Scritto da Maya Adereth, Davide Ceccanti
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Giuliano Amato è stato un protagonista della politica e delle istituzioni del nostro Paese. Due volte Presidente del Consiglio dei ministri (dal 1992 al 1993 e dal 2000 al 2001), Ministro del tesoro, Ministro delle riforme istituzionali, Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Ministro dell’interno, deputato e senatore, giudice costituzionale e dal 2020 Vicepresidente della Corte costituzionale. Pubblichiamo questa intervista realizzata nella primavera 2020, inedita in italiano, e uscita in inglese il 26 gennaio 2021 nell’ambito della pubblicazione “Market Economies, Market Societies: Interviews and Essays on the Decline of Social Democracy” a cura di Phenomenal World, con la collaborazione del Think tank Agenda per il capitolo dedicato all’Italia. Si tratta del terzo contributo di un ciclo, a questo link l’intervista a Emanuele Macaluso e qui l’intervista a Claudio Petruccioli, finalizzato all’approfondimento di alcuni nodi della storia della democrazia italiana.
Quando si è unito al Partito Socialista? Quali sono state le sue prime influenze ideologiche e come sono cambiate nel corso degli anni?
Giuliano Amato: Sono entrato a far parte del Partito Socialista dopo la rottura con i comunisti nel 1956, in seguito all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. La cultura politica al tempo della mia prima iscrizione poneva l’accento sulla protezione e l’espansione dei diritti sociali: le mie prime esperienze politiche si svolsero a Carrara, in una regione montuosa della Toscana dove il marmo estratto nel corso nei secoli ha fornito il materiale per le meraviglie dei Michelangelo della storia italiana ed europea. La mia base elettorale era formata dai minatori che estraevano questo marmo e che nel 1962/63, quando il Partito Socialista considerò per la prima volta una coalizione con la Democrazia Cristiana, erano assolutamente inorriditi. Non potevano credere che il partito si sarebbe schierato con il loro datore di lavoro, l’avversario di classe. Quando si è costituita la coalizione, ho lasciato il partito e mi sono unito a una formazione di sinistra chiamata PSIUP, il Partito Socialista di Unità Proletaria. Alla fine, sono tornato dai socialisti. Ma questo dà un’idea dell’importanza della politica di classe e dei diritti sociali per me e per coloro che mi circondavano.
Il momento in cui mi sono trovato a plasmare attivamente le politiche pubbliche, diversi anni dopo, è stato anche il momento in cui il costo dei diritti sociali e l’aumento del debito pubblico ne minacciavano il futuro. C’è stato quindi un cambiamento nel paradigma culturale, non in termini di obiettivi, ma in termini di applicazione pratica. Ciò è avvenuto principalmente a causa della transizione del Partito Comunista da partito del futuro a partito del passato.
Ricordo ancora questa idea molto potente che il burro in Russia fosse di gran lunga migliore del nostro in Italia. Negli anni Cinquanta c’erano manifesti di propaganda che promettevano che un giorno non lontano avremmo avuto quel burro russo. Con la progressiva erosione del mito sovietico, questo tipo di sogno molto concreto non è rimasto efficace a lungo. A un certo punto il PCI ha iniziato a correre puramente sulla base di una promessa molto più astratta di un futuro non ben definito in cui costruire una società socialista: scompare il burro, ossia la lotta per un miglioramento prossimo e concreto delle condizioni di vita. A mio avviso, questa nuova promessa è stata molto più efficace nel pacificare il movimento operaio italiano rispetto alla strategia della Democrazia Cristiana, proprio perché si rifiutava di fare i conti con gli avanzamenti possibili nel presente e rinviava gli avanzamenti sociali a un salto di sistema irrealizzabile. Vista l’impossibilità di raggiungere obbiettivi così ambiziosi, e contemporaneamente di fissarne di più pragmatici per il futuro vicino, la battaglia politica concreta andava in realtà a coincidere con la difesa statica di quanto si era già ottenuto, una sorta di proiezione nel passato che dava risultati elettorali nel presente ma poche prospettive di evoluzione. Quindi, paradossalmente, il partito comunista ha iniziato a svolgere una funzione conservatrice nella società italiana.
