La scienza politica di fronte al ritorno delle ideologie. Intervista a Luca Verzichelli
- 06 Settembre 2023

La scienza politica di fronte al ritorno delle ideologie. Intervista a Luca Verzichelli

Scritto da Carlotta Mingardi, Giulio Pignatti

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Il nostro presente è segnato dalla ricomparsa in scena dei fenomeni ideologici: nel contesto italiano, con l’elezione di Giorgia Meloni e la nascita di un governo dai tratti nazionalisti e conservatori; nel contesto internazionale, col ritorno della politica di potenza. Quali categorie può dispiegare la scienza politica di fronte a fenomeni che spezzano l’incanto della narrazione sul tramonto delle ideologie? È necessario un cambiamento di paradigma nell’interpretazione delle nostre democrazie e delle relazioni internazionali? Dopo i contributi di Manuel Anselmi dal punto di vista della sociologia politica e di Damiano Palano da quello della filosofia politica – raccolti in occasione di un recente convegno, Cosa resta dell’ideologia? Concetti, teorie, metodi di ricerca, organizzato dagli Standing group “Teoria Politica” e “Politica e Storia” della Società Italiana di Scienza Politica e tenutosi alla sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – di seguito l’intervista del docente di Scienza politica Luca Verzichelli.

Luca Verzichelli è Professore ordinario di Scienza politica all’Università di Siena, dove insegna global comparative politics e introduzione alla scienza politica. È Presidente della Società Italiana di Scienza Politica (SISP). Tra le sue ultime pubblicazioni, The Fate of Political Scientists in Europe. From Myths to Action (con Giliberto Capano, Palgrave Macmillan 2023) e La classe politica italiana. Struttura, atteggiamenti, sfide (curato con Pierangelo Isernia e Sergio Martini, il Mulino 2023).


Luca Verzichelli

Luca Verzichelli

Qual è la specificità della scienza politica nell’interpretazione dei fenomeni ideologici rispetto ad altri approcci, come quello della filosofia politica o della sociologia? Quali categorie e paradigmi sono stati investiti per la loro comprensione nel corso della storia della disciplina?

Luca Verzichelli: La scienza politica ha i propri limiti, forse statutari, che si riscontrano anche su oggetti di studio come le ideologie politiche, ma che possono essere via via superati da chi la disciplina la pratica accademicamente. Soprattutto nell’Europa meridionale, la scienza politica come disciplina si è istituzionalizzata meno di altre, come la storia o il diritto. Quindi la tendenza è quella al confinamento, attraverso divisioni spesso arbitrarie che allontanano la scienza politica, ad esempio, dal campo della teoria politica o della sociologia politica. Personalmente, chiamerei tutti questi ambiti “scienza politica”: fatico a comprendere certe differenze di steccato disciplinare. D’altra parte, non mi sfugge neanche la cecità propria di una tendenza a far prevalere la concezione positiva della scienza politica, seguendo l’idea di poter misurare quantitativamente l’impatto delle sovrastrutture culturali nella politica di tutti i giorni. Se questa è una colpa – e credo che almeno in parte lo sia –, la ereditiamo dagli scienziati politici americani, che pur ringraziamo per aver inventato gli strumenti metodologici che caratterizzano la nostra disciplina. Forse gli americani si sono limitati a studi empirici sull’impatto culturale e subculturale, mentre l’ideologia dovrebbe essere analizzata anche con altre metodologie, meno convenzionali per la scienza politica positiva. In Europa, comunità più povere di risorse ma più aperte al pluralismo disciplinare hanno studiato aspetti che riguardano le ideologie e la loro trasformazione superando l’approccio dell’analisi della cultura e della sua sedimentazione storica. Penso ai lavori sui movimenti sociali o sui partiti politici che non si limitano ad analizzarne gli aspetti organizzativi, ma che hanno come scopo vedere in che modo gli attori, anche attraverso la propria densità organizzativa, contribuiscono a tenere vivi i meccanismi che permettono ai valori ideologici di adattarsi o di penetrare nella società. Tendo dunque a vedere il bicchiere comunque mezzo pieno: soprattutto in Europa, la scienza politica – anche quella empirica – ha avuto un ruolo considerevole nell’analisi dei fenomeni ideologici. Da ultimo, va menzionata l’importanza di alcuni studiosi nell’adattare lo studio dei fenomeni ideologici ad oggetti più tipici della scienza politica, come il potere politico, studiato dai classici della disciplina: penso in particolare a coloro che hanno studiato il retaggio ideologico delle élite politiche. Un intero filone che si colloca a metà tra scienza politica e sociologia politica ha studiato le modalità di acquisizione da parte delle élite politiche – a livello locale, nazionale e sovranazionale – dei valori ideologici. Sono analisi portate avanti certamente attraverso studi teorici, ma anche con metodi quantitativi e sondaggi. Non mi sento insomma di escludere il ruolo della scienza politica nella comprensione dell’ideologia, ma senz’altro ne riscontro dei limiti, dovuti al fatto che talvolta siamo stati così affascinati da una politica microcosmica come quella rilevante per il paradigma della rational choice theory che ci siamo dimenticati dei fenomeni che si muovevano nella società. E che ancora vi si muovono: è una bugia, infatti, che le ideologie oggi sono morte – o, più in generale, che le ideologie muoiono.

