La sinistra italiana e il liberalismo
- 25 Aprile 2015

La sinistra italiana e il liberalismo

Scritto da Marco Rotili

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Questo articolo si inserisce in un dibattito promosso da Pandora sulle categorie di liberalismo, liberismo e neoliberismo. Leggi gli altri contributi sul tema usciti finora:

1) Le due facce della medaglia neoliberale

2) Il neoliberismo di destra e di sinistra. Note a una presentazione


Nella recente storia Repubblicana, contrariamente a quanto si è spesso letto, detto e pensato, esiste un sottile e spesso celato legame tra la “sinistra italiana” e l’ideologia liberal-liberista. Obiettivo di questa trattazione è innanzi tutto quello di ricostruire questo sottilissimo filo rosso, andando a ripercorrere brevemente gli eventi storici che hanno suggellato questa particolare, per dirla alla Aldo Moro, “convergenza parallela”; in un secondo momento cercheremo di capire come, al giorno d’oggi, tale “convergenza” possa finalmente divenire non più “parallela”, ma possa ben rappresentare una vera e propria base politico-culturale della sinistra moderna.

Nel rapporto con l’ideologia liberale c’è, innanzi tutto, uno dei maggiori paradossi della storia del Partito Comunista Italiano (PCI). Innanzi tutto giova ricordare come tutta l’architettura costituzionale e normativa dell’Italia Repubblicana, derivi essenzialmente da un’unica grande matrice ideologico culturale: l’Antifascismo. Di questo enorme movimento il PCI costituiva l’ala militarmente e, in alcuni territori, politicamente più forte. Il patto tra il PCI, la Democrazia Cristiana e gli altri partiti così detti “laici” nasce proprio dall’humus culturale antifascista ed antitotalitario. Ecco che la cultura liberale in senso più ampio è già fermamente presente, ancorché minoritaria in termini di rappresentanza politica, all’interno dell’Assemblea Costituente. Emblematico esempio giuridico di quanto fin ora affermato è il disposto dell’articolo 411 della nostra Costituzione. Il primo comma di tale articolo va a delineare proprio la forte matrice liberale del pensiero dei padri costituenti; segue un secondo comma chiaramente legato alla matrice individual-sociale della c.d. “dottrina sociale della chiesa”; il tutto si conclude con un comma che richiama una seppur velata esigenza di “pianificazione economica”, istanza tipica del fronte social-comunista. Tale mediazione, rappresentata formalmente dall’intercedere dei 3 commi citati, assume un’importanza fondamentale per comprendere la necessità di un equilibrio tra forze politiche assai differenti, unite dal minimo comun denominatore della tutela da qualsiasi regime di stampo fascista o comunque totalitario. Ma a ben vedere tale estrema mediazione, per un banale elemento numerico, deve aver avuto il pieno, ancorché travagliato, appoggio dell’allora PCI che in quella circostanza, con un forte slancio di togliattiana Realpolitik, riconosce indirettamente la matrice capitalistico-liberale della Repubblica (disconoscendo, per logica conseguenza, la matrice totalitaria del regime sovietico-stalinista).

