“La sfida delle disuguaglianze” di Carlo Trigilia
- 13 Gennaio 2023

“La sfida delle disuguaglianze” di Carlo Trigilia

Recensione a: Carlo Trigilia, La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra, il Mulino, Bologna 2022, pp. 216, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Niccolò Doni

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Viviamo in un’epoca caratterizzata da angoscianti disuguaglianze economiche e sociali, di cui stentiamo a comprendere la reale gravità sul piano nazionale o addirittura globale, così come spesso fatichiamo a individuarne tutte le cause. Elaborare condotte politiche capaci di risanarle, infine, sembra un’operazione tanto faticosa quanto difficile da applicare concretamente, all’interno di un quadro politico globale instabile e soggetto a rapidissimi cambiamenti.

Carlo Trigilia, Professore emerito di Sociologia economica presso l’Università di Firenze e già Ministro per la Coesione Territoriale, sulla scia delle proprie ricerche specialistiche effettuate sul tema e pubblicate negli ultimi anni da il Mulino e dalla rivista Stato e Mercato, ha dedicato un’opera proprio all’urgenza di queste riflessioni. La sfida delle disuguaglianze (il Mulino 2022) si propone innanzitutto di analizzare l’incalzante crescita delle disuguaglianze sociali all’interno delle democrazie occidentali, a fronte dello sviluppo economico, industriale e tecnologico di cui esse continuano complessivamente a godere, nonostante gli effetti della crisi pandemica e il dramma della guerra in Ucraina.

L’altro tema centrale dell’opera tratta invece il fenomeno del “declino della sinistra”, inteso come la massiccia perdita di voti delle forze politiche progressiste avvenuta in queste democrazie negli ultimi decenni, tentando di renderne chiare le cause scatenanti e, soprattutto, di indicare ai partiti protagonisti un percorso per uscire dal proprio stato di debolezza. Quest’ultimo tentativo non interpreta la rinascita delle sinistre soltanto come un mezzo attraverso cui porre fine al trauma delle suddette disuguaglianze, ma anche come antidoto per il sistema occidentale nel suo complesso, minacciato dai pericoli dell’astensionismo, del “populismo” e delle allarmanti nostalgie autoritarie a cui assistiamo con crescente frequenza.

Prima di tutto, per comprendere gli evidenti squilibri sociali di oggi, occorre ripercorrere la storia dell’occidente a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, adottando un metodo di analisi in grado di identificare gli effetti della convivenza tra le democrazie occidentali e l’economia di mercato capitalista a cui si sono affidate. I rapporti tra queste due entità, tuttavia, sono mutati così profondamente durante questo arco di tempo che non è possibile discuterne in termini generici, ma è necessario distinguere fasi ben differenti.

La prima fase, post-bellica, comincia nel 1945 per terminare all’incirca nel 1975: questi anni sono ricordati con nostalgia da tutti i Paesi del blocco occidentale, tanto da essere spesso chiamati i “Trenta gloriosi”. Durante questo periodo, infatti, i neo-sistemi democratici sono stabili e riescono a svilupparsi omogeneamente, sfruttando l’energia propulsiva del capitalismo a proprio vantaggio. È il periodo del “fordismo” e dello “Stato sociale keynesiano”, in cui la grande industria manifatturiera e la forza della “classe operaia” trainano la crescita economica, mentre il mercato viene regolato dal costante intervento statale; i tassi di povertà relativa rimangono bassi, le differenze di ceto sociale poco marcate.

Questo modello di sviluppo, tuttavia, si arresta inaspettatamente negli anni 1973-1975, inaugurando un grave momento di crisi e un punto di svolta: di fronte a un’improvvisa stagflazione (ovvero crescita economica bassa o nulla, accompagnata da alta inflazione) e al conseguente calo del tasso di occupazione, si decide di intraprendere strade innovative. Nel giro di poco tempo, neo-liberismo e “iper-globalizzazione” si affermano come gli unici paradigmi di sviluppo possibili, che impongono precisi diktat alle democrazie: smantellamento della grande industria manifatturiera, deregolamentazione del mercato del lavoro, delocalizzazione delle imprese, maggiore richiesta di skill specialistiche per i lavoratori, riduzione della contrattazione collettiva tra industria e sindacati, crescente finanziarizzazione.