La grande trasformazione avvenne nel 1968, quando le richieste popolari che si manifestavano si fecero radicali, chiedendo un cambiamento profondo anche di tipo culturale. Il Partito Comunista non ha voluto alienarsi questo nuovo movimento, “pas d’ennemis à gauche” come diceva Renoult, e lo spalleggiava senza provare a interpretarlo e direzionarlo fino in fondo. Se avesse voluto rimanere davvero rilevante in quel momento, avrebbe invece dovuto iniziare a sviluppare un programma concreto adatto al nuovo contesto, anche finanziario, che andava delineandosi già allora. Mentre la sinistra non vedeva i nuovi vincoli che ne minacciavano le conquiste, la misura delle richieste crebbe senza sosta, ancorata a un mondo che non esisteva più. Quando ero al governo, ricordo di aver proposto di aumentare le pensioni di una certa cifra. Immediatamente ci fu una proposta comunista per aumentarle di quattro volte tanto. La convinzione erronea della sinistra era che si lottava per i diritti sociali, sanciti come diritto fondamentale dalla Costituzione, il denaro fosse una questione meramente formale, solo un mezzo da reperire con una qualche soluzione tecnica.
Dato che l’Italia aveva il Partito Comunista più grande e popolare d’Europa, l’egemonia culturale del PCI era assoluta. Il mio partito invece era schizofrenico. Teneva in sé l’eredità del movimento anarchico, questa idea di libertà illimitata, che nell’era dei diritti civili ne fece un pilastro della lotta per l’aborto, il divorzio e poi l’unione tra persone dello stesso sesso. I comunisti erano legati alle masse e in un paese cattolico non erano così entusiasti di difendere il divorzio. Il nostro grande poeta e cineasta Pasolini è stato addirittura espulso dal PCI perché omosessuale. Ciò è stato sorprendente per i socialisti, ma questo è quello che è successo. C’erano poi alcuni elementi del partito ben consapevoli della necessità di bilanciare i diritti sociali con la stabilità finanziaria, ma ve ne erano altri ancor più risoluti dei comunisti nella richiesta di espansione non sostenibile dei diritti sociali. Come Ministro del Tesoro del Partito Socialista, ho lottato principalmente per convincere gli altri membri del partito che quello che stavo facendo era effettivamente necessario. Spesso i membri del PCI mi offrivano sostegno a porte chiuse, cosa che non avrebbero mai pubblicizzato. I comunisti furono esclusi dal governo agli albori della Repubblica, ma come principale partito d’opposizione cercarono fortemente di mantenere legami con l’establishment. Avevano ottimi rapporti, ad esempio, con la Banca d’Italia, istituzione ben consapevole che i diritti sociali hanno un costo e che il debito potrebbe arrivare a un livello insostenibile. Quindi anche i comunisti erano un po’ schizofrenici.
Negli anni Novanta, in gran parte a causa dei vincoli dell’europeizzazione, la necessità di limitare il deficit pubblico è diventata poi una priorità e la protezione e l’espansione dei diritti sociali sono diventate secondarie. Il cambiamento fu così radicale che assunse caratteri paradossali e anche negativi. Ricordo di aver letto un articolo in cui si era arrivati a dovere lottare per affermare l’ovvio, ossia che il sistema sanitario nazionale non esiste per risparmiare sulla salute ma per tutelare la salute dei cittadini. Sembrava che l’obiettivo fosse quello di risparmiare denaro e il vincolo la salute delle persone. In qualche modo, questo tipo di pensiero arrivò a dominare anche i partiti di sinistra, e in parte ciò è dovuto al fatto che i comunisti cessarono di formare un’opposizione efficace. Se il modello culturale a sinistra fosse cambiato prima, ossia rendendo compatibili le richieste con i vincoli, forse non saremmo arrivati a quel punto e avremmo guidato l’adattamento anziché subirlo.
Tuttavia, abbiamo subito l’urgenza e, a poco a poco, si è tagliata la spesa pubblica con criteri non sempre adeguati. Questo ha ridotto la spesa in alcuni settori chiave oltre il punto critico che consentiva il mantenimento dei diritti sociali, fino al punto in cui li ha deteriorati. La gente ha iniziato a cercare altri rappresentanti politici, finché in anni più recenti non è apparso il Movimento Cinque Stelle. A quel tempo, non riuscivamo a capire le conseguenze di lungo periodo di ciò che stava succedendo. Non siamo riusciti a vedere il momento in cui la perdita è diventata maggiore dei benefici. Le persone che hanno perso di più a causa di queste politiche, sono andate altrove. E quindi, ora, il termine socialista in Italia non esiste più. Dopo una lunga e gloriosa storia, è diventata quasi un insulto negli anni post-tangentopoli, fino a essere quasi dimenticato.