Fin qui però parliamo di disquisizioni formali, che, solo in parte, potrebbero interessare qualche “fanatico giurista”. Iniziano infatti gli anni ’50 e ’60, il boom economico, e le sorti del PCI si distanziano anni luce da quelle delle forze liberali. Siamo in piena guerra fredda ed il mondo è diviso in due enormi apparati ideologico-militari, apparentemente schierati anche all’interno del nostro paese. L’ideologia comunista e, soprattutto, il movimento studentesco, credono in una società diversa, migliore; si parla di collettivismo, di cogestione, di redistribuzione. Il partito comunista in questo momento è “in mezzo a due fuochi”: da un lato il movimento e la galassia extraparlamentare, dall’altro, a seguito della nascita del centro-sinistra fanfaniano, i partiti di governo. In questa fase il PCI mostra, almeno formalmente, una forte diffidenza verso le istanze liberali; da un lato, infatti, rifiuta in toto la “società borghese” rappresentata dai partiti di governo e dagli USA, dall’altro si dimostra spesso freddo verso le istanze, anch’esse in qualche modo “liberali”, di rinnovamento dei costumi, di liberazione della donna e di “laicizzazione” dello stato (in termini di geometrie politiche il fronte elettorale del PCI viene attaccato “da destra” e “da sinistra” da istanze del mondo liberale, inteso sia come concezione liberal-capitalistica di sviluppo economico, sia come “istanza di liberalizzazione dei costumi e degli assetti gerarchici della società”). Ed è in tale contesto che vengono in auge gli studi di Norberto Bobbio sul “liberal-socialismo”. In questa fase le istanze moderatamente liberali trovano spazio nel PSI, ormai divenuto “partito di governo” il quale, insieme al partito radicale ed agli altri partiti laici di governo, porterà avanti le battaglie “laiche” (referendum su divorzio e aborto) ed il processo di riforma liberale dell’economia. Invero in quegli anni esistevano due aree del pensiero economico liberale. Oltre al liberal-socialismo (figlio del partito azionista e legato agli ambienti del PSI), vi è il liberalismo-conservatore, che trovava spazio nel PRI e nel PLI, unici sostenitori “puri” dell’occidentalismo, dell’indirizzo politico economico liberista e, dunque, dell’egemonia politica americana. E qui vi è il primo grande spaccamento del fronte liberale: da un lato il liberalismo conservatore, estremamente minoritario come consenso elettorale; dall’altro il “liberalismo di sinistra”, sostenuto da gran parte del mondo intellettuale, “ospitato” nel PSI e nel PSDI, e soprattutto oggetto di simpatia da parte della nascente area “migliorista” del PCI2. Ed è qui che nasce il primo incontro, il primo collante inter-partitico di quell’ideologia “liberal-socialista” (o meglio liberal-sociale), presente nella DC di sinistra (pensiamo alla scuola economica di Nino Andreatta, dai cui insegnamenti sono usciti uomini politici del calibro di Romano Prodi e di Enrico Letta), nel PSI, ed addirittura nel PCI (attraverso la citata ed “eretica” area migliorista). Fin qui disquisizioni teoriche. Appare forse più utile capire la sostanza di un pensiero filosofico che avrebbe dovuto trasmettersi, almeno a parere di scrive, nella società di quegli anni. Cos’è il liberalismo sociale? Cosa rappresentava quella grande intuizione di Bobbio in termini pratici? Il liberale crede nella libertà di iniziativa economica e, come tale, riconosce la “diseguaglianza del reddito” come elemento fondante ed addirittura positivo della società. Di contro il socialista-liberale crede nella re-distribuzione del citato reddito: da un lato, quindi, il “liberare” le forze economiche migliori dall’egemonia del controllo pubblico; da un lato l’innesto di strumenti, questa volta ovviamente pubblici, di redistribuzione del reddito e di tutela della fascia più debole della società. Lo Stato quindi non è più “giocatore” dell’economia nazionale, ma diviene “arbitro” del buon equilibrio tra le forze economiche private; non più l’intervento diretto del “Leviatano”, bensì un accorto e tutelativo investimento sul miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli (il c.d. welfare state). Sembrerebbe semplice; purtroppo, nel contesta geo-politico della guerra fredda tale lungimirante approccio rimase certamente schiacciato tra il cattolicesimo conservatore (e comunque statalista) e l’altra grande “chiesa”, rappresentata dall’ideologia social-comunista.

Chiusa questa piccola parentesi “sostanziale”, con la promessa di riprenderla nel finale, vorrei ricordare un altro passaggio cruciale della storia politica italiana. Siamo nel 1981 ed Eugenio Scalfari, fondatore di “La Repubblica” ed alfiere della sinistra liberale post-azionista, intervista Enrico Berlinguer sul tema scottante della “Questione Morale”. Il segretario del PCI compie in quella sede un’operazione politica di matrice finissima. La lucida analisi del segretario del PCI è un j’accuse contro il malcostume della mala-amministrazione e contro i suoi attori, il c.d. “regime partitocratico”3. Molti analisti politici dell’epoca colsero in quell’intervista una critica ai partiti di governo coerente con una sovrastruttura anticapitalista ed antigovernativa. Logica conseguenza di tale approccio sembrava essere una sorta di superiorità “aventiniana” degli amministratori del PCI, con tanto di annessa “spocchia” aristocratica. Ma tale interpretazione non può che decadere alla luce di una più attenta disamina dell’intervista in questione. Da un lato, infatti, il leader del PCI non rinnega certo in tal sede la visione di una società “diversa e migliore”; di contro il suo attacco non si rivolge certo alla “società capitalistica” tout court, bensì a “quella società capitalistica”! Ed ecco che Berlinguer denuncia la corruzione, la mancanza di meritocrazia nella selezione del personale, la spartizione della cosa pubblica. Segue il Rapporto di Apertura del XVI Congresso del PCI (siamo nel 1983), dove sempre Enrico Berlinguer denuncia l’elevato livello di debito pubblico (siamo all’80% del PIL contro l’attuale 130%!4), addirittura “i guasti di una società devastata dal corporativismo e dall’assistenzialismo” e, orrore orrore per il comunista duro e puro, arriva a dire qualche mese dopo che “il perimetro dello Stato nell’economia è già abbastanza avanzato” (sic!). Certo, il centralismo democratico ancora vigente in quegli anni non consentiva un’aperta critica ed un aperto dibattito programmatico attorno ai temi citati; di contro è innegabile che tali approcci, ancorché seguiti da più d’una retromarcia, sono degli assist immancabili al mondo liberale dell’epoca, anch’esso apertamente critico con la gestione “corporativa, assistenziale e clientelare dei partiti di governo”. Prova ne è che è proprio in quegli anni che nelle liste dei c.d. “indipendenti di sinistra” vengono candidati economisti del calibro di Luigi Spaventa, non certo di scuola anticapitalistica e statalista.