Già dagli anni Ottanta questi mutamenti conducono a un ulteriore aumento del tasso di disoccupazione e acuiscono le disuguaglianze economiche e sociali tra le diverse fasce della popolazione. Gradualmente, la tradizionale “classe operaia” comincia a sgretolarsi in gruppi ristretti di lavoratori autonomi o di impiegati nei servizi, ormai privi di un’identità collettiva riconoscibile, mentre sul piano puramente elettorale le forze di ispirazione socialista o comunista si frammentano e riscontrano un progressivo calo dei consensi. Siamo appena entrati nella nuova e travagliata fase del “post-fordismo”, dello Stato sociale “post-keynesiano” e della “post-democrazia”, che per via diretta giunge fino a noi.

Da questo momento non è più possibile parlare di omogeneità di modello di sviluppo, perché ciascuna delle democrazie occidentali ha reagito diversamente alle stringenti istanze capitalistiche e, come è naturale, le mete a cui esse sono approdate differiscono tra loro. La diversità riscontrabile tra le nuove economie di mercato è un concetto introdotto all’inizio del millennio dagli economisti Peter A. Hall e David Soskice con l’opera Varieties of Capitalism[1], che ne individua la causa principale nel grado in cui, nell’economia di un Paese, le imprese sono riuscite e riescono a coordinarsi con gli altri attori sociali in gioco, come lo Stato e i sindacati.

Inserendosi nel solco di questi studi comparativi sui nuovi differenti “capitalismi”, Trigilia delinea quattro “ideal-tipi” di modelli di sviluppo a cui ciascuna democrazia si è avvicinata nel tempo, assumendo come parametro il rapporto che intercorre tra la crescita annua del prodotto interno lordo e la disuguaglianza di reddito tra i suoi cittadini. Quando si è registrato un tasso di crescita economica molto elevato, accompagnato però da forti disparità di reddito interno, si identifica un Paese come “CNI”, acronimo che ne segnala una “crescita non inclusiva” e che si applica efficacemente a Gran Bretagna e Stati Uniti. I Paesi dell’Europa continentale – tra cui la Germania – hanno goduto invece di una “CID”, ovvero una “crescita inclusiva dualistica”, ottenendo un buon rendimento del PIL ma assistendo a un divario di reddito tra due macro-gruppi di lavoratori. In una situazione ibrida e stagnante troviamo i “BCNI”: Paesi con “bassa crescita non inclusiva”, dove l’aumento del reddito interno si è rivelato scarso e le disuguaglianze di reddito decisamente marcate, spesso a causa di meccanismi di redistribuzione inefficienti. Corrispondono a questo modello soprattutto i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, tra cui l’Italia. Sono i Paesi del Nord-Europa, tuttavia, quelli su cui verterà il focus dell’opera: Norvegia, Finlandia, Danimarca e Svezia sono democrazie caratterizzate da una interessante “CIE” – cioè una “crescita inclusiva egualitaria” – poiché sotto la guida di partiti tradizionalmente socialisti, socialdemocratici e laburisti hanno conciliato un importante sviluppo economico con l’obiettivo di mantenere omogenee le condizioni salariali dei lavoratori, senza gravi squilibri.

L’autore individua precise cause determinanti la creazione di questi diversi modelli di sviluppo: esse risiedono innanzitutto nelle precedenti tradizioni politiche e socio-economiche di un Paese, che spesso ne condizionano l’evoluzione della struttura; nei modi di interazione tra i suoi attori sociali, come le imprese, lo Stato e i sindacati, dal cui grado di collaborazione – come Hall e Soskice affermano – dipende molto del rendimento economico complessivo; ma anche – e forse risulta il punto di maggiore interesse – nella tipologia di sistema elettorale che regola l’elezione degli organi di governo. Secondo studi vicini alla cosiddetta “corrente neo-istituzionalista”, infatti, anche le istituzioni che regolano i rapporti tra le “organizzazioni sociali” – come i partiti – influiscono sull’economia di un Paese democratico: un sistema elettorale a base “proporzionale” riesce a garantire una crescita economica rilevante ma anche inclusiva, mentre un sistema a base “maggioritaria” permette una crescita molto elevata ma incentiva gli squilibri sociali.