Le vorrei chiedere di parlare più in dettaglio delle trasformazioni che il partito socialista ha subito tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Sul versante ideologico, i dibattiti su «Mondoperaio» condotti da Norberto Bobbio, lei, e altri intellettuali dell’epoca, hanno contribuito al rinnovamento del modello italiano di socialismo riformista, sfidando l’egemonia comunista a sinistra. Politicamente, invece, c’è stata una trasformazione del PSI con il passaggio da De Martino, paladino dell’ “Alternativa”, alla nuova linea Craxiana. Si osserva già dal rapimento di Aldo Moro: comunisti e socialisti rompono. I conflitti crescono con il passaggio agli anni Ottanta, ma all’inizio degli anni Novanta sembra nuovamente esserci spazio per un tentativo unitario.
Giuliano Amato: C’era, in effetti, un gruppo di intellettuali, di cui io facevo parte, che negli anni Settanta orbitava intorno a «Mondoperaio». Bobbio ne era il padre principale, un padre molto attivo e presente. Questo gruppo stava sfidando le basi della costruzione comunista, principalmente affermando che i principi di libertà e socialismo sono inseparabili, fino anche a coincidere. C’era, in questo senso, un ritorno alle origini e un rinnovamento del socialismo pre-marxista, sopravvissuo poi anche ai marxisti, simboleggiato dai garofani e dalle rose che avevano preceduto la falce e il martello. Abbiamo sostenuto che unificando tutte le manifestazioni del potere, il disegno comunista ha in realtà distrutto la libertà che pretendeva di portare. Il 1968 e le spinte che ne derivavano nell’Est come nell’Ovest, inclusa l’esplosione del movimento femminista, permisero ai socialisti di distinguersi ideologicamente dal partito comunista in un modo più allettante di quelle separazioni avvenute nel 1956.
L’esito elettorale di questa separazione è stato però un disastro. Mentre concludevamo che i giovani volevano più libertà, e non più comunismo (e avevamo ragione!), nelle elezioni del 1976 siamo rimasti sotto il 10%, mentre i comunisti hanno ottenuto un risultato eccezionale, superando il 34%. Erano il bersaglio legittimo della nostra battaglia culturale, ma i giovani li hanno votati perché, come dicevo prima, il PCI non proponeva più un futuro rischioso ma le sicurezze del passato. La lezione è semplice. La raccolta degli articoli di «Mondoperaio» di quegli anni, tutte le pagine scritte da Bobbio, Galli della Loggia, Cafagna, Benzoni e altri, io la conservo con orgoglio ma, se si vogliono ottenere voti, va cambiato approccio perché questo non ha funzionato.
Dopo il fallimento del ‘76, De Martino ha dovuto dimettersi. Arrivò Craxi, un giovane nordista, a sostituire il professore del Sud. Craxi era un anticomunista? Credo di sì, visto che sosteneva che la coalizione delle sinistre fosse innaturale. Tuttavia, ricordava anche che il nostro destino sarebbe stato prima o poi proprio quello di formare una coalizione di sinistra, come aveva fatto Mitterrand in Francia, a completamento di un progressivo bilanciamento della forza elettorale dei comunisti. Quello che Craxi aveva capito, ma non ha mai accettato pienamente, è che c’era una specificità nel Partito Comunista Italiano in quanto questo era profondamente e solidamente italiano. Quindi un partito guidato da intellettuali pragmatici, relativamente autonomo, protagonista convinto della vita democratica. Non era, come altri partiti europei, dipendente dall’Unione Sovietica. Questo perché la maggior parte dei membri originali che si erano uniti al partito negli anni Trenta erano più antifascisti che comunisti. Entrarono nel partito comunista perché era l’organizzazione più efficiente per combattere il fascismo, l’unica radicata in tutta Italia anche negli anni più bui della dittatura. Se guardiamo le biografie di giganti come Giorgio Napolitano, Alfredo Reichlin, Giorgio Amendola, vediamo le vite di una generazione di adolescenti che si è accorta di vivere in un paese fascista negli anni delle leggi razziali. Volevano ribellarsi a quel regime e il Partito Comunista era il veicolo meglio organizzato per farlo.
