Scritto da Alessandro Ambrosino
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Fra le varie riflessioni che hanno animato la composizione del numero 7 di Pandora Rivista, recentemente pubblicato, vi è l’idea che al nostro Paese manchi una certa consapevolezza su quali siano le sfide da affrontare anche su un periodo poco che superi la prossima scadenza elettorale. Non a caso il numero è stato dedicato all’Italia e se per un verso ha cercato di analizzare le storiche contraddizioni della Penisola, dall’altro ha rivolto l’attenzione agli aspetti più urgenti del suo presente, nonché alle difficoltà di progettare delle strategie su un nucleo di priorità fondamentali per il suo futuro.
Pienamente inserita nelle dinamiche globali che attraversano il mondo al giorno d’oggi, l’Italia trae certamente alcuni vantaggi dalla cosiddetta globalizzazione. Tuttavia, a causa di peculiari questioni storico-geografiche e politico-economiche, ne soffre anche in maniera accentuata le principali contraddizioni. Una su tutte: il costante aumento delle disuguaglianze territoriali. Il nostro pianeta è pieno di “luoghi lasciati indietro” – the places left behind, come vengono definiti ormai da molti studiosi a livello internazionale – le cui popolazioni stanno manifestando segnali di forte malessere sociale (intolleranza, rifiuto del sapere scientifico, desiderio di comunità chiuse ecc.) perché si auto-percepiscono come gli sconfitti del sistema globale rispetto agli abitanti dei (pochi) poli di ricchezza e benessere.
Nel nostro Paese questo trend di impoverimento diffuso ha colpito, forse, più forte che altrove, contrapponendo alla dimensione urbana “tipica” dell’immaginario collettivo sull’Italia tutta una serie di “aree del margine” – dalle vallate alpine ai piccoli borghi dell’Appennino, fino ad arrivare alle coste e alle due principali isole mediterranee – dove il semplice esercizio della cittadinanza e la richiesta dei servizi di base (trasporti, educazione e sanità) è diventata quasi una sfida quotidiana. Sommandole tutte, queste “aree interne” arrivano a coprire i due terzi del territorio nazionale e un quarto della sua popolazione. Numeri importanti, che ne fanno il fulcro di una vera e propria questione nazionale e che, grazie ad alcune iniziative come la Strategia Nazionale Aree Interne, tornano oggi ad essere visibili nel dibattito pubblico.
Pandora Rivista ha cominciato ad occuparsi delle aree interne contestualizzandole nella più ampia problematica dell’aumento delle disuguaglianze contemporanee e dedicandovi articoli, interviste, recensioni e dibattiti pubblici come “There is an Alternative: l’altro discorso sulle disuguaglianze” (la registrazione è disponibile integralmente a questo link) ospitato nel programma del primo Pandora Rivista Festival a cui ha partecipato anche Fabrizio Barca, Fondatore Forum Disuguaglianze Diversità ed ex Ministro per la Coesione Territoriale. L’attività prosegue ora con un ciclo di tre interventi aperto da un’intervista a Filippo Tantillo, ricercatore territorialista che lavora da più di 15 anni con Istituti di ricerca e università italiane ed europee alla messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio. Filippo Tantillo è stato coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne ed è molto attivo negli ambienti che lavorano affinché la Pubblica Amministrazione sia più vicina e attenta ai bisogni dei cittadini.
Quali sono gli apporti culturali e le riflessioni che hanno portato alla definizione di area interna e alla percezione della sua strategicità?
