscano innegabile chiarezza analitica, tuttavia rischiano di generare in prospettiva effetti distorsivi. Esse danno l’impressione di essere di fronte ad un semplice accumulo progressivo di fattori rispetto ai quali gli attori politici divengono meri esecutori di forze al di fuori del loro controllo. Al contrario, coloro i quali ebbero la responsabilità delle decisioni si avvicinarono al baratro con passi calcolati e nella piena consapevolezza dei propri obiettivi. Erano, in altre parole, capaci di riflettere su quanto stavano facendo e formularono le loro valutazioni sulla base di informazioni che in quel momento possedevano. Un aspetto fondamentale per comprendere come si arrivò alla guerra è proprio la dinamica di persistente incertezza riguardo alle intenzioni di amici e nemici. Il fluire del potere tra fazioni e centri decisionali diversi, lo scontro interno a partiti, coalizioni e tra responsabili istituzionali, il peso sempre crescente delle opinioni pubbliche nelle società europee rendevano sempre più difficile la lettura dei rapporti di potere interni ai governi stranieri e dunque le loro intenzioni. Un problema che fa ben capire l’importanza di avere una buona diplomazia e un altrettanto buona intelligence per gli Stati. La tesi dell’incertezza è ampiamente condivisibile, sebbene sia riduttivo negare che alcuni protagonisti ebbero a comportarsi come l’apprendista stregone, il quale evoca forze, come i nazionalismi o l’industria bellica, che non saprà poi controllare.
Le cose a volte accadono semplicemente perché accadono. Tuttavia le nostre risposte, soprattutto l’interazione tra di esse, determinano la piega che assumeranno quegli eventi. Nondimeno, non si possono neanche ridurre gli omicidi di Sarajevo e i nazionalismi balcanici a occasione pretestuosa, dal momento che l’idea di Nazione era all’epoca promessa di futuro e di emancipazione, capace di stimolare sentimenti profondi e passioni feroci. La più recente storiografia ha così restituito al nazionalismo serbo la dignità di autonoma forza storica annullando quella visione che vedeva nell’attentato di Sarajevo un evento marginale incapace, da solo, di condizionare gli eventi del luglio 1914. Vent’anni fa, gli attacchi dell’11 settembre 2001 mostrarono come un unico evento, per quanto figlio di complessi processi storici, potesse con la sua forza simbolica modificare la traiettoria politica non solo di una superpotenza ma, più in generale, di buona parte del sistema internazionale. Assumendo questa prospettiva, è bene soffermarsi allora sul modo in cui quegli eventi furono vissuti e poi inclusi in una narrativa che determinò sia il modo di percepirli, sia specifiche risposte. I governanti filtrano la realtà attraverso narrazioni prodotto di esperienze parziali che finiscono per saldarsi alla triade tucididea di paura, fame, orgoglio – ma anche interessi, riserve mentali, proiezioni psicologiche – coprendole sotto il mantello delle massime e della retorica. In altre parole, non si può escludere la contingenza dall’analisi storica perché essa consentirebbe di spiegare in che modo la guerra passò dall’essere improbabile, osservando le condizioni del sistema internazionale di fine secolo, ad essere possibile. Se alcune decisioni prese in quegli anni e durante la crisi di luglio mantengono un evidente carattere di causalità, nondimeno altre lasciano intravedere esiti diversi che, tuttavia, non si concretizzarono. Parimenti, non è facile capire in quei giorni del luglio 1914 in quale punto esatto delle istituzioni risiedesse il potere di determinare la politica dello Stato (se mai ne esistesse uno e se non ci fosse, piuttosto, un fluido oscillare di centri di potere che si alternarono in base alle contingenze), ma è certo che coloro i quali determinarono lo scoppio della guerra e portato l’Europa alla catastrofe avrebbero altresì potuto salvarla.