Tra coloro che sostenevano la leadership di Craxi c’erano due gruppi: il primo, che riteneva che una coalizione di sinistra fosse qualcosa a cui avremmo dovuto tendere in futuro, e il secondo, di cui facevo parte, che voleva perseguire la coalizione immediatamente. In quegli anni Pertini era Presidente della Repubblica, e io, in quanto Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, lo andavo a trovare ogni settimana per informarlo dell’attività di governo. Dopo i primi cinque minuti di effettivi aggiornamenti, passavamo sempre a discutere di altre cose. Una cosa che mi ha ripetuto diverse volte è che mentre nel 1948 si era opposto al fronte unitario di socialisti e comunisti sotto l’immagine patriottica di Garibaldi (la somiglianza di Garibaldi con San Giuseppe veniva anche sfruttata per fare appello all’elettorato cattolico), Pertini trascorse il resto della vita a lottare per ristabilire l’unità della sinistra.
Craxi non ha mai negato che l’unità fosse fattibile, e negli ultimi anni della sua leadership ha iniziato a fare dei passi in tal senso. Capì che era necessario e, nel ‘91/92, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, era una possibilità concreta. Ma il Partito Socialista è morto prima che potesse mai accadere. Craxi era certamente un centralizzatore. Voleva che l’approvvigionamento finanziario del partito fosse sotto il suo controllo. Quindi quel finanziamento illegale, che era un fenomeno generale, è passato direttamente attraverso di lui. E legalmente questo ha fatto la differenza. Mi ritrovo oggi a discuterne nel ventesimo anniversario dalla morte di Craxi.
Ricordo ancora il marzo del 1991, quando lo scandalo della corruzione non era ancora scoppiato e i comunisti erano già diventati il Partito Democratico della Sinistra. Proposi a Craxi di aprire un nuovo capitolo e venni quindi inviato a discutere con i leader comunisti. L’ex PCI e nuovo PDS aveva appena cambiato il simbolo con quello di una bella quercia e i suoi dirigenti non volevano andare alle elezioni perché temevano che il loro elettorato non avesse ancora familiarità con questo nuovo simbolo e avesse bisogno di più tempo possibile per digerire l’enorme, a tratti drammatica, evoluzione. Mentre dirigevo il mio primo governo, nel dicembre 1992, ho poi condotto diverse conversazioni con Achille Occhetto, l’ultimo segretario generale del PCI. Puntavamo a una convergenza reale e, quindi, gli dicevo come non fosse essenziale che sostenesse pubblicamente la necessità, che pure in privato riconosceva, del duro lavoro che mi ero ritrovato a fare con il taglio delle pensioni e il congelamento dei salari. Gli ho proposto invece di superare quel capitolo per aprire una nuova fase di unità. Egli voleva sinceramente l’unità, ma non poteva farlo finché Craxi, inviso alla galassia PCI, fosse rimasto il nostro leader. Nel 1992, Craxi aveva sì adottato una posizione di unità socialista, ma la concepiva quasi come una resa comunista rispetto alla scissione del 1921. Ma l’unità è una fusione, non un’acquisizione. Ci sono insomma molte contingenze che avrebbero potuto favorire la nostra capacità di formare una coalizione per poi ritrovare l’unità e cambiare la politica italiana, ma la dura realtà è che ciò non si concretizzò.
Vorremo raccogliere il suo pensiero su tre riforme specifiche: la prima, il “divorzio” Banca d’Italia-Tesoro nel 1981; la seconda, la trattativa salariale dal 1984 fino alla completa abolizione della scala mobile nel 1992; infine, la riforma delle pensioni nel 1992. Cosa pensava all’epoca? Che giudizio ne dà oggi?