 

Effettivamente, dopo una lunga stagione di oblio, si assiste a una sorta di riscoperta dei fenomeni ideologici e delle relative categorie teorico-analitiche nella produzione intellettuale. Quali sono i dibattiti che attualmente prendono maggiormente corpo all’interno della scienza politica, in particolare quella italiana, su questi temi?

Luca Verzichelli: La scienza politica, come si diceva, nasce dall’impulso americano, che è stato necessario: la nostra disciplina muove statutariamente dalla descrizione empirica dei fenomeni, anche quelli che riguardano fattori valoriali o di pensiero. Nel fissare tale statuto il ruolo di Giovanni Sartori, appoggiato da Norberto Bobbio, è stato fondamentale: è stata una vera e propria comunità epistemica quella dei filosofi politici e del diritto che aiutarono Sartori costruendo una piccola ma significativa coalizione per imporre la nuova disciplina. La battaglia non è stata facile, ma all’epoca – parliamo degli anni Sessanta – certamente c’era già un fermento nell’università italiana che favorì anche le trasformazioni disciplinari. A differenza di quel momento germinale, il pluralismo e la capacità di leggere la complessità dei fenomeni non sono sempre stati il nostro forte – bisogna anche tenere presente, del resto, che siamo una disciplina giovane e “debole”. Però è anche vero che i classici della scienza politica internazionale e italiana hanno sempre fatto un riferimento privilegiato alla dimensione ideologica e culturale. Un libro importante in tal senso è stato quello di Leonardo Morlino sui partiti (Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, 1991): tutte le ricerche empiriche che sono state portate avanti a partire da quell’impostazione – che a sua volta si rifaceva i primi studi empirici di Sartori e dell’Istituto Carlo Cattaneo degli anni Sessanta e Settanta, o al lavoro di Joseph La Palombara sui gruppi d’interesse (Clientela e parentela. Studio sui gruppi di interesse in Italia, edizione originale del 1964) – mostrano una grande attenzione alla sedimentazione culturale e ideologica nei partiti italiani. La trasformazione successiva è stata talmente sconvolgente – con la crisi dei partiti e poi con il “populismo” – che abbiamo finito per abusare della semplificazione basata sulla presunta de-ideologizzazione della politica. È dunque in questo momento successivo, collocato intorno alla fine della Prima Repubblica in Italia, che abbiamo perso capacità di analisi nell’ambito di cui stiamo parlando. Ma arriviamo all’oggi. I percorsi di Damiano Palano e Manuel Anselmi – i due studiosi che avete intervistato in parallelo –, testimoniano ad esempio di una rinnovata e fervente riflessione sui temi ideologici. Noto anche che negli ultimi anni molte tesi di dottorato sono dedicate ai nuovi valori, in ambito di comparative politics, negli studi di opinione pubblica e anche nelle politiche pubbliche. Molte ricerche si appoggiano per esempio sul filone dell’analisi comparata delle agende, che ha evidentemente a che fare col tema della sedimentazione ideologica. Insomma, resto ottimista sulla pluralità degli approcci che connota la nostra disciplina.

 

Dopo anni di governi tecnici o di coalizione, quello nato lo scorso autunno è il governo più a destra della storia repubblicana, che si inscrive in un’ondata di nazionalismi che ovunque mettono in discussione il racconto sulla fine delle ideologie. Come va letta l’ideologia politica del partito di Giorgia Meloni, che sembra tenere insieme tradizioni diverse tra loro?