E sono proprio quei germogli di critica all’eccesso di statalismo e di assistenzialismo che, senza uno sbocco di governo, crescono e si rafforzano, e dispiegano tutta la loro forza al momento dell’effettivo avvio di una possibile politica dell’alternanza, nei primi anni ’90. Il neonato PDS appoggia eticamente l’inchiesta di Mani Pulite, che nel suo repulisti anticorruttivo, di certo ha una forte matrice liberale. Poi sarà lo stesso PDS ad appoggiare tutti i governi tecnici (con politiche di stampo liberale e liberista); infine il centro-sinistra arriva al governo con Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato (1996-2001). Ed è qui la cartina di tornasole dell’identità liberale, celata ma pur sempre presente in quei governi.

Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto il rapporto con i governi tecnici. Perché questi “professoroni” (come dispregiativamente vengono chiamati dalla destra e dalla parte più radicale della sinistra) liberali e tecnocratici piacciono tanto alla sinistra riformista, in tutte le sue forme? Qui a parere di chi scrive emerge un’enorme falla nella gestione del consenso tipica del PCI e delle sue successive evoluzioni. La sovrastruttura ideologica social-comunista viene difesa di fronte all’elettore. Ad ogni costo, fino a scadere in un’ingessatura retrograda delle proposte politiche. Di contro, occorre innovare, essere una “forza responsabile”, “rispondere all’Europa”. Ed ecco il grande e grossolano dualismo che divide il mondo liberale dalla sinistra. L’approccio politico, banalizzando, è più o meno il seguente. Siamo collaterali con il sindacato, ma introduciamo “noi” le prime forme di flessibilità (pacchetto Treu, 1997). Siamo con i pensionati, senza se e senza ma, ma votiamo la riforma Dini (1995). Siamo socialisti, ma i nostri consiglieri economici appartengono al mondo liberale (Nicola Rossi e Franco Debenedetti, entrambi consiglieri economici del PDS ed eletti nelle sue liste, sono stati entrambi presidenti dell’Istituto Bruno Leoni!). Ed ecco che il governo tecnico è il mondo migliore per porre in essere politiche liberali, a tratti liberiste e rigoriste, senza tradire la propria sovrastruttura ideologico-culturale (il prelievo forzoso sui conti correnti lo fece Amato, la riforma delle pensioni Dini, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali Ciampi…loro, i tecnocrati…pochi ricordano che i voti del PDS non sono mai mancati).

Dunque una sinistra, quella della seconda Repubblica che si avvia a porre in essere quelle politiche “moderatamente liberali” di cui il paese aveva forte bisogno, senza però tradire di fronte al “popolo” le proprie matrici culturali (strategia peraltro totalmente perdente dato che il c.d. “popolo” nel frattempo veniva sempre più attratto dal messaggio chiaro, univoco e semplificato del fronte forza-leghista). La vera natura del centro-sinistra liberale viene però fuori in quegli anni in cui, scevri dalla copertura del “tecnico”, ci si trova a “dover mettere la faccia” sulle riforme. E qui, sempre per riprendere la nostra utile parentesi sostanziale, ricordiamo alcuni provvedimenti. La liberalizzazione del mercato dell’energia fu uno degli esperimenti più avanzati d’Europa e quei decreti portano la doppia firma Letta-Bersani; lo stesso Bersani ebbe grande consenso come ministro del secondo governo Prodi con le c.d. “lenzuolate” di liberalizzazioni. Sul fronte scuola-istruzione con il centro-sinistra si avvia il “decentramento e l’autonomia scolastica”; sul fronte Pubblica Amministrazione si avvia la c.d. “aziendalizzazione” (decreti Bassanini). La stessa stagione di privatizzazione dei “gioielli pubblici” attraversa il decennio dei governi tecnici e dei governi del centro-sinistra. Ovviamente in tal quadro non mancarono mai i mal di pancia ed i passi indietro (si pensi alla caduta del governo Prodi ad opera del Partito della Rifondazione Comunista sulle tematiche del lavoro) tant’è che ancora oggi l’identità liberale della sinistra, al netto degli elementi fattuali citati, non è certo verità storica.