Filippo Tantillo: Il primo apporto è senza dubbio legato all’osservazione diretta. Noi del gruppo – diciamo così – “originario” della SNAI abbiamo rilevato che il problema di fondo della Pubblica Amministrazione (PA) era lo scollamento degli uffici centrali dalle realtà del territorio. Ciò derivava soprattutto da un trend più che ventennale di politiche pubbliche in cui risparmiare è stata la parola d’ordine. Analizzando meglio la questione ci siamo resi conto che questo approccio aveva penalizzato soprattutto le aree interne, perché la corsa a tagliare tutto ciò che poteva essere considerato superfluo tratteneva la macchina amministrativa dello Stato dal raggiungere le periferie, creando così un circolo vizioso di allontanamento e sfiducia da un lato e dall’altro. Quindi la prima cosa che abbiamo fatto è stato tornare sul territorio e scoprire un vero e proprio “mondo” che, di fatto, nessuno più guardava da vent’anni. Contemporaneamente è stata operata un’osservazione un più analitica basata su dati demografici del Paese. A dispetto della crescita di popolazione dell’Italia, avevamo notato una perdita demografica concentrata in determinate zone, tanto da metterne in discussione la tenuta. In un Paese dove quasi la metà del PIL è prodotto fuori dalle città, queste aree apparivano gravemente danneggiate dalla perdita di servizi e di popolazione. Allargando il campo, tale considerazione permetteva di mettere in dubbio uno dei paradigmi fondanti delle attuali politiche, ovvero che spingere verso una crescita economica generale avrebbe poi portato automaticamente i servizi anche nelle aree più remote del Paese. Certo, la crescita in molte zone c’è stata, però le persone sono andate via ugualmente, rivelando una frattura che si poteva ricucire solo ribaltando la prospettiva: ovvero considerando il welfare un investimento da cui partire per uno sviluppo futuro. Non posso negare, anche per mia formazione personale, che molti contributi alla definizione teorica della Strategia vengono dagli studi post-coloniali. Si tratta di un campo di ricerca molto fecondo in Gran Bretagna, ma che in Italia ha ricevuto meno attenzione, che sin dagli anni della decolonizzazione ha cominciato a guardare alla storia degli imperi partendo dai margini. Un esempio su tutti: Stuart Hall che analizza la realtà londinese vista dal contesto giamaicano, oppure Eric Hobsbawm, che si è formato su Gramsci, del quale cita spesso il fatto che sia diventato un filosofo conosciuto a livello mondiale partendo da un paese dell’entroterra sardo.
La Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI) nasce nel 2014 sullo sfondo di alcuni seminari che riconoscevano il carattere policentrico del Paese, in un contesto in cui la Commissione Europea cominciava a rendersi conto dell’urgenza di combattere il fenomeno dello spopolamento di intere zone del continente. Come e con quali criteri siete arrivati a mappare le aree interne?
Filippo Tantillo: È stato creato un sistema molto complesso di indicatori che ci hanno permesso di riportare in primo piano i territori meno serviti del Paese. C’era un’esigenza di tipo tecnico, dato che l’idea principale non è che le aree interne siano povere a priori – si pensi solo all’agordino, il territorio della provincia di Belluno, e all’industria di Luxottica – ma che siano i luoghi del Paese in cui il calo demografico è più pronunciato e dove è più difficile far arrivare i servizi di base. Gli indicatori sono calcolati basandosi sul criterio della lontananza, sui tempi di percorrenza e sui servizi di base (scuola sanità e trasporti). I comuni più grandi sono i “poli” che possiedono l’offerta completa di scuole superiori, almeno un Dipartimento di Emergenza e Accettazione (Dea I) e delle stazioni ferroviarie di tipo “silver”. Da qui ci si è andati via via allargando, classificando tutti i comuni della Penisola sulla base della distanza da questi servizi. Superando una certa soglia temporale, quella delle “aree cintura”, si entra nelle “aree interne”: suddivise in “semi-periferiche”, “periferiche” e “ultra-periferiche” (più di 75 minuti di distanza dai poli misurata in tempi di percorrenza). Ci tengo a sottolineare che tale mappatura è comunque anche un’operazione politica, perché abbiamo creato dei nuovi ambiti di intervento. Eppure, questa nuova “zonizzazione” ha permesso di rileggere in maniera realmente innovativa tutto il territorio nazionale, perché crediamo che un Paese come il nostro si definisca soprattutto dai margini, mettendo in discussione molte delle immagini che si erano radicate nelle descrizioni del Sistema Italia.
Una volta delineata la geografia di questi territori, come si struttura il percorso di costruzione della Strategia, data la grande diversità delle aree interne, e con quali strumenti si interviene?
