La sinistra e l’apporto delle culture di ispirazione cristiana
- 29 Maggio 2020

La sinistra e l’apporto delle culture di ispirazione cristiana

Scritto da Claudio Sardo

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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.


Condivido molte considerazioni di Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice, e ancor più lo spirito che li anima nel cercare un fondamento ideale e culturale alla progettualità necessaria per correggere la società dei diseguali, rivitalizzare la democrazia, restituire alla politica quella forza di cambiamento che, sola, è in grado di generare partecipazione, passione, fraternità, prassi di giustizia.

È suggestiva l’idea che un nuovo socialismo democratico possa, non soltanto ridare animo alla sinistra nell’affrontare le sfide dei tempi nuovi, ma anche aiutare il liberalismo a ritrovare l’umanesimo delle sue origini e uscire così dalla gabbia del neoliberismo, che ne ha corrotto le matrici antiche e che pretende di affermarsi come lingua universale dell’economia, del mercato, della società, se non addirittura come nuova “legge naturale”.

Del resto, il senso politico del saggio di Provenzano e Felice mi pare proprio quello di consentire, attraverso una nuova “intesa” tra liberalismo e socialismo democratico, una rinnovata convergenza dei produttori (di beni materiali e immateriali), un rilancio del lavoro (lavoro per tutti) come linfa vitale di uno sviluppo orientato alla sostenibilità, un ritorno dello Stato (e del pubblico) come propulsore e costruttore di crescita intelligente, di equilibrio sociale, di diritti, di conoscenze, di opportunità diffuse pure in un contesto di libertà nel mercato. Di fronte all’incalzare di nuove destre, che rielaborano in chiave populista le nostalgie dello Stato-nazione (attraendo parte di quei ceti che hanno conosciuto, grazie alla sinistra, il volto securizzante dello Stato del Welfare), sono necessari un pensiero, e un’azione politica, capaci di ricostruire un orizzonte democratico, e anche un orizzonte europeo, più largamente condivisi e capaci di generare coesione sociale.

Occorre mobilitare forze, risorse civili. È necessario allargare il campo, cercare il confronto e l’incontro, con l’obiettivo di dare basi solide e popolari all’impresa comune. Già la Terza via degli anni Novanta tentò una sintesi di liberalismo e socialismo: comprendemmo allora, tra l’altro, quanto fosse sterile un “riformismo dall’alto”. Provenzano e Felice hanno chiara memoria di quella esperienza e la loro ricerca è protesa a un superamento. Operazione che richiede nuove relazioni tra lo sviluppo orizzontale della società e la verticalità del potere. D’altronde, le crisi della politica e della democrazia in Europa e in Occidente hanno sì a che fare con i processi globali e con le mutazioni geopolitiche, ma si incarnano nelle fratture sociali, nelle esclusioni, nelle paure delle classi medie, non da ultimo nell’illusoria dilatazione dell’Io che rischia di non riuscire più a comporre il Noi.

E tuttavia, pur sentendomi pienamente partecipe di questo sforzo di rielaborazione, l’accostamento tra liberalismo e socialismo democratico ha suscitato in me una domanda che riguarda la considerazione della matrice cattolico-democratica e cristiano-sociale nella definizione di un profilo contemporaneo della sinistra. Il cattolicesimo democratico e il cristianesimo sociale nascono, e si strutturano, come critica della dottrina liberale e di quella socialista. Se la Rerum novarum (1891) di Leone XIII (il primo riconoscimento della questione operaia da parte della Chiesa) individua nel marxismo l’avversario emergente, il pensiero sociale cattolico definisce poi i suoi paradigmi nel corso del secolo, e ancor più dopo il Concilio, marcando le distanze tanto dal liberalismo quanto dal socialismo. Le indicazioni pastorali sono iscritte in una filosofia imperniata sul primato della persona, sul diritto al lavoro come condizione di dignità umana, sul valore delle famiglie, dei mondi vitali, delle comunità che preesistono rispetto allo stesso ordinamento, sulla solidarietà e la sussidiarietà come valori-guida che possono e devono arginare le tendenze totalitarie sia dello Stato, sia del mercato. L’umanesimo integrale di Jacques Maritain e il personalismo di Emmanuel Mounier hanno rielaborato questi principi, dando forza a un cattolicesimo politico che è divenuto componente essenziale delle democrazie europee del dopoguerra e dei “Trenta gloriosi”. È difficile pensare al compromesso storico tra capitalismo e democrazia in Europa senza l’apporto del pensiero cristiano (tanto di matrice cattolica, quanto di matrice protestante). Peraltro il cattolicesimo democratico si è fatto anche argine per respingere tentativi reazionari, entrando non di rado in tensione con le stesse gerarchie ecclesiastiche, quando tra di esse tendevano a prevalere richiami conservatori o tradizionalisti.