Luca Verzichelli: Non mi ha mai convinto la semplificazione di una cultura politica “radical right”, perché le destre europee – e ancora di più quelle non europee – non hanno le caratteristiche di un’unica famiglia partitica. Per comprendere bene la destra bisogna capire quali e quante anime essa tiene insieme: non ha le caratteristiche di coerenza delle famiglie ideologiche del XX secolo. Questo non vuol dire che non ci siano elementi di convergenza ideologica e strategica evidenti, ed è anzi questo che rende le destre radicali molto potenti elettoralmente: si trovano a essere pivotali all’interno di coalizioni molto vaste, dove gli attori liberali o liberisti diventano sempre più alleati minori. Per esempio, vedo tre elementi chiave stratificati nell’ideologia politica di Fratelli d’Italia. Il post-fascismo, cioè una delle ideologie tradizionali del XX secolo, rimane un’eredità che, pur filtrata, non viene del tutto eliminata. Mi stupisco che ci siano osservatori che si aspettino da Ignazio La Russa, faccio questo esempio, un comportamento istituzionale diverso rispetto alla propria cultura politica d’appartenenza. Poi ci sono quelli che, pur rimanendo di estrazione missina, sono cresciuti politicamente durante o subito dopo la svolta di Fiuggi – è quella che Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati nel recente libro Fratelli di Giorgia (il Mulino 2023) chiamano “generazione Atreju”. Queste componenti non sono necessariamente meno “di destra”, ma è un fatto che questa classe politica non abbia le caratteristiche culturali di quelli che hanno militato principalmente nel Movimento Sociale Italiano. Ciò ha risvolti politici decisivi: dalla generazione di La Russa mi posso sempre aspettare un “richiamo della foresta”, tale per cui un amico, faccio per dire, che è stato dentro ad un’organizzazione eversiva come Avanguardia Nazionale rimane pur sempre un amico; quelli di Atreju, invece, sono cresciuti in un partito che navigava dentro a un centrodestra conservatore ma anche liberale. Infine, c’è una terza generazione, non necessariamente composta di giovani, ma certamente rilevante a livello di classe politica, che ha trovato una convergenza su Giorgia Meloni. Pensiamo a gente come Marcello Pera, ma anche ai giovani imprenditori eletti recentemente con FdI a vari livelli rappresentativi. Queste tre componenti si ritrovano, con pesi diversi, in tutti i partiti a vocazione maggioritaria della destra europea. Anche Marine Le Pen ha portato avanti la stessa operazione di Meloni, scalzando il gruppo dirigente del Front National. Ma, dal momento che i pesi di tali componenti sono diversi da Paese a Paese, anche la destinazione ideologica dei vari partiti di destra rimane potenzialmente molto varia.

 

Si parla molto di disintermediazione, di crisi dei partiti. In che forme, a suo avviso, la classe politica dialoga o non dialoga al giorno d’oggi con la società, ne intercetta e riproduce esigenze e visioni del mondo? Come interagiscono nel contesto italiano, ma non solo, le ideologie che emergono dai gruppi sociali (talvolta andando a formare vere e proprie “bolle” autoreferenziali) con le istituzioni democratiche liberali?