Filippo Tantillo: La geografia ci dice che le aree interne sono “uguali ma diverse”: sono tendenzialmente aree di montagna, più “selvatiche” che “selvagge”, nel senso che mostrano segni secolari di sfruttamento intensivo di un territorio che poi è stato abbandonato. Ma allo stesso tempo sono molto diverse per cultura e bisogni. Dunque, per non cadere in stereotipi e in politiche inadeguate abbiamo frammentato lo sguardo, osservando tutte le aree singolarmente al fine di costruire l’intervento più adatto a ciascuna di esse per poi ricomporlo in una Strategia Nazionale che comunque comprende il 60% del territorio nazionale e il 22% dei suoi abitanti. Siamo partiti costituendo il Comitato Tecnico-Scientifico per poi iniziare un’operazione di scouting che ha previsto rilievi diretti e visite sul territorio (abbiamo viaggiato per oltre 40 mila chilometri all’anno!) consapevoli che sia lo Stato che le Regioni non avevano più né gli strumenti né le competenze per capire i bisogni di queste aree. Possiamo dire che in questo caso lo Stato si è calato sui luoghi e ha cercato di trasformarsi in un dispositivo per la promozione delle loro energie. Abbiamo incontrato sindaci, segretari, giovani, rappresentanti di realtà produttive e tutti i soggetti “innovatori” al fine di riportarli nelle stanze decisionali rimettendo al centro le persone. Il processo che conduce alla costruzione della Strategia d’Area comprende dapprima un’istruttoria per le Regioni, le quali identificano delle “aree d’intervento” sulla base delle proprie peculiarità o precedenti organizzazioni territoriali. In seguito, si elabora un documento detto “Preliminare di Strategia”, risultato di un dialogo continuo fra Comitato e area interna, nel quale è quest’ultima la vera protagonista perché grazie a tavoli di confronto e discussioni arriva a delineare le azioni che ritiene prioritarie sia nell’innovazione dei servizi, sia negli interventi di sviluppo. In questo contesto sono state privilegiate le idee innovative, nella convinzione che manchi un pensiero locale e nazionale sulle aree interne e che quindi valga la pena sperimentare. Le tappe successive sono di complessità crescente: innanzi tutto vi è una fase di “ingegnerizzazione” in cui si fanno i conti con le idee del Preliminare di Strategia e le reali possibilità di realizzarlo. Una volta mediato fra i vari livelli di PA. per ottenere i fondi, il territorio e il team che hanno lavorato sull’area elaborano una “Strategia d’area” declinando interventi e azioni specifiche. Infine, questo documento viene approvato dalla Regione e dal Ministero della Coesione dando il via all’Accordo di Programma Quadro: lo strumento attuativo dell’intesa finale fra tutti i livelli istituzionali. Forse quest’ultimo è il punto in cui la SNAI fa ancora fatica perché, per quanto abbiamo costruito una buona programmazione, l’attuazione sconta ancora ritardi e problemi di efficacia. Attualmente siamo in un momento critico, perché la sospensione di tutte le attività di supporto del Comitato Tecnico rischia di lasciare le Strategie senza un presidio di controllo.
La SNAI ha al centro della sua filosofia il cosiddetto approccio “place based”, ovvero un criterio di applicazione “attento ai bisogni dei luoghi”. Fabrizio Barca ha spesso sottolineato questo aspetto, insistendo sulle differenze del territorio italiano e sulla sua “rugosità” quale rinnovato punto di riferimento per l’identità nazionale. In che modo questi elementi si legano in una strategia che comunque riguarda la nazione nel suo insieme?
Filippo Tantillo: Il nostro è un Paese, per vari motivi, urbano-centrico, essendo pur sempre “il Paese delle cento città”. Solo che il paradigma di sviluppo urbano che ha preso piede una trentina di anni fa a livello mondiale da noi è particolarmente inadeguato. Non abbiamo le grandi metropoli creative sul modello di San Francisco o New York: al contrario, le nostre città storicamente conservano un rapporto osmotico con il territorio circostante ed in esso si rigenerano. Quello che intende Fabrizio Barca è che sia necessario ricucire lo strappo che si è creato fra due componenti della nostra nazione che non hanno senso l’una senza l’altra. La rugosità dell’Italia è ciò che rende parzialmente diverso il nostro Paese dagli altri Stati europei e ciò si rivela non solo dal punto di vista geomorfologico, ma anche nella biodiversità agricola, dove capita che nello stesso terreno si possano coltivare fragole e papaya come in Sicilia, climatica e, volendo, anche “umana”, con tutti i dialetti e le lingue che vi si parlano. Questa diversità è la nostra ricchezza, ma fuori dalla retorica la verità è che, per le finanze pubbliche, tutto ciò che non è città è percepito come un costo. Invertire lo sguardo significa ricomporre un disegno nazionale che integri ciò che è stato lasciato in disparte in maniera né emergenziale né contemplativa, ma, al contrario, concepirlo come un unicum da cui trarre anche un certo orgoglio. Tale ricucitura è certamente complessa, ma è forse l’unica che ci può preparare alle sfide del futuro. Aggiungo che la ricomposizione è anche una questione normativa, per cui è necessario intervenire con azioni ordinarie. Ritocchi di penna alle leggi che già ci sono, perché le aree interne non sono isole e devono essere riconosciute non come un’eccezione all’interno del Paese, ma come il 60% del territorio nazionale.