Fin qui una (forse utile) carrellata di dimostrazioni storico-empiriche su questa strana “simpatia” tra le istanze liberali e la sinistra italiana, compresa quella di matrice post-comunista; mancano però ora due elementi essenziali del ragionamento: 1) E in tutto ciò, la destra?; 2) Perché è essenziale portare proprio l’ideologia liberale all’interno del PD, soprattutto in un momento in cui le politiche neo-liberiste vengono considerate da più parti (in modo assurdo a parere di chi scrive) come uniche responsabili della crisi economica del paese?

Premetto che la risposta ai due punti di cui sopra è fortemente interrelata. Iniziamo dal ruolo della destra. La destra italiana, contrariamente a quanto avvenuto negli altri paesi dell’Europa occidentale, è sempre stata fortemente impermeabile alla cultura del liberalismo sostanziale. Certo un’identità formalmente liberale si è riscontrata, oltre che nei c.d. “partiti laici di governo” (comunque mai definiti “di destra”), nella prima Forza Italia. Guardando però al citato “piano sostanziale”, la “rivoluzione liberale” promessa da Silvio Berlusconi è rimasta lettera morta. Durante gli anni del berlusconismo si è assistito ad un aumento, oltre che del debito pubblico, del peso dello stato sull’economia; le leggi in materia di giustizia, dietro un malinteso garantismo, hanno molto spesso favorito clientele e comportamenti opachi, lontani anni luce dalla “cultura mercatista” dei paesi anglosassoni. Negli anni della c.d. “seconda repubblica” i depositari di istanze liberali sono state più che altro le forze di centro (dall’UDC di Marco Follini fino a Scelta Civica) che, in ogni caso senza successo elettorale, proprio attraverso la comune identità liberal-democratica (oltre che cattolico-democratica) hanno tentato di avvicinarsi al mondo del centro-sinistra. Ma proprio l’irrilevanza elettorale di tale forze e l’insussistenza sostanziale delle forze della destra hanno portato la sinistra, spesso più per sottrazione e senso di responsabilità che per piena consapevolezza culturale, ad abbracciare politiche liberali. La motivazione di tale vero e proprio paradosso è da ricercarsi nelle matrici culturali della destra italiana: da un lato il “corporativismo” di stampo post-fascista, dall’altro l’ideologia cattolico-conservatrice che, in un paese “vicino” (anche geograficamente) alla chiesa romana (e quindi al cattolicesimo maggiormente “puro” rispetto alle contaminazioni culturali), ha portato enormi istanze c.d. “sociali”5 (trasformate, nel tempo, non senza la compartecipazione dell’italica corruttela, in politiche assistenzialiste ed antilegalitarie). Dunque valori come la trasparenza, la legalità, la tutela della libera concorrenza, hanno trovato ospitalità nella “sinistra” più che nella “destra”. Ovviamente la nostra destra ha avuto anche molte e nobili eccezioni, come ad esempio il tentativo di Gianfranco Fini di creare una destra di stampo “gaullista” (quindi nazional-liberale); il fallimento elettorale e la campagna di stampa avversa sono però la testimonianza che tali tentativi sono stati “l’eccezione”, non certo la “regola”.