Luca Verzichelli: La crisi dei partiti non è stata il crollo di un giorno. Sicuramente c’è stato il fallimento di una forma partito che i dirigenti non hanno saputo interpretare. Tralasciando il caso italiano, in cui i partiti sono implosi per via di dinamiche endogene che conosciamo, in Europa non l’hanno saputo fare nemmeno i partiti “tradizionali”. Chi studia la membership dei partiti lo sa: la crisi dei partiti esisteva già da tempo. Se andiamo a vedere, oltre alla membership, anche la densità dell’attività dei partiti, che è un aspetto più interessante rispetto alla mera misura organizzativa, vediamo che i partiti, nel momento di certe evoluzioni o avvenimenti, erano nel posto sbagliato. Semplicemente. Se ci chiediamo come i partiti hanno affrontato ciò che è avvenuto in seguito alla grande rivoluzione italiana di Tangentopoli – mi riferisco per esempio ai “Girotondi” o al Popolo Viola, che non volevano ricostruire solo l’opposizione a Berlusconi, ma l’intera sinistra o centro-sinistra –; se ci chiediamo dove fossero i partiti all’epoca di Porto Alegre o di Genova 2001; o dove fossero i partiti nel 2005-2006, prima della crisi economico-finanziaria, o nei giorni della nascita del movimento degli Indignados o del Movimento 5 Stelle, in tutti questi casi dobbiamo concludere che i partiti non c’erano. Non solo non c’erano, ma non hanno saputo leggere queste richieste, queste pulsioni – neanche successivamente. E, tutto sommato, i partiti non hanno saputo interpretare neanche le crisi più recenti: i “campioni” delle grandi discussioni degli ultimi dieci anni, dall’immigrazione fino alla pandemia di Covid-19, a destra come a sinistra, sono stati i movimenti. Non i partiti. Certamente abbiamo osservato leader che hanno scalato i partiti da insider: in Italia, Matteo Salvini, per esempio, ha trasformato un partito regionalista in un partito di estrema destra; Matteo Renzi ha scalato il Partito Democratico cercando di far soccomberne la classe dirigente che lo aveva fondato. Ma, dall’altro lato dello spettro, sono i leader sociali ad emergere. Nessuno ha saputo trasformare in prestigio e autorevolezza politica le idee e le azioni, per esempio, di Carola Rackete o degli attivisti di Medici senza Frontiere. Nessun nome politico si è distinto particolarmente, in quella fase, per dare voce a certi moti. Anche guardando alla recente proposta di Angelo Bonelli, in larga misura condivisibile, dobbiamo riscontrare come in Italia la sinistra non sia mai riuscita, di fatto, a dare seguito concreto – senza strumentalizzare – alle proposte dei Fridays for Future. Al momento, a mio avviso, non sembra esserci riuscita neanche Elly Schlein: e se non ci riesce lei che proviene da quel mondo, evidentemente il problema è dei partiti, che agiscono come muro di gomma al loro interno. Ora, proprio perché questa enorme problematica è nota e proprio perché adesso è evidente come abbia fallito anche l’antipolitica, i partiti hanno una grande opportunità. E i risultati – così leggo personalmente le ultime elezioni in Spagna – iniziano a vedersi. È necessario, dunque, che partiti si adattino a dover ascoltare la società civile. Perché il vero problema non è che la società civile non ascolta l’élite politica, ma che l’élite politica si scorda uno dei tre momenti tipici della democrazia: canalizzare il consenso, tradurlo in potere politico, ma anche ascoltare i feedback della società. Il terzo tempo è ascoltare, per evitare che la volta successiva i cittadini ti sanzionino. L’enorme volatilità elettorale presente in Italia, come in Spagna e in Grecia è un fenomeno comune, quantomeno all’Europa del Sud. In Italia i risultati sono sempre particolarmente più complicati, soprattutto per il centro-sinistra, ma il fenomeno è generale.

 

Recenti sconvolgimenti globali, come la pandemia di Covid-19, ma anche la guerra in Ucraina, hanno fatto riemergere il tema delle ideologie e soprattutto dell’uso di queste stesse da parte di determinati attori politici, come per esempio Russia e Cina, come motore del loro agire politico. Che tipo di quesiti e di sfide sono posti alla disciplina?

Luca Verzichelli: Il titolo del recente congresso della Società Argentina di Scienza Politica, cui ho partecipato dopo il congresso dell’Associazione Internazionale di Scienza Politica a Buenos Aires, era proprio questo: La politica in tensione. Credo che sia cruciale saper leggere le tensioni, forti di un pluralismo interno abbastanza marcato da poter interpretare le tensioni del presente dal lato dell’input, delle istanze, ma anche attraverso più lenti, dentro la dimensione istituzionale – nella cosiddetta “scatola nera” istituzionale –, e soprattutto di fronte agli output, nonché nella fase di retroazione. E, nonostante tutto, una disciplina che raccoglie relativamente pochi studiosi in Europa (come in altre realtà extra-europee), e che rimane abbastanza povera dal punto di vista degli strumenti – una disciplina soft insomma – ha però in sé la capacità di leggere le trasformazioni e le tensioni, prima ancora che si verifichino esiti devastanti per la democrazia. Per questo, personalmente mantengo un certo ottimismo. Perché abbiamo bisogno di tutte queste competenze: dalla comunicazione politica, all’analisi delle politiche pubbliche, a tutto il resto. Prestando sempre attenzione a una problematica macro: quella del futuro della democrazia. La scienza politica deve darsi una sola missione, al di là del pluralismo metodologico ed epistemologico: quella di essere la scienza della democrazia, o meglio ancora, la scienza per la democrazia. Da questo punto di vista, il principale problema non riguarda gli strumenti metodologici: ne abbiamo tanti e li conosciamo, soprattutto i giovani ricercatori. Non vi è nemmeno il problema di oggetti di studio diversi tra loro – anzi, questo deve proseguire. Il problema è consolidare lo sforzo di capirci gli uni con gli altri all’interno dei confini della disciplina, mantenendo, o ritrovando, il nostro filo rosso. La vera questione, tuttavia, è quella della difesa democratica. Dobbiamo dire a tutti i politologi che giustificano certi regimi, o che non fanno abbastanza per chiamare le cose col loro nome, che il nostro ruolo è anche questo. Personalmente non credo che dobbiamo fare advocacy ogni giorno, né credo che l’intervento sui media sia il nostro primo compito. Ma quando leggo della condanna a Patrick Zaki, intervengo subito: agisco in tal senso come cittadino ma anche perché sono uno scienziato politico e devo dare l’esempio. Ritengo che tutti i politologi dovrebbero sentirsi, innanzitutto, dei “soldati della democrazia”. Dovremmo anche cercare di tradurre tutto ciò in attività pedagogica, affermando chiaramente che tutto questo serve a costruire una capacità di intervento. Ciò significa, a mio avviso, sostanzialmente due cose: insegnare il pensiero critico – non necessariamente insegnare ad andare contro, ma a pensare effettivamente – e insegnare a leggere tutto. Noi non dobbiamo occuparci di tutto, ma dobbiamo saper leggere tutto.