Se il contrasto con il marxismo verteva sin dai primi del Novecento sull’ateismo, sulla pretesa preminenza dello Stato rispetto al valore originario della comunità, sul valore salvifico attribuito al conflitto di classe, la critica del liberalismo ha avuto nel clima conciliare e post-conciliare una definizione matura, tale da prefigurare lo sviluppo dei tempi successivi: il cristiano “che vuole vivere la sua fede in un’azione politica intesa come servizio” non può dare la propria adesione «all’ideologia liberale, che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola ad ogni limite… e considerando la solidarietà sociale come conseguenza più o meno automatica delle iniziative individuali e non già quale scopo e criterio più vasto della validità delle organizzazioni sociali». È una citazione della Octogesima adveniens di Paolo VI (1971). Aiuta bene a comprendere il senso di un cammino, avviato per i cattolici italiani con il Codice di Camaldoli e con il patto costituzionale, che si è poi arricchito nel confronto con la società, ha favorito l’allargamento delle basi democratiche, è stato motivo di crescita culturale per la stessa sinistra (la quale, in Italia, aveva la sua forza principale nel più grande partito comunista d’Occidente).

Certo, nella storia del pensiero politico e nello sviluppo delle vicende repubblicane, per restare al nostro Paese, non poco rilievo ha avuto anche il filone del cattolicesimo liberale. Se il cristianesimo sociale ha valorizzato il tema dell’autonomia dei corpi intermedi, ha spinto per l’unità sindacale, si è battuto per l’uguaglianza (vedi Ermanno Gorrieri) oltre la soglia dell’equità nei redditi da lavoro, ha posto la questione del contrasto alla povertà, e dunque degli esclusi dai processi produttivi, il cattolicesimo liberale ha contribuito a delineare un ordinamento, fondato sui limiti e sull’equilibrio dei poteri.

Nel procedere degli avvenimenti le linee di confine sono state poi più volte scavalcate, e si sono prodotte contaminazioni e interdipendenze. Ma ecco il punto su cui intendevo soffermarmi: senza questi apporti – di pensiero e di esperienze – provenienti dalle matrici cattolico democratiche e cristiano sociali un incontro tra liberalismo e socialismo, pur su basi rinnovate, potrebbe rischiare di celebrarsi nel segno di un prevalente economicismo. Il valore del lavoro, e il lavoro come valore irrinunciabile per la dignità della persona, e per la sua partecipazione attiva al destino della società, non reclamano soltanto una più ordinata struttura produttiva, una migliore organizzazione civile, un mercato più equilibrato, non alla mercé delle forze dominanti. Ovviamente, si tratta di obiettivi politici ed economici di importanza capitale: è pur sempre nella concretezza dei conflitti di interessi e delle dinamiche sociali che si misurano le idee di libertà e giustizia. Ma siamo sicuri che, in una società dove l’economia ha acquisito una chiara posizione egemonica, si può ribaltare la sfida usando solo le leve, e il campo di gioco, che hanno sancito il successo neoliberista? È vero, le crisi del 2008, e ora quella ancor più profonda provocata dalla pandemia, hanno mostrato tutti i limiti del modello (e della cultura) turboliberale: ma su quali forze poggiare una nuova progettazione sociale, se non si ricompone il quadro lacerato di una politica, oggi incapace di tenere insieme etica e visione, passione e coerenza, concretezza nei traguardi a breve termine e ideali che vanno oltre le attuali compatibilità? La crisi della democrazia, sui cui riflettiamo, non riguarda tanto la crisi dei suoi ordinamenti, bensì la fragilità dei suoi presupposti (come diceva Ernst-Wolfgang Böckenförde), cioè di quelle pre-condizioni culturali, morali, civili che l’ordine democratico di per sé non può imporre, ma senza le quali non può vivere.