Di fronte alla preoccupante estensione delle fasce di popolazione meno abbienti e meno tutelate, tuttavia, le forze progressiste sono entrate in un profondo stato di crisi. A partire dagli anni Novanta esse si rivelano sempre più incapaci di difendere le eterogenee condizioni dell’ex classe operaia, spesso cedendo alla deregolamentazione neo-liberista del mercato del lavoro per tutelare la crescita del PIL e accondiscendendo all’ostilità del “ceto medio” verso la redistribuzione del reddito interno, per tentare di intercettarne i voti e salire al governo. La loro identità sbiadisce, il “declino” è evidente: dati alla mano, dal 2000 al 2020 i principali partiti di sinistra hanno subito un tracollo del 20% in Germania e in Francia, mentre hanno perso il 12-13% dei voti in Paesi come l’Italia. Inoltre, si è riscontrato un importante cambiamento nella composizione sociale del loro elettorato: il peso del voto dei “salariati” è scivolato da picchi del 50% a minimi del 30%, mentre i voti provenienti dal “ceto medio” sono aumentati dal 40% al 65%.

Come spiegare sinteticamente questo fenomeno? «Il dilemma dei partiti socialisti può essere formulato nei termini seguenti. Se essi vogliono governare, devono estendere il loro appello verso un elettorato di ceto medio. Ma quanto più intraprendono questa via, tanto più devono ridurre gli impegni redistributivi, perché i ceti medi sono in prevalenza ostili a questi interventi che richiedono una più elevata tassazione. Essi rischiano quindi di perdere consenso tra le classi sociali che hanno costituito le loro basi elettorali originarie e che fondano sulle aspettative di politiche redistributive il loro consenso: la classe operaia dell’industria (in declino), una parte non trascurabile di lavoratori autonomi, ma anche i nuovi salariati dei servizi a bassa qualificazione. Questi gruppi lasciano i partiti di sinistra, o più spesso non vi si sono avvicinati neanche in precedenza» (p. 134).

Al giorno d’oggi, la gravità della situazione è evidente: sono sempre di più i lavoratori che vivono sul baratro della precarietà e, per contrasto, diminuisce la rilevanza dei partiti politici capaci di difenderli. Di fronte ai fenomeni e ai dati che abbiamo cercato di ripercorrere, si ripropone con spontaneità un quesito tanto classico quanto urgente: i “capitalismi” – intesi idealmente quali “mezzi di sviluppo del benessere collettivo” – e la “democrazia” – intesa idealmente quale “tutela dell’uguaglianza sociale” – si possono in definitiva considerare conciliabili? Secondo l’opinione di molti esperti di scienze economiche, la risposta alla domanda è negativa. Essi vedono già nella crisi globale degli anni 1973-1975 il segno evidente di tale inconciliabilità, poiché da allora il primo si è potuto sviluppare proprio marginalizzando e fagocitando i principi della seconda. La lenta estinzione delle sinistre tradizionali, interessate a conseguire l’uguaglianza sociale e costrette invece a una scomoda connivenza col sistema neo-liberista, sarebbe un chiara conseguenza di questa situazione.

Non è della stessa opinione Trigilia, che invece indica con forza le cosiddette “democrazie negoziali” del Nord-Europa quale modello a cui i progressisti europei dovrebbero guardare, per imitarne la peculiare convivenza tra un’economia capitalista sviluppata e una struttura democratica ancora stabile. Questi Paesi sono stati guidati da partiti socialisti in parte “resistenti” al modello liberista, capaci di affiancare la crescita del PIL e un alto tasso di occupazione a un servizio di welfare largamente esteso, contenendo il divario di reddito tra i lavoratori e tutelandoli dai crescenti rischi di emarginazione sociale. Hanno ottenuto questi risultati innanzitutto grazie all’omogeneità della propria tradizione politica, lontana dagli scontri tra forze di ideologia radicalmente opposta, come quelli tra i partiti comunisti e i partiti democristiani dell’Europa continentale; grazie alla propria capacità di istituzionalizzare la collaborazione tra lo Stato, le imprese e i sindacati, accomunandone con efficienza gli obiettivi di sviluppo; e infine proprio grazie a un sistema elettorale a base “proporzionale”, garante di ampia rappresentanza e di inclusività, come studiato dagli economisti neo-istituzionalisti.