 

Il tema del futuro della democrazia è rilevante e cruciale: la transizione di un certo numero di democrazie verso un regime ibrido, quando non propriamente autocratico, è ormai un dato. Anche la guerra odierna, seguita all’invasione russa dell’Ucraina è stata interpretata più volte come uno scontro tra democrazie e autocrazie. Questo, tuttavia, ci porta a porre la questione della salvaguardia della democrazia anche sul fronte interno, soprattutto in Unione Europea. Cosa intendiamo quando parliamo di democrazia e cosa quando parliamo di autoritarismi? Ci troviamo di fronte alla necessità di ripensare certe categorie analitiche?

Luca Verzichelli: Sono combattuto di fronte all’idea di cambiare strumentazioni, sempre considerando la gracilità non soltanto della nostra disciplina, ma di tutta la scienza e delle scienze sociali in particolare. Ma non vi è nulla di assoluto nella scienza: se vogliamo continuare a credervi, dobbiamo anche capire se il lavoro quotidiano sta funzionando o se è forse necessario porsi il problema del cambiamento paradigmatico. E quindi del cambiamento delle categorie che intendiamo utilizzare. Non credo tuttavia che questo sia oggi il problema per quanto riguarda il novero delle democrazie. Non perché le democrazie siano dotate di anticorpi particolari, anzi: trovo più preoccupante il fenomeno del cosiddetto democratic backsliding, lo slittamento democratico interno, anche nell’area dell’Unione Europea, rispetto alla misurazione del numero di democrazie che ci sono nel mondo. Ma non abbiamo bisogno di teorie così innovative, basta cercare di innalzare il livello di analisi critica. Dobbiamo mantenerci critici senza alzare i toni, se vogliamo rimanere credibili. Non si deve, per esempio, e questo credo sia stato un limite enorme degli studi europei e in generale della scienza politica europea, realizzare soltanto studi di tipo celebrativo. Diventa necessario oggi fare anche un altro tipo di ragionamento. Per esempio: io non posso dire all’Ungheria che non è più democratica, perché io stesso non sono certo di rappresentare una comunità pienamente democratica. Tuttavia, credo che tra noi e gli studiosi ungheresi ci sia ancora spazio per un dialogo, che si possa trovare un modo di ragionare insieme. In un contesto come questo è il momento giusto per dei progetti di ricerca condivisi; ecco perché la Commissione europea non dovrebbe vietarmi di fare, ad esempio, i programmi di ricerca Horizon Europe con gli ungheresi, con i polacchi o con i turchi. Perché, al contrario, proprio ora è necessario farlo. Se non si parlano gli accademici e i ricercatori, chi altro dovrebbe farlo, in un momento come questo? Lo stesso discorso vale per le riflessioni sul mito della democrazia occidentale: alziamo la critica, non i toni, e veniamoci incontro. Rimanendo franchi e ritrovando la nostra capacità di analisi.

Scritto da
Carlotta Mingardi

Assegnista di ricerca all’Università di Siena. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna. In precedenza, è stata scholar presso The Europaeum, visiting fellow presso la Brussels School of International Studies-BSIS University of Kent e junior research fellow presso l’Istituto Europeo del Mediterraneo-IemED di Barcellona. Si occupa di politica estera dell’Unione Europa, con particolare attenzione alla regione dei Balcani e MENA.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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