Le aree interne non sempre sono le aree più povere del Paese, però sono aree che perdono popolazione. Al di là delle problematiche legate ai servizi pubblici e alla mancanza di reali opportunità di lavoro ritiene che ci sia una sorta di “marginalità culturale” che impedisce a queste aree di essere pienamente riconosciute come parti integranti nelle sorti dello sviluppo del Paese?
Filippo Tantillo: Si. Questa marginalità peraltro è introiettata soprattutto nei cittadini che vivono nelle aree interne. Gli abitanti dei luoghi si sentono superati: niente di più comune che parlare con un uomo al quale stanno costruendo la superstrada fuori casa e dice “ecco il progresso!”. Questo accade perché le proposte di sviluppo per queste aree vengono presentate sempre come posticipate, nel senso che si pianifica lo sviluppo in altre zone certi che in futuro anche queste aree ne trarranno giovamento. Poi c’è una marginalità anche nell’agricoltura: il nostro Paese ha avuto un’industrializzazione rapida e il passato agricolo viene percepito come qualcosa da dimenticare in fretta perché “sporco” e faticoso. Tutte queste variabili della marginalità culturale si esplicitano poi in una subalternità in cui, a priori, la città è meglio. Noi abbiamo cercato di lavorare contro questa visione, ma le battaglie culturali hanno tempi diversi rispetto alle battaglie politico-amministrative.
Se l’obiettivo ultimo, interpretato nel senso più generale possibile, della SNAI è invertire le attuali tendenze demografiche in atto, in che senso l’unione di politica e cultura può ridare centralità a queste aree interne e/o marginali?
Filippo Tantillo: L’unione di politica e cultura si esplicita proprio nella battaglia di fondo della SNAI. In primis, vorremmo che il Paese riflettesse sulla sua estrema complessità senza riduzionismi, comprendendo che questa è la sua cultura e anche la sua ricchezza. Questo dovrebbe tradursi in una politica, come dicevamo, ordinaria, ovvero senza trattare un pezzo così grosso del Paese come un’eccezione e che tenga conto delle sue differenze. Voglio fare un esempio concreto: ci sono leggi che obbligano le scuole, per avere un’autonomia funzionale, a contare almeno 400 studenti. A Roma, dove abito, ci vogliono tre palazzi per fare una scuola da 400 studenti. In Friuli ci vogliono 4 valli i cui abitanti vivono di attività e punti di riferimento differenti. Che tipo di servizio si può offrire se le normative vengono spalmate uniformemente dappertutto senza tener conto delle differenze dei luoghi?
Che rapporto c’è fra la SNAI e la macchina amministrativa dello Stato?
Filippo Tantillo: Difficile. La macchina amministrativa è sempre tentata dall’essere da un lato civil servant, riconoscendo cioè che il suo committente sia il cittadino, seguendo le linee dell’approccio britannico, ma dall’altro tende a organizzarsi sul modello di una struttura gerarchica di tipo militare, dove l’ultimo funzionario deve rispondere al suo superiore e così via fino al Ministro che, in questa prospettiva, sembra quasi un generale. Questa tensione dell’amministrazione deriva dall’epoca napoleonica, che ha dato corpo alla burocrazia come la intendiamo noi. In Italia, per gli stessi motivi di cui abbiamo parlato precedentemente, queste tensioni sono ancora più accentuate. Negli anni Settanta, con la prima regionalizzazione, c’è stato chi ha provato a rimettere al centro della pubblica amministrazione il modello attento ai bisogni del cittadino, ma ha scontato comunque il fatto di essere minoritario rispetto ad una tradizione verticistica che il nostro sistema si trascina da tempo. Anche in questo caso si tratta di una battaglia culturale: una componente legata alla missione di civil servant è sempre esistita, si tratta di riportarla sotto i riflettori in un contesto di grande scollamento fra le istituzioni e i cittadini.