Nel 1892 il giurista austriaco Georg Jellinek pubblicò il Sistema dei diritti pubblici soggettivi nel quale analizzava quello che definì come il potere normativo dei fatti. Gli esseri umani hanno la tendenza ad attribuire autorità normativa alle situazioni esistenti perché la loro percezione dei fatti è determinata dalla forza esercitata da quegli stessi stati di cose. Intrappolati in questo circolo ermeneutico, gli uomini tendono a passare rapidamente dall’osservazione dell’esistente alla sua accettazione fino al punto da sussumerlo sotto la categoria della necessità. Di fronte ad eventi tali da sconvolgere o alterare lo status quo fattuale, gli esseri umani rapidamente si adattano alle nuove circostanze attribuendo portata normativa ai nuovi fatti. Ciò significa che una volta che il fatto, in questo caso la Prima guerra mondiale, è avvenuto, esso si impone su di noi con il senso travolgente di una apparente necessità. Non poteva andare altrimenti. Un processo psicologico che si sviluppa su piani diversi, come dimostrano le lettere, i diari, le memorie, le testimonianze dei principali protagonisti della crisi del luglio 1914. Tutti accomunati dalla rassegnata conclusione che la guerra fosse inevitabile. Si tratta di narrazioni che assumono forme diverse, ascrivendo la responsabilità di volta in volta al sistema internazionale, alle forze profonde della Storia, al Destino, accumulandosi in modo indifferenziato al punto da far perdere di vista la differenza tra inevitabilità e probabilità. Una distorsione prospettica che ha attecchito anche in sede di dibattito pubblico e storiografico dal momento che, al sicuro dei cento anni che ci separano dagli spari di Gavrilo Princip, continuiamo a guardare a quell’intreccio internazionale sulla base di ciò è successo dopo.
Durante la crisi finanziaria dell’Eurozona, tra l’autunno del 2011 e la primavera del 2012, i capi di Governo, i ministri, gli ambasciatori, erano consapevoli in quei mesi che, tra i molti esiti possibili, vi fosse anche quello più catastrofico: la fine dell’euro e, in prospettiva, dell’Unione Europea. Nessuno di essi operò coscientemente affinché quello specifico esito si avverasse, in cuor loro sperando che non si sarebbe mai arrivati al punto di non ritorno; eppure, accanto a questo comune interesse, ne esistevano altri particolari e potenzialmente contrastanti. Qui maturarono i pericoli, sia nel 1914 che nel 2011, nel momento cioè in cui i soggetti politici sfruttarono «la possibilità di una catastrofe generale», scrive Clark, come strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici interessi. Sinistre assonanze con l’attuale presente. Nel 1914, divisioni etiche e politiche si approfondirono al punto da erodere tanto gli elementi di consenso quanto la fiducia reciproca tra gli Stati che avrebbero dovuto concorrere ad una composizione della spaccatura. Le conseguenze di ogni azione dipendevano dalle reazioni degli altri attori e dalle rapide e continue interazioni tra centri di potere autonomi che dovevano affrontare minacce mutevoli sotto la pressione di tempi stretti, asimmetria informativa e scarsa fiducia. Cause di lunga durata ebbero il loro peso ma da sole non avrebbero potuto provocare lo scoppio della Grande Guerra. Furono i piccoli passi, i riallineamenti di breve periodo (la nascita di uno Stato albanese, il riarmo navale russo-turco, il riorientamento della politica di Mosca da Sofia a Belgrado, ecc.) a influire sulla fluidità dei rapporti di potere interni alle potenze come dimostrerebbero la lotta del ministro britannico Grey contro i liberali, l’indebolimento di Poincaré di fronte alla sua politica di alleanze o lo scontro tra i ministri Suchomlinov e Kokovcov sulle spese militari. Tutti i principali attori europei operarono sotto una crescente pressione interna che aumentò a dismisura il senso di urgenza con cui affrontarono i problemi che gli si palesarono davanti. Non che le contingenze potessero assumere una forza tale da indebolire da sole l’impalcatura dei rapporti internazionali, ma sicuramente esse contribuirono a determinare le condizioni nelle quali si svolse la crisi dopo l’uccisione dell’arciduca.