Non muovo una critica a Provenzano e Felice, perché in tutta evidenza il loro sforzo va in direzione di superare ogni interpretazione economicista. Ma proprio lavorando in questa prospettiva avverto come irrinunciabili gli apporti creativi che scaturiscono anche da radici – come quelle religiose – costitutivamente orientate a superare il confine fra struttura e sovrastruttura. Lo sviluppo integrale della persona non è soltanto obiettivo della politica: può anche essere strumento di una nuova politica che muove dalla condizione attuale di sudditanza rispetto all’economia, alla finanza, ai mercati.

Non vorrei che un rinnovato incontro tra liberalismo e socialismo avvenisse ancora una volta nel segno di una prevalenza liberale – con i paradigmi che si sono consolidati nel tempo, e non con quelli della più remota origine – proprio perché, nella globalizzazione, il primato dell’economia risultasse sostanzialmente immutabile. Non riuscirei a dire meglio di Laura Pennacchi, che nel suo contributo a questo dibattito, ha posto come traguardo di un pensiero politico all’altezza dei tempi, appunto, la capacità di «identificare una chiave di lettura che non riproduca la dicotomia struttura/sovrastruttura e, anzi, congiunga componenti “economiche” (in grado di riflettere il disagio materiale), componenti “culturali” (di reattività verso i cambiamenti nei costumi e negli stili di vita), componenti “valoriali” e “morali”». Il bel libro di Laura (De valoribus disputandum est) è un tentativo serio e un incoraggiamento a inoltrarsi su questo sentiero ancora poco battuto.

Sia chiaro, il percorso che abbiamo davanti è inesplorato per gli stessi cattolici. Anche la dottrina sociale della Chiesa vive tutte le incertezze del cambio d’epoca. Tanto che non riesco a interpretare il profetico magistero di papa Francesco come una fase ulteriore, e progressiva, del filone cominciato con Leone XIII. A mio giudizio, la “rottura” di Francesco ha a che fare, invece, con un giudizio storico sulla crisi dello stesso Occidente. Quell’Occidente che tanto deve all’inculturazione cristiana – e che al cristianesimo è legato nelle radici più profonde, a partire da quei principi di libertà, di laicità, di uguaglianza, che pure in diversi passaggi sono stati contestati, o frenati, dalle istituzioni della Chiesa – ora non detiene più la supremazia nel mondo, e anzi è attraversato da incertezze, ansia, timori di decadenza. Al relativismo e agli altri “ismi” denunciati da Benedetto XVI come rilevatori di una crisi antropologica, Francesco non ha reagito con una difesa a oltranza della tradizione teologica, filosofica, morale, non si è prestato a erigere bunker di fronte all’integralismo islamista o alla secolarizzazione incalzante, ma ha scelto di tornare al Vangelo sine glossa, tentando di preservare il kerigma della fede cristiana per evitare che le eventuali macerie di una cultura o di una civiltà possano travolgere il cuore di un Annuncio, che per sua natura va oltre le culture e le organizzazioni sociali.