La Strategia ha dovuto forzare alcuni meccanismi all’interno delle istituzioni e della politica? Se sì, dove ritiene che si siano evidenziati risultati e dove pensa che la SNAI abbia trovato degli avversari?
Filippo Tantillo: Sì, ci sono state e ci sono molte resistenze all’approccio della SNAI. Queste sono di varia natura: possono essere ideologiche, pragmatiche ma anche provenire da difficoltà specifiche degli uffici ad entrare in un sistema per cui non sono stati formati. Va ricordato che la macchina statale è un organismo veramente complesso, che nel suo insieme, dai comuni ai ministeri, passando per le provincie, le regioni e tutte le variabili immaginabili impiega milioni di persone. Negli ultimi anni varie parti di questa macchina hanno subito trasformazioni che non solo le hanno rese ancora più complicate, ma le hanno anche deresponsabilizzate, impedendo di riconoscere chiaramente chi fa cosa o l’origine di un disservizio. Oltretutto ci sono stati disinvestimenti che hanno portato i dipendenti stessi ad una perdita di fiducia verso il sistema, con il risultato che è ancora più difficile evidenziare i buoni risultati rispetto alle carenze e inoltre, il blocco delle assunzioni permane senza strategie da quasi vent’anni. La SNAI sconta questo problema di fondo: avere i piedi di argilla. Ovvero è una Strategia che ha avuto un’ottima programmazione e teorizzazione, ma che fa fatica ad essere attuata concretamente anche sul breve-medio termine, tra comuni sempre a corto di personale, funzionari regionali non formati e un’amministrazione centrale verticista. Concludo dicendo che sì, sicuramente ci sono avversari perché comunque quella che noi portiamo avanti è una strategia che rompe alcuni schemi e per forza di cose crea altri attriti. Noi chiamiamo questi avversari i rentiers del sottosviluppo, ovvero quelli che hanno fatto della lotta emergenziale al sottosviluppo delle aree interne una vera e propria battaglia da cui trarre vantaggi personali.
Uno dei tratti innovativi della SNAI è il suo tentativo di “liberare” le energie delle aree interne, spesso frustrate non tanto dalla mancanza di servizi ma dall’incapacità degli attori del territorio di esprimere il bisogno del cambiamento. A distanza di 5 anni, secondo lei, la Strategia ha smosso le coscienze? Abbiamo dei primi elementi per un bilancio?
Filippo Tantillo: Sì. Ci sono tre successi che possiamo vantare. Il primo e più importante è aver fatto crescere una cultura e un orgoglio delle aree interne. Abbiamo dato voce a chi tornava sul territorio facendo sentire queste persone meno sole e portandole a dialogare di nuovo con la nazione e ciò si vede anche nella risonanza che oggi ha questo tema. Il secondo risultato è più tecnico: convincendo dei comuni piccoli a ragionare insieme in chiave strategica e non nell’ottica di ricevere soldi pubblici crediamo di aver contribuito ad una generale operazione di rafforzamento istituzionale. Il terzo risultato è che in tutte le aree in cui abbiamo lavorato ci hanno proposto di costruire almeno un “luogo”, un “centro culturale”, un “hub” o un “co-working” in cui gli innovatori delle aree interne potessero continuare a ritrovarsi e a scambiare idee con l’obiettivo di porsi, chi più consapevolmente chi meno, come dei veri e propri corpi intermedi fra Stato e cittadini riempiendo un vuoto che da troppo tempo si era creato.
Ci può raccontare di alcuni casi concreti – delle best practices – come si dice in gergo, di cui ha avuto esperienza?
Filippo Tantillo: Premettendo che nessun caso concreto accontenterà mai tutti, né può essere considerato la panacea delle aree interne, vanno ricordate l’Unione dei comuni sui Monti Dauni in Puglia, la gestione collettiva della filiera del legno in Alta Carnia, e soprattutto le politiche di sviluppo in Val Maira che, riportando la scuola al centro della Valle piuttosto che allo sbocco verso Torino, sono diventate un esempio internazionale. Effettivamente la scuola ha avuto un ruolo molto importante nello sviluppo di “Aree Interne”, si vedano i casi del reatino e dell’Alto Sangro, in cui i comuni hanno rinunciato, con moltissime difficoltà, alla loro piccola scuola per creare un unico polo di qualità senza togliere il servizio.