Nessuna delle grandi potenze stava in quei mesi di primavera valutando la possibilità di scatenare una guerra di aggressione contro i vicini. Ma ognuno temeva che una simile eventualità scaturisse dall’altra parte del confine e poiché la preparazione militare si intensificava, in alcuni ambienti di Vienna e Berlino cominciarono a discutere della possibilità di un attacco preventivo per rompere l’accerchiamento. Discutevano però della possibilità, non della probabilità che ciò potesse accadere. Gli aggiustamenti di breve periodo ebbero dunque il loro peso. Gli obblighi concatenati del 1914 produssero un esito catastrofico non perché fossero elementi strutturali del sistema internazionale, bensì conseguenza di progressivi e diverse modificazioni indotte dall’indebolimento di quel sistema. L’elemento da tenere in considerazione attentamente è pertanto la rapidità con cui i rapporti tra potenze andavano evolvendo. Il problema, paradossalmente, fu proprio che la plausibilità di un futuro diverso (con un accomodamento anglo-tedesco, per esempio) contribuì ad aumentare la probabilità di quel passato vissuto.
Le narrazioni ebbero poi un peso specifico nell’alimentare fosche visioni o modificare obiettivi anche nel breve periodo. La percezione di un declino asburgico storicamente determinato che finiva per negare il diritto ad un Impero di affermare e difendere i propri interessi; il vittimismo serbo nei confronti del padrone austriaco; l’assillo tedesco dell’accerchiamento di fronte all’alleanza franco-russa; i ricordi russi delle umiliazioni subite dalle potenze centrali che distorcevano il passato rendendo più minaccioso il presente (nel 1914 come nel 2022); tutte queste narrative contribuirono a trasformare le condizioni esistenti, ormai cariche di minacce (reali o simboliche che fossero). Appare così sempre più evidente come lo scenario balcanico che diede fuoco alle polveri non fu preparato ex ante da un piano o un complotto coerente, benché meno si possa affermare con certezza una relazione necessaria tra le posizioni che le potenze assunsero nel 1912-1913 e lo scoppio di una guerra globale. I Balcani fornirono più semplicemente il quadro concettuale all’interno del quale leggere la crisi. Al 1914, per portare un esempio, la Russia e la Francia avevano ormai legato la loro sorte, quella di grandi potenze mondiali, al destino di uno piccolo Stato slavo turbolento e scosso da dinamiche terroristiche e indipendentiste. Allo stesso modo, la prospettiva di tranquilli negoziati bilaterali tra Vienna e Belgrado per risolvere con la diplomazia le loro divergenze appare facile solo se guardata a distanza di un secolo: il contesto e le condizioni del 1914 non lo permettevano. Soffriva della stessa ingenuità la proposta del ministro britannico Grey di convocare una mediazione delle quattro potenze come se il 1914 fosse ancora il 1880, aggravata però dall’indifferenza per le problematiche interne che doveva affrontare l’Austria-Ungheria, considerate in fin dei conti marginali. Due problemi si incontravano a questo punto: da un lato, il fatto che le autorità serbe fossero incapaci, negligenti o colluse nei confronti della minaccia irredentista e terrorista; dall’altro, la circostanza che i difensori della Serbia, in nome del rispetto della sovranità di quest’ultima, negarono all’Impero asburgico la possibilità di uno strumento di controllo degli adempimenti di obblighi internazionali.