La tesi principale dell’opera, quindi, sostiene che solo davanti a una democrazia forte e largamente rappresentativa – detta perciò “negoziale” – il capitalismo non prende il sopravvento e trova impulsi per innovarsi, mentre la democrazia può promuovere la redistribuzione del reddito e dunque maggiore uguaglianza sociale soltanto grazie a un capitalismo forte, evitando così di subire crisi che favoriscono l’ascesa di forze politiche “populiste” o appartenenti all’estrema destra.

Questo modello, nonostante le rilevanti difficoltà pratiche, secondo l’autore può essere gradualmente trapiantato anche in Italia, Paese caratterizzato da una “bassa crescita non inclusiva” decennale, dove le disuguaglianze sociali sono elevate e la principale forza di centro-sinistra, il Partito Democratico, insieme alla propria credibilità ha perso milioni di voti da parte dei lavoratori salariati, cercando l’appoggio di un “ceto medio” che non ne ha tuttavia ricambiato le aspettative elettorali in modo soddisfacente. Per avvicinare il Paese agli esempi scandinavi, da un lato le forze di sinistra dovrebbero stilare programmi politici che favoriscano concretamente il coordinamento tra i sindacati, le imprese e lo Stato, riuscendo a limarne le diffidenze reciproche in favore di obiettivi precisi; dall’altro dovrebbero insistere sull’adozione di un sistema elettorale puramente “proporzionale”, garante di una crescita inclusiva, superando definitivamente i parziali meccanismi maggioritari adottati al giorno d’oggi. Solo così il campo progressista può sperare di acquisire nuova linfa vitale, tornando a tutelare i cittadini meno abbienti e traghettando il Paese fuori dalla “palude” economica dove è rimasto per decenni.

Un libro dei “sogni”, come lo definiscono i suoi detrattori? Confrontandosi con le voci di coloro che descrivono l’esempio nord-europeo come un modello ormai sulla via della crisi e, anche se duraturo, come non “magicamente” trapiantabile in Italia, l’autore riprende già all’inizio dell’opera alcune riflessioni dell’economista politico Albert O. Hirschman[2]. Secondo lo studioso, l’azione che espone alla comunità politica i problemi attuali e ne indica soluzioni possibili, per quanto complesse, permette agli attori in campo di impiegare la propria creatività per adottarle o addirittura per elaborare percorsi fino a quel momento inesplorati; ciò si rivela molto più utile rispetto all’adozione di un punto di vista pessimista che interpreta il cammino ormai percorso dall’Italia come austero dittatore del presente e i futuri possibili come semplici utopie, tanto da scadere nell’auto-determinismo.

Naturalmente, altri quesiti di carattere pragmatico o etico possono sorgere spontanei. Come ignorare, ad esempio, che se tutti i Paesi del globo mantenessero lo stesso ritmo delle economie nord-europee, si consumerebbero così tante risorse da terminare le riserve annuali della Terra in soltanto tre mesi? E, se si teorizzasse un monopolio esclusivo dei Paesi “avanzati” su queste risorse, come attuarlo senza ammettere che i “capitalismi” occidentali devono basarsi su neo-colonialismo e sfruttamento delle nazioni in via di sviluppo per funzionare? Il dibattito a riguardo risulta tanto urgente quanto auspicabile, di fronte ad anni che potrebbe dimostrarsi ancora più imprevedibili e difficoltosi di quelli che li hanno preceduti.


 [1] Peter A. Hall e David Soskice, Varieties of Capitalism: The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Oxford University Press, Oxford 2001.

[2] Albert O. Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, Napoli 1987; Albert O. Hirschman, Come complicare l’economia, il Mulino, Bologna 1988.

Scritto da
Niccolò Doni

Studia Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Si interessa di politica italiana e delle sue interpretazioni in chiave filosofica.

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