Giuliano Amato: Nonostante le difficoltà, lo considero un periodo felice perché eravamo ancora in grado di attuare riforme progressiste. Non eravamo ancora nella fase di dover chiedere sacrifici alla gente, come è stato poi attorno alla fine del secolo. In quel periodo si trattava di integrare i diritti sociali in un quadro fiscale generale: se il debito di qualsiasi cittadino ha un costo, non può essere che il debito del Tesoro non abbia alcun costo. Abbiamo creduto erroneamente di poter continuare a sostenere i costi di ulteriori conquiste grazie ai bassi tassi di interesse, mentre si conteneva l’inflazione che erodeva salari e risparmi, e si garantiva l’aggancio italiano al progetto europeo. Questa era l’idea alla base del “divorzio”. Molte persone pensano che questa scelta, magari unita all’eccessiva spesa corrente, abbia portato all’aumento del debito, ma la catastrofe successiva fu invece dovuta al debito accumulato negli anni Settanta e reso troppo pesante dal rialzarsi dei tassi sui livelli naturali di mercato. All’epoca fu quindi una scelta progressista.
Le riforme sull’indicizzazione dei salariali del 1984/85 hanno avuto origine nei sindacati. Quando ero a capo dell’istituto di ricerca della CGIL, l’IRES, abbiamo studiato l’impatto delle indicizzazioni salariali sui salari dei lavoratori e sul potere contrattuale sindacale, in un contesto di alta inflazione. Ci siamo resi conto che l’inflazione era una minaccia per la nostra attività sindacale, perché gli indici assorbivano tutti gli aumenti ottenuti e vanificavano l’effetto dei nostri negoziati: i sindacati rischiavano di essere inutili nella determinazione del salario. Abbiamo quindi cercato di rallentare il ritmo dell’indicizzazione al fine di preservare il potere negoziale dei sindacati nel lungo periodo. Nel 1984, avevamo adottato una misura piccolissima, tagliando di soli 3 punti percentuali l’indicizzazione col famoso decreto di San Valentino. Ci sentimmo davvero progressisti rispetto a un PCI che difendeva un sistema a pezzi così com’era e, di conseguenza, ne metteva a rischio la sopravvivenza. Fu quindi davvero straordinario scoprire di aver dalla nostra la maggior parte dei lavoratori, come reso evidente dalla vittoria nel referendum del 1985 (cosiddetto referendum sulla scala mobile) contro la maggioranza del Partito Comunista. Il percorso si concluse nel 1992 con la totale abolizione.
Anche la mia riforma delle pensioni del 1992 è stata progressista. Il tema delle pensioni è legato certamente alle dinamiche demografiche e alla sostenibilità finanziaria di lungo periodo, ma non solo a questo. Per chi si dice di sinistra, si tratta infatti anche di una questione di eguaglianza. A quel tempo, vi erano enormi disparità di trattamento tra generazioni (ancor più di ora), tra pubblico e privato, e così via. Alcune persone erano in certi casi in grado di ottenere la pensione attorno ai 30 anni, vivendo diversi decenni potenzialmente produttivi a spese dei lavoratori attivi. Alcuni privilegi erano riservati non già a chi ne aveva bisogno, come nel giusto caso delle pensioni anticipate per i lavori usuranti, ma invece a categorie semplicemente ingiustificabili e che quindi sottraevano risorse al resto della spesa sociale. Ad esempio, dal 1973 le madri sposate, che pure iniziavano finalmente a essere libere di entrare nel mercato del lavoro e auspicabilmente a condividere il lavoro domestico, potevano ottenere una pensione con meno di 15 anni di contributi e gli impiegati della pubblica amministrazione con appena 20 anni. Ho detto no alle “baby pensioni” e ho cercato di costruire un sistema di welfare più universale, piuttosto che basato su privilegi di categoria. Questo percorso è completo solo in parte, basta guardare al peso della nostra spesa pensionistica rispetto ad altri paesi, ma i suoi meriti, agli occhi dell’opinione pubblica, mi sembrano più chiari che in passato.
Mi sento di concludere con una breve considerazione. Sono convinto che l’equilibrio che ho perseguito tra il costo dei diritti e la loro espansione sia la via maestra per garantire priorità alle tre dimensioni dell’uguaglianza, dell’equità e della redistribuzione. La misura di quanto questo abbia funzionato, oltre le contingenze e i limiti di quei momenti storici, dipende da quello che ne è seguito e ne seguirà. Per questo, occorre che la sinistra, guardando ai meriti e agli errori del passato, continui sempre a chiedersi se la propria battaglia rispecchia davvero le necessità dei tempi. Se risponde nel modo giusto, saprà essere ancora la forza del futuro.