Penso che questo coraggioso cambio di prospettiva abbia più di qualche ricaduta sui temi che stiamo affrontando, e interroghi anzitutto i credenti sulla loro presenza politica e sociale. L’umanesimo integrale è diventato con questo Papa “ecologia integrale” (enciclica Laudato Sì) che tiene insieme inviolabilità dell’uomo, equilibrio della natura, sviluppo sostenibile, diritti individuali e sociali. La denuncia della “economia che uccide” è divenuta difesa a oltranza, e anzi rivendicazione – non mediabile – di un lavoro, di una casa, di una terra per ogni persona. Il principio di accoglienza e di solidarietà per gli immigrati, gli esclusi, gli “scartati” è stato eretto a dovere sociale, che nessuna convenienza e nessuna compatibilità possono attenuare davanti alle coscienze. La radicalità di Francesco appare essa stessa una risposta alla disintermediazione diffusa. Di radicalità si sente più bisogno proprio perché i molteplici agenti della mediazione sociale sono tutti, per vari motivi, in affanno. È un tema di non poco conto per la sinistra e per il suo radicamento popolare: ripropone in termini nuovi la conciliazione tra l’integrità dei valori e la capacità di governo. E sfida la dimensione personale, chiedendo testimonianze coerenti, non ultima la capacità delle rappresentanze politiche di condividere le condizioni di coloro che intendono rappresentare. Ecco la struttura e la sovrastruttura che tendono a perdere i confini. Del resto, i vettori dei cambiamenti in atto – tecnologie, modi di produzione, modelli sociali, iper-connessioni, desideri sempre più globalizzati – sono tutti difficilmente inquadrabili in settori predefiniti ma tutti oggi incidono sullo stesso dato antropologico.

Anche per i credenti la sfida è altissima e l’esito non è scontato. La cultura della mediazione è stata fin qui l’ingrediente più usato dal cattolicesimo politico per affrontare la modernità. Non c’è dubbio che questo papato, che pure spinge l’interpretazione del Concilio nel senso voluto per decenni dai credenti più sensibili al tema sociale, rompe i paradigmi della tradizionale mediazione “cattolica”. Il vento della profezia spiazza molti. Non è un caso che, al netto degli oppositori dichiarati, tanti credenti restano in silenzio davanti ai richiami del Papa, fingono di non sentire, minimizzano la portata di parole così impegnative (che non possono restare senza coerenti “conseguenze” sociali).

La mediazione politica e sociale non è più responsabilità della Chiesa-istituzione, ma è affidata ai laici credenti, i quali nella laicità della vita civile sono chiamati a essere fedeli alle loro convinzioni e ai loro principi. Si possono così aprire spazi ulteriori per prassi e incontri proficui. Ad esempio, potenziando il ruolo delle comunità, delle formazioni sociali, del volontariato nel sistema di Welfare, in modo da migliorare la qualità dei servizi e garantire i diritti universali con una pluralità di attori. Si aprono spazi per una equa ripartizione del lavoro, in modo che esso sia più conciliabile con i tempi di vita, con la cura, con la socialità delle persone. Si apre lo spazio per politiche dell’immigrazione finalmente solidali, razionali, convenienti. Si apre lo spazio per una grande condivisione dello sviluppo sostenibile, con la conversione che esso richiede nei comportamenti, nelle responsabilità sociali, nelle strategie di impresa, nella stessa capacità di governo da parte delle istituzioni pubbliche.

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo può essere un grande acceleratore di cambiamento. Può darsi che all’idea stessa di modernità e di progresso saremo più propensi ad affiancare giudizi di qualità. Le radici umanistiche delle culture possono trovare occasione di nuovi scambi, e fornire la spinta per nuovi salti in avanti. Scriveva Mounier: «Ogni cultura è trascendenza e superamento. Se essa si arresta, diviene incultura: accademismo, pedantismo, luogo comune. Se non mira all’universalità, si insterilisce nella specializzazione. Se confonde l’universalità con la totalità statica, si cristallizza nel sistema».

Scritto da
Claudio Sardo

Giornalista, è stato direttore de «l’Unità». Con Carlo Felice Casula e Mimmo Lucà ha pubblicato di recente per il Mulino una storia del movimento dei Cristiano sociali, con il titolo “Da credenti nella sinistra”.

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