Quale posto occupa la colpa? La domanda sui come non può infatti escludere quella sui perché e, di conseguenza, sulla colpa. Sebbene la tesi della scuola tedesca di Fritz Fischer e dei suoi epigoni, declinata nelle diverse varianti di colpa tedesca, colpa inglese, colpa russa, rimanga un essenziale contributo storiografico, nondimeno essa indurrebbe ad un errore prospettico. La ricerca della colpa tende infatti a ridurre interazioni conflittuali ad un poco utile manicheismo, presupponendo che un attore debba essere nel giusto e l’altro nel torto. Questo tipo di narrazione restringe il campo visivo dello storico al punto da isolare le decisioni di Stato dai processi di interazione multilaterale che le hanno prodotte, interpretando aprioristicamente le azioni di uno o dell’altro sempre riconducendole ad un quadro univoco e ad un intento coerente. Non si vuole negare la qualifica di aggressore e aggredito, in base alla posizione di chi ha lanciato o subito un attacco, piuttosto mettere in dubbio quella di torto o ragione nella ricerca storica. Così come colpa e dolo sono categorie giuridiche, giusto e sbagliato sono categorie morali, non storiografiche. Clark conclude il suo libro The Sleepwalkers affermando che lo scoppio della guerra del 1914 non è un giallo di Agatha Christie alla fine del quale si scopre il colpevole con la sua arma del delitto. Chi scrive si permette di dissentire, nel senso che proprio Assassinio sull’Orient Express racconta come la ricerca ossessiva di un unico colpevole oscuri il fatto che tutti i sospettati, certamente spinti da motivazioni e con gradi diversi di coinvolgimento e responsabilità, hanno colpito a morte la vittima uno alla volta. Al luglio 1914, nella stanza del delitto, tutti i principali protagonisti avevano in mano una pistola fumante.
Molte domande rimangono ancora senza risposta e questo perché la storia custodirà sempre gelosamente i suoi segreti; tuttavia, è certo che «nessuno degli obiettivi per cui i politici del 1914 si scontrarono poteva giustificare il cataclisma che ne seguì». Vien dunque da chiedersi se nelle settimane della crisi essi avessero davvero chiara quanto alta fosse la posta in gioco, se avessero sfruttato con folle leggerezza la possibilità di una catastrofe per conseguire i propri interessi. La storiografia più recente ha messo in discussione l’illusione della courte guerre: al di là della retorica giornalistica e della propaganda, anche nello stato maggiore di Schlieffen si temeva che non ci sarebbero state rapide vittorie ma un lento dissanguarsi. Francesi e russi parlavano di “estinzione della civiltà”, gli inglesi di “Armageddon”. Essi dunque sapevano, ma percepivano? La percezione senza giudizio, ha scritto Benedetto Croce, non è neppure percezione, solo cieca e muta sensazione. Nella mente di chi agì la speranza di una guerra breve e la paura di un conflitto prolungato si annullarono a vicenda.
«…i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo».
Il risultato ultimo di una crisi, il fatto cioè che si trasformi in una guerra, non può essere ascritto esclusivamente a misteriose forze storiche profonde (l’industria, il militarismo, il nazionalismo) o alla rottura delle regole del gioco (le consuetudini diplomatiche del diciannovesimo secolo). Allo stesso tempo però, un solo leader politico non può con la sua sola hybris o le sue mal concepite strategie provocare un cataclisma. Gli esseri umani sono complessi e gli individui possono comportarsi sia come l’apprendista stregone che evoca forze che non saprà controllare, sia come leader onesti che agiscono sulla base della razionalità e delle informazioni che possiedono in quel momento. Dentro di loro, gli uomini posseggono sia le chiavi della pace che quelle della guerra e coloro i quali precipitarono l’Europa nel baratro del conflitto avrebbero altresì potuto salvarla. È nell’interazione tra i fattori suddetti che dovremmo rintracciare quei complessi meccanismi che nell’estate del 1914 condussero anche uomini buoni ad obnubilare la loro capacità di distinguere tra percezioni alterate e chiari giudizi. Come detto, le forze profonde e le dinamiche politiche all’interno di un sistema internazionale danneggiato crearono il contesto che rese la guerra probabile non inevitabile.
Di fronte alle immagini che provengono dal fronte ucraino, alle opposte narrative di guerra, agli obiettivi interni e agli allineamenti internazionali, al sovrapporsi di cause profonde o crisi emergenti, allo scontro tra percezioni e sensazioni, verrebbe da dunque da chiedersi se siamo ancora una volta afflitti da insidiosi disturbi del sonno.