Ciò posto non possiamo che arrivare a concludere che le istanze liberal-democratiche non solo “possono”, ma ad avviso di chi scrive “devono”, trovar casa nel nuovo PD di Matteo Renzi. Il multiculturalismo che è valore fondante nel PD non può che ospitare, assieme alla cultura social-democratica e cattolico-democratica, anche la cultura “liberale”. A questo punto, sempre per abbandonare il mero formalismo di disquisizioni teorico-politiche certamente non in grado di risolvere di per se stesse i grandi nodi della società italiana, è dovere suggerire una piattaforma, ideale e programmatica, per il nuovo corso del “PD-liberale”. E dunque, ci si chiede: “perché divenire liberali?” “A quali istanze e bisogni si va a rispondere?”. Per rispondere a queste domande non posso che citare una lettura di grande interesse (e di grande importanza per la mia personale formazione) dal titolo “Il liberismo è di sinistra”6. I due economisti, accusati durante una nuova trasmissione televisiva di “essere di destra”, rispondono con questo libro dal titolo chiaramente provocatorio. La lucida analisi dei due economisti, peraltro ripresa in altre forme da alcuni editoriali di Luca Ricolfi scritti per il sole 24 ore nel mese di marzo 2015, mettono in luce la difficoltà (e quindi l’esigenza) della società italiana a dar voce a chi è fuori dai tradizionali canali della rappresentanza. Avere un mercato del lavoro con meno barriere all’entrata, favorisce l’ingresso di fasce della popolazione finora escluse (e ricordiamo a tal proposito l’eretico Pietro Ichino con le sue ricerche sul mondo del lavoro, spesso ghettizzate all’interno del suo stesso schieramento di sinistra); uno stato “meno presente”, ma arbitro dell’economia, favorisce le forze private “che sanno stare sul mercato” (ricordiamo il dossier dello stesso Giavazzi dove si calcolano in 10 mld di euro i finanziamenti indiretti alle stesse imprese pubbliche!). L’università pubblica, ad esempio, crea il paradosso che il consumatore più ricco ha un suo peso sulla fiscalità generale; l’estrazione del “giusto profitto” del consumatore, attraverso un meccanismo tipicamente privatistico, creerebbe la possibilità di dare borse di studio alla fascia più debole della popolazione. Di esempi di tale tonalità ve ne sono a migliaia, e di numeri a supporto altrettanti e, come si vede, non si sta parlando del neo-liberismo (o, come lo chiamano gli osservatori più intransigenti “turbo-liberismo”) tipico della deregulation del mercato finanziario anglosassone; qui si parla, al contrario, di “mera economia reale”, di efficienza dei mercati dei beni e dei servizi, di tutela del lavoratore e del consumatore (la complessità della tecno-finanza va certo regolata al meglio, ma in questo l’Italia, una volta tanto, è forse più maestra che scolara). Rimandando poi tale trattazione più scientifica a successivi scritti, il vero punto logico-politico è questo: se la parola “sinistra” è oggi sinonimo di “uguaglianza e giustizia sociale”, di certo il liberalismo può essere fattore propulsivo del raggiungimento di tali “ideali assoluti”. Troppo spesso, a sinistra si sono infatti confusi “obiettivi e strumenti”: l’articolo 18, l’università solo pubblica etc. non possono essere “valori non negoziabili” (in questo l’ideologia post-comunista assomiglia molto al cattolicesimo più retrivo!); l’eguaglianza, la giustizia e la legalità sono “i veri valori non negoziabili”. Lo strumento per raggiungerli non può che essere flessibile nel tempo, in funzione dell’evoluzione del contesto storico e sociale. In tal senso la “frontiera liberale” può, a mio avviso, veramente rappresentare il “sol dell’avvenire” per il PD, per il centrosinistra (questa volta, si noti, senza quel “trattino” tanto caro alle classi dirigenti post-PCI e post-DC), e soprattutto, per il paese del futuro.


1 L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

2 Giova qui sottolineare un’essenziale elemento terminologico. I “miglioristi” (tra cui Giorgio Napolitano”) erano quell’area del PCI che riconosceva il pensiero liberale ed in alcuni casi liberista, e lo faceva proprio. Non si poteva però parlare di “area riformista”, o di “area liberale”; il termine “migliorismo” nasce proprio dall’esigenza di non far trasparire una corrente-controcorrente all’interno dell’egemonica ideologia socialista del PCI.

3 Per un approfondimento sul tema cfr. Enrico Berlinguer, “La questione morale”, Aliberti editore.

4 In tal senso Enrico Berlinguer sarebbe molto più rigorista di tutti gli uomini politici odierni, secondo i quali, con un debito pubblico esponenzialmente più alto di quello contro cui si scagliava il leader del PCI, “si muore per eccesso di rigore”!

5 Si veda a tal proposito Giulio Tramonti, “La paura e la speranza”. Il libro, durante i primi anni della crisi economica, ha rappresentato un vero e proprio manifesto della “nuova destra”, critica verso la globalizzazione ed “antimercatista”.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, “Il liberismo è di sinistra”.


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Scritto da
Marco Rotili

Classe 1987. Laureato (summa cum laude) in Economia Aziendale nel 2011 e vincitore per il triennio 2015-2017 di un PHD presso il Dipartimento di Economia Aziendale della "Terza Università" di Roma. I suoi interessi di ricerca riguardano l'economia aziendale, la corporate governance e la finanza d'impresa; su tali tematiche ha scritto articoli scientifici presso riviste specialistiche nazionali. Dopo una breve esperienza professionale in SACE e' ora junior-analyst presso una primaria public authority. Nel tempo libero si interessa da sempre, oltre che di economia, di questioni socio-